Carlo Cuppini

mercoledì 14 marzo 2012

Oltre il realismo della "stanza accanto" - Come ci insegna l'esperimento Milgram

Articolo pubblicato su "Alfabeta2", n. 17, marzo 2012

1.
Tra il 1961 e il 1963 il giovane psicologo statunitense Stanley Milgram condusse un esperimento di psicologia sociale destinato a gettare una nuova, inquietante luce sui fondamenti dell’etica e del comportamento umano. Il dispositivo di ricerca era semplice: le “cavie”, ignare del funzionamento e degli scopi reali dell’esperimento, erano incaricate da un finto scienziato di infliggere scariche elettriche ad altre cavie (finte), ogni volta che queste fornivano una risposta sbagliata ai quiz proposti. A ogni errore la scarica elettrica aumentava di intensità, fino al livello definito “attenzione: scossa molto pericolosa”. L’esperimento dimostrò statisticamente che persone “normali”, selezionate a caso, possono essere disponibili a infliggere altissimi livelli di sofferenza ad altri esseri umani, a sangue freddo e nella totale assenza di motivazioni: il 40% dei partecipanti si spinse fino al penultimo livello (“scossa molto intensa”), prima di protestare e ritirarsi; il 30% continuò fino al livello più alto, che portava le finte cavie a una simulata perdita di conoscenza, dopo grida, suppliche e convulsioni. Naturalmente gli “addetti al pulsante” non sapevano di essere essi stessi il vero oggetto di studio, né potevano immaginare che fosse tutta una messa in scena e che non esistesse alcuna scarica elettrica. L’esperimento si articolava ulteriormente: la disponibilità a torturare veniva studiata in funzione di diverse configurazioni spaziali. In alcune sessioni “torturatori” e “torturati” erano posti molto vicini, a distanza di contatto fisico; in altre veniva frapposta una maggiore distanza, ma all’interno dello stesso ambiente; ancora, il “torturatore” veniva portato in uno spazio contiguo, da cui poteva vedere attraverso un vetro ma non sentire le reazioni del “torturato”; infine si dava la condizione dell’isolamento fisico completo tra i due soggetti. Gli esiti mostrarono che a ogni passaggio di distanziazione i partecipanti erano pronti a spingersi un po’ più in là nell’obbedire ciecamente al compito e quindi nell’infliggere dolore.
L’esperimento nasceva sulla scia dello sgomento ancora fresco per le atrocità compiute dai nazisti: Milgram trasse ispirazione dal processo a Eichman, che si stava svolgendo a Gerusalemme, lo stesso evento che influenzò Anna Harendt nell’elaborazione di La banalità del male. Ma finì per rivelare che chiunque, anche in una società democratica, è potenzialmente pronto a ricoprire un ruolo analogo a quello del carnefice nazista. Persone “normali” compivano un crimine in assenza di movente, semplicemente perché gli veniva detto che non stavano affatto compiendo un crimine: lo certificava la figura dello scienziato (finto) che si presentava come garante dell’utilità, della legalità e della normalità della situazione.
L’esperimento creò sconcerto. Venne ripetuto e riformulato anche da altri ricercatori, con la comprensibile aspettativa di vedere smentiti i risultati. Un’ultima versione risale al 2009, attualizzata in relazione al fenomeno del reality show. Le conclusioni di Milgram sono sempre state confermate.

2.
Perché tornare a parlare di Milgram, oggi, nell’ambito di una riflessione sulla letteratura, sull’arte e sul linguaggio?


L’intera vicenda offre importanti indicazioni sulle modalità di rappresentazione della realtà, nella misura in cui rivela che è possibile, di fronte a situazioni identiche, assumere comportamenti opposti. Lacanianamente, i risultati dell’esperimento Milgram invitano a delle considerazioni sui linguaggi con cui ci rapportiamo alla realtà, e grazie ai quali diamo senso alle nostre azioni all’interno di quel linguaggio che è la realtà. Sono chiamate quindi in causa le pratiche di chi il linguaggio lo utilizza nel lavoro poetico, artistico e intellettuale. Attualmente da più parti si auspica un maggiore interesse della scrittura e dell’arte per la realtà, attraverso rinnovate forme di impegno. Sarebbe forse utile ripartire da Milgram per capire meglio di cosa parliamo quando parliamo di realtà, e di realismo.
Cosa è accaduto nel mezzo secolo che ci separa dalla formulazione dell’esperimento? Oggi in effetti siamo sempre lì, pronti a spingere quel bottone. Quotidianamente produciamo dolore e morte a volontà: se non la infliggiamo direttamente spingendo un pulsante, è pur vero che la commissioniamo, ne condividiamo la responsabilità, la tolleriamo o ratifichiamo: in ogni caso la perpetuiamo attivamente, magari perché essa è un prodotto secondario – ma inevitabile – nel processo di produzione di ciò che desideriamo ed esigiamo. Come nell’esperimento Milgram (come nella Germania nazista, come nella guerra del Vietnam citata da Milgram nella conclusione del suo Obedience to Authority del 1974) c’è un’autorità “universalmente” riconosciuta che si fa garante e solleva i singoli dalla responsabilità (legale ma anche morale) delle scelte individuali: questa autorità è costituita oggi primariamente dal Mercato, in sintonia con i sistemi politici e quelli mediatici a esso integrati. Tutto ciò che ha accesso al Mercato riceve automaticamente l’autorizzazione e l’autorevolezza necessarie. La merce è emblema di verginità: entrando nel Mercato, la merce riceve un battesimo e, come un neofita, viene rilavata da ogni peccato, riacquista l’innocenza, riceve un nuovo nome. In altre parole la merce porta con sé, compresi nel prezzo, tutti i gradi di distanziazione che de-portano nella “stanza accanto” di Milgram, azzerando l’empatia e consentendo, come nell’esperimento, di non darsi pensiero riguardo alla propria responsabilità nell’aumento del tasso di sofferenza globale. Parlo di migranti incarcerati e drogati nei CIE; di centinaia di migliaia di persone massacrate nelle guerre mediorientali; delle infinite vessazioni a cui sono sottoposti i Palestinesi; dei bambini costretti a lavorare per produrre i giocattoli dei nostri bambini (e nostri); dei milioni di morti per fame, sete e malattia a causa dell’eco(nomico)sistema di cui facciamo parte; delle violenze antisindacali e del saccheggio delle risorse nei quattro angoli del mondo. Ma anche dell’ecatombe quotidiana dei milioni di animali che vengono torturati e ammazzati per immettere nel Mercato qualcosa di eccessivo e, tutto sommato, futile.

3.
La grande conquista dell’ordine “democratico” globale non è tanto l’occultamento della colossale ingiustizia su cui esso si basa. Questa è sotto gli occhi di tutti: se per ipotesi ogni abitante del pianeta potesse improvvisamente godere oggi stesso dei diritti essenziali che la democrazia promette e rivendica universalmente, la società umana e il pianeta smetterebbero di esistere prima di domani. La cosa è talmente lampante che nessuno cerca di nascondere il fatto che la vertiginosa disparità è strutturalmente necessaria e che costituisce l’asse portante del sistema. La conquista veramente innovativa è piuttosto l’universalizzazione dell’“effetto Milgram”. Più illuminante del Principe di Machiavelli, Obedience to Authority indica a oligarchi e plutocrati globali l’ingrediente essenziale per esercitare il potere sulle masse e perpetuare la violenza dall’alto nel tempo presente: la distruzione dell’empatia, che si attua attraverso la distanziazione delle persone dal piano della realtà. La iper-mediatizzazione fa al caso: maggiore è la meta-informazione, minore è la capacità di reagire alla notizia; in questo senso ogni rimbalzo mediatico (e informatico) corrisponde a un grado di distanziazione nell’esperimento Milgram. Chi sta nella “stanza accanto” sa tutto, ma è disposto a compiere qualunque cosa, se l’authority solleva da ogni responsabilità morale e legale. Ecco che l’etica è rifondata sulla base della prossemica.
“Ama il prossimo tuo come te stesso”. Ci insegnano a considerare il precetto cristiano come un’affermazione rivoluzionaria, utopica e folle: ispirata dalla follia di un possibile amore sovrumano. Eppure, alla luce dell’esperimento Milgram, la sentenza sembra più una constatazione della natura umana che un’esortazione a superarla. Suonerebbe assai più eclatante: “Ama chi sta nella stanza accanto come ami chi ti è prossimo”.
C’è da credere che chiunque invocherebbe la grazia per il vitello-ingranaggio dell’industria alimentare, se venisse portato in prossimità delle atroci sofferenze cui la bestia è destinata. Che differenza c’è tra la sofferenza di un animale e quella di un umano? A giudicare dallo sguardo, nessuna. Chi non farebbe di tutto per salvare una persona che sta rischiando la vita dall’altra parte dalla strada? Una legge, peraltro, obbliga a farlo. Però l’“omissione di soccorso” sembra costituire reato solo nella distanza ravvicinata; se così non fosse sarebbe imperativo salvare ogni giorno la vita di centinaia di migliaia di persone, alle quali basterebbe la piccolissima parte di ciò che altrove viene sprecato. Si sta di fatto consumando una grandiosa omissione di soccorso globale, un olocausto di dimensioni inimmaginabili di cui nessuno alla fine sarà chiamato a rispondere.

4.
Veniamo all’arte e al linguaggio. I quali oggi difettano certamente della capacità di impegno, ma non di realismo. Non del realismo della verosimiglianza, perlomeno. La descrizione della realtà è anzi pervasiva, esaustiva e soddisfacente, come la sua denuncia. è tutto un pullulare di “libri neri” o di volumi che qualcuno di molto potente “non ti farebbe leggere mai”. È consentito dire tutto, indicare l’orrore, evidenziare statistiche che fanno rabbrividire. Si può anche pubblicare per Mondadori un libro che critichi aspramente la proprietà di Mondadori. Questa forma di realismo è consentita quasi senza eccezioni: è pur sempre un realismo “sincronizzato” con le caratteristiche del Mercato e dei sistemi ad esso integrati. È il “realismo della stanza accanto”, che non porterà nessuno ad alzarsi dalla sedia o a staccare il dito dal bottone della scarica elettrica. È il realismo del finto scienziato dell’esperimento, che informa dettagliatamente i partecipanti riguardo alle sofferenze che essi stessi stanno procurando ad altre persone al di là della parete.
Si potrebbe tentare tuttavia la strada di un realismo non-autorizzato, andando clandestinamente, con il linguaggio, dall’altra parte: nella stanza della realtà, in prossimità delle conseguenze delle nostre azioni, per mettersi in condizione di non spingere mai più quel pulsante. Neanche distrattamente, neanche se incoraggiati e rassicurati dall’ideologia che ci avvolge e pervade in modo inerziale l’intera sfera del linguaggio. Questo non significa parlare di certe cose: piuttosto, relativamente alla letteratura, scrivere in un certo modo, forgiare il linguaggio in forme irriconoscibili perché possa essere usato come piede di porco per scardinare quella porta, o come grimaldello per far scattare la serratura, o come testa d’ariete per abbattere il muro. Un realismo dell’approssimarsi, della vicinanza, dell’empatia tra la parola e la cosa, dell’aderire alla realtà, che non significa – ribadisco – parlare della realtà. Certamente sarebbe un realismo irriconoscibile, tanto quanto irriconoscibile è la realtà che ci sfugge, anche quando è a un millimetro dalla nostra pelle, anche quando si tratta della nostra pelle.
Va specificato che non è soltanto attraverso la coscienza del dolore che il reale ci convoca a sé: il dolore, però – il dolore degli altri, il dolore oggetto dell’esperimento Milgram – è un indicatore efficace per comprendere schiettamente la faccenda. Si pensi però alla discesa non-autorizzata nel reale di Francesco d’Assisi, orientata tanto alla possibilità reale della gioia quanto a quella del dolore – l’importante era che si trattasse del piano reale. Anche lì era una questione di prossemica nei confronti dell’altro: prossimità fisica, concettuale, spirituale (dove per “altro” si deve intende “gli altri”, ma anche “l’altro in me stesso” e “l’alterità assoluta”).
Probabilmente Simone Weil intendeva questo quando scriveva nelle Intuizioni precristiane che “l’immaginazione è l’inferno”. L’immaginazione weiliana è l’irrealtà che ci conserva infantili, insoddisfatti e inoffensivi: è la “stanza accanto” alla realtà, da dove spingiamo bellamente il pulsante della scarica elettrica, senza scopo e senza darci pensiero. L’immaginazione weiliana è tutta la libertà che ci è consentita, la quale, nel venire esercitata, ci àncora a questo sistema politico divenuto ormai fatto antropologico. E la “stanza accanto” è senza dubbio la terra promessa del popolo della libertà.

5.
Credo che compito, responsabilità e rischio del poeta impegnato sia far saltare il tavolo del “realismo della stanza accanto”; tirare il freno e scalare la marcia per de-sincronizzarsi rispetto alla “milgramizzazione” che rende tutto contiguo e connivente nel grembo del Mercato; tentare una nuova, non-autorizzata, sincronia (empatia, prossimità) con l’altro. Discendere, perfino, con i piedi e con il linguaggio, nel reale, per essere prossimo a tutto, e a ogni cosa singolarmente.
Edoardo Sanguineti – con il suo portato rivoluzionario tanto eretico da apparire ortodosso – non ci indicava forse questa strada dichiarando che “le avanguardie sono state l’unico realismo del Novecento”?
Il Novecento non è il nostro secolo. Le avanguardie stanno nei musei e nei sussidiari. Ma di certo tornare a forme di realismo di mimesi, di denuncia, di documentazione, di epica, non sarà sufficiente per arrivare ad avere un brivido che si propaghi dalla nostra colonna vertebrale fino alla realtà circostante; scuotendoci, scuotendola. Bisogna rischiare molto di più. Realismo come inizio della (iniziazione alla) realtà. La perfetta letizia della decrescita, il compiuto realismo del disarmo – materiale e mentale – ci spingerebbero verso un silenzio assoluto: il silenzio del dopo-catastrofe, con la catastrofe in corso.
È possibile contrastare la tentazione del silenzio riaprendo ancora una volta, radicalmente, i conti irrisolti tra il linguaggio dell’arte e il nostro destino?

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