Carlo Cuppini

venerdì 28 gennaio 2011

Disperanza, favola di fine regime

Tirava vento dal Sud. E forse per questo, dopo Tunisia, Algeria, Albania, Egitto e Yemen, alla fine anche l'Italia ebbe quel moto d'orgoglio e amor proprio in cui nessuno ormai credeva più. Neanche si fossero messi tutti d'accordo, la gente una mattina uscì di casa e andò ad assaltare i palazzi del potere, le sedi del Governo, le case del Presidente e dei suoi berluscones. Ognuno si mosse per sé, spinto da quel forte Libeccio che portava con sé la sabbia dei deserti africani e gli umori di una rabbia incontenibile e giusta. Ognuno si mosse per sé, ma tutti si mossero insieme: e si incontrarono nelle piazze e nelle strade, e i palazzi vennero messi a ferro e fuoco. Sulle prime intervenne l'esercito, violentemente; ma già nelle prime ore del pomeriggio i militari iniziavano a passare dalla parte della rivolta. Tutto veniva incendiato e rovesciato. Certi politici sorpresi per le strade venivano malmenati e insultati; altri, chiusi nelle auto blu, venivano trascinati fuori a forza dai finestrini sfondati, e massacrati di botte, mentre le auto bruciavano lì accanto. Le porte furono sfondate, fiumane di gente invadevano i corridoi altisonanti dei palazzi, delle ville, delle residenze, e mettevano a soqquadro ogni cosa, incarnando tutti insieme, collettivamente, la furia sublime di qualche ancestrale divinità della giustizia.

Quando fu chiaro che non aveva scampo, il Presidente imitò accortamente i suoi omologhi maghrebini: come il tunisino Ben Alì e la moglie, in particolare, iniziò a infilare tutti i suoi averi in un valigione, pronto a correre poi sul tetto della sua residenza dove un elicottero lo aspettava per portarlo in Libia o in Russia. Dato che Hammamet non ispirava più alcuna sicurezza... Che tempi!

Così il Presidente si infilò nella borsa Arcore e una ventina di altre ville...
...cacciò dentro Rete4, Canale5, Italia1 e tutta Mediaset, compreso Emilio Fede ficcato giù insieme ai calzini, più una mezza dozzina di canali televisivi locali...
...la Banca Mediolanum e tutte le sue filiazioni...
...la Mondadori, l'Einaudi, la Frassinelli, l'Electa, Urania, il Mulino, Sperling&Kupfer...
...il Giornale, Automobile Club, Casabella, Casa Viva, Ciack, Topolino, Cip&Ciop, Colora Disney, Colora Winni the Pooh, Cucina Moderna, Donna in Forma, Donna Moderna, Interni, Intimità e pure Internazionale, Focus, Sorrisi e Canzoni, L'Enigmistica di Minnie, Vogue, GQ, La macchina del tempo, La cucina Italiana, Love Story, Marie Claire, Men's Healt, Panorama, Paperino, Prometeo e la Panini con milioni di buste di figurine ancora chiuse...
...tutti i Blockbuster, la Medusa e Pentafilm...
...il Milan...
...le telefonie Blu e Albacom...
...la Fininvest e Publitalia...
...il centro commerciale di Milano3, tutta la catena della Standa e quella di Esselunga...
...cinque o sei assicurazioni e una decina di altre organizzazioni finanziarie...
...il teatro Manzoni a Milano...
...setto o otto agenzie immobiliari...
...infine si preoccupò del PDL (per poco non se ne andava senza pensarci!) e mise in valigia le sedi del partito e le bandiere, le spille di Forza Italia rimaste negli scatoloni, i Circoli della Libertà con dentro la Meloni, i Cd di Apicella, e poi, con una sola manata, tirò dentro Bondi, La Russa, Cicchitto, Capezzone, Bertolaso, Belpietro. E la Minetti. La Carfagna a quel punto si imbestialì.

La folla premeva alla porte gridando e il Presidente dovette lasciar perdere tutto quel che ancora restava da prendere (che non era poco), e darsela a gambe. Ma non prima di avere infilato in valigia anche una dozzina di troie di professione (regolarmente e generosamente acquistate, sia chiaro) che vennero ficcate giù anche loro vicino ai calzini, per la gioia di Emilio Fede, che poté così ingannare il tempo del viaggio con passatempi manuali. E ficcò giù anche un bel po' di berluscones che stavano lì a piagnucolare, e dicevano: 'non lasciarci qui, noi ti apparteniamo!'. Ne prese un due o tremila, tutti gli altri (una ventina di milioni suppergiù) non ci fu verso di infilarli in valigia, e dovettero restare a terra, molto amareggiati.
Sfondarono la porta dalla stanza del Presidente mentre l'elicottero si staccava dal tetto. Il Presidente faceva segnacci sporgendosi dal finestrino, alzava il dito medio di entrambe le mani furioso per via dei tanti beni di sua proprietà che era costretto ad abbandonare. Dal basso gli spiegavano pacatamente che, se per caso fosse ridisceso, lo avrebbero scotennato seduta stante, e poi lo avrebbero ucciso lentamente, a forza di sputi. E che stesse tranquillo: gli avrebbero risparmiato il processo, dato che i tribunali non gli erano mai piaciuti.

I rivoltosi sentirono le grida dal Presidente spegnersi, via via che l'elicottero si allontanava. Quando scesero di nuovo in strada, tutti dovettero accorgersi di cosa era successo. Il Presidente, portandosi via le sue cose, si era portato via tutto! Televisioni, libri, cibo, elettrodomestici, case, palazzi, cinema, teatri, ospedali, quartieri, strade, città, persone. Si era portato via tutto questo, perché questo era suo, non perché avesse rubato, beninteso: lo aveva comperato. Insomma, in Italia non restava quasi più niente, una volta sparite le proprietà del Presidente. Qualche cosa qua, qualche cosa là, sì, ancora restava; ma era poca roba: dominava per lo più il senso di una grande radura spaesata, un'epocale tabula rasa, un deserto silenzioso e vibrante.
Le persone esitavano, cercando di riambientarsi in questo nuovo spazio vuoto, ampio e libero. Dove c'era urgentemente bisogno di fare qualcosa, di mettere in piedi qualcosa. Di darsi da fare.
E lentamente, tutti si accorsero che era meraviglioso. Tutto questo era meraviglioso. Talmente meraviglioso che i anche i rivoltosi più inferociti dimenticarono i loro feroci propositi verso il corpo del Presidente, e si misero a pensare a tutt'altro.

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