Carlo Cuppini

lunedì 19 aprile 2021

L'onere della prova, le abluzioni rituali, il pensiero complesso

Due domande:

1) Quando viene limitato diritto, a chi spetta l’onere della prova?

2) Di fronte al disinnesco intellettuale delle abluzioni rituali, è ancora possibile l’esercizio di un pensiero critico articolato?

Due riflessioni:
1) 
Una sentenza del Tribunale di Weimar rimuove l’obbligo di mascherina e il distanziamento per i bambini all’interno delle scuole locali. La motivazione è la stessa addotta in numerose occasioni dal TAR del Lazio e dal Consiglio di Stato italiano sull’obbligo di mascherina prima, e sulla didattica a distanza poi: difetto di proporzione, di prove e quindi di motivazione.
“I bambini sono fisicamente, psicologicamente e pedagogicamente danneggiati e i loro diritti sono violati senza alcun beneficio per i bambini stessi o per terzi” afferma il Tribunale tedesco. Quindi le misure imposte violano il principio di proporzionalità radicato nello Stato di diritto: “Secondo questo principio, denominato anche divieto di eccedenza, le misure volte al raggiungimento di uno scopo legittimo devono essere adeguate, necessarie e proporzionate in senso stretto.”
Con questa affermazione si sottolinea un principio essenziale del diritto, già ribadito anche dai tribunali italiani: l’onere della prova spetta sempre a chi ritenga che la sospensione di un diritto sia necessaria al perseguimento di un obiettivo preminente, e non a chi pretenda di continuare a beneficiarne.
Questo punto è meritevole di attenzione, dal momento che tutta la storia del covid è anche la storia del sovvertimento di questo principio: qualcuno, in origine, ha deciso che, in virtù di una minaccia indefinita, la minaccia stessa dovesse essere considerata assoluta (“la peste”, “la guerra”); e che fosse quindi legittimo sospendere una serie di diritti fondamentali auto-sollevandosi dall’onere della prova. L’onere della prova è stato sostituito dal principio – di inedita attuazione e auto-fondantensi - della “massima precauzione”. Massima precauzione presunta, e, appunto, fondata su ipotesi spesso mancanti di dimostrazione.
Oggi una serie di studi portano le prove di segno opposto, smontando rapidamente numerose parti del mito costruito a monte sulla base di congetture: la possibilità di contagio all’aperto, quella di infezione attraverso il contatto con superfici contaminate, il ruolo della scuola nell’amplificazione del contagio, l’ineluttabilità della gestione ospedaliera del malato sintomatico, solo per fare qualche esempio.
Una dimostrazione lampante di questa mentalità rovesciata si trova in un recente tweet (14 aprile) di Roberto Burioni, uno dei più influenti aedi - in qualche modo più o meno indiretto anche ispiratore - della gestione della crisi: “Perché non hai detto prima che le attività all’aperto sono meno pericolose? Perché i dati che mi permettono di dire che sono meno pericolose sono disponibili da pochi giorni, e io non sono in grado di predire il futuro.”
Si dovrebbe provare a rovesciare il ragionamento: che cosa ha indotto a considerare legittimo agire – contro il diritto e la Costituzione – sulla base di una congettura e in assenza di prove che il contagio si diffondesse tanto significativamente all’aperto, al punto da disporre il confinamento domestico indiscriminato della totalità della popolazione, con tanto di droni, elicotteri, milioni di controlli di polizia, sanzioni, denunce penali, sollecitazione dello stigma sociale? (Confinamento che - lo sappiamo - è costato non poco in termini di mancata diagnosi/assistenza/cura per malattie non covid, di mancato esercizio fisico ed esposizione al sole, di mancata socialità, di psicopatologie dilaganti tra i giovani, di distruzione del tessuto socio-economico…)
Ancora: con quale legittimità si sono chiuse le scuole, contro il diritto e la Costituzione, sulla base della congettura e in assenza di prove che il contagio si diffondesse significativamente nelle scuole?
E con quale legittimità si sono imposte dentro le scuole misure lesive del diritto dei minori a un pieno e sereno sviluppo psicologico e all’apprendimento – contro “l’interesse superiore dei minori” che “deve essere considerazione preminente”(legge 176/1991) – sulla base della congettura e in assenza di prove che indossare le mascherine al banco sia significativamente utile, e che - per esempio - impedire ai bambini dai 3 anni di scambiarsi giochi, penne, contatti di ogni genere, anche mediati, fosse utile e indispensabile per contenere il contagio?
Si potrebbe continuare a lungo, parlando di coprifuoco, di chiusure di teatro, cinema, ristoranti e palestre, di moltissimi altri aspetti della gestione dell’emergenza che hanno “stressato” o scardinato il diritto, per i quali i decisori – e gli esperti chiamati a esprimersi sulle misure – hanno deciso di esimersi dall’onere della prova.

2) 
Ascrivere al piano del simbolico la crisi nel suo complesso – e i suoi singoli aspetti cruciali, non escluso quello della vaccinazione – è stata un’operazione culturale - non certo scientifica - che, tra gli altri effetti nefasti, ha comportato l’impossibilità di affrontare questioni complesse attraverso l’esercizio di un pensiero complesso. O pronunci un “sì”, o ti macchi del reato di lesa maestà. Questa è la storia intellettuale del covid. E c’è da credere che la fortuna di questo nuovo paradigma non terminerà con la fine della pandemia.
E non importa, per fare un esempio, che la dichiarazione dello stato di emergenza – senza che abbia comportato “l’apparizione” automatica di un piano di gestione dell’emergenza (come si è ben visto a ottobre) – sia esattamente ciò che ha permesso di importare in Italia, e di distribuire negli ospedali e nelle rsa, decine di milioni di mascherine perfettamente inutili, operando “in deroga a ogni disposizione vigente”. Non importa: a criticare quella decisione si peccava di lesa maestà e si era “negazionisti”. E anche oggi si pecca di lesa maestà, a ribadire quella critica a posteriori, alla luce della scoperta che ospedali e Rsa sono diventati di nuovo focolai devastanti e letali, durante la seconda ondata, anche grazie a ciò che lo stato di emergenza ha consentito di fare e non fare, privando la popolazione delle tutele e delle garanzie date dal normale funzionamento della democrazia.
Analogo discorso per i vaccini: oggi ci si sente dare del no-vax (pur se non si è affatto contro i vaccini in generale, né contro quelli anti-covid in particolare) se solo si ragiona sul fatto che l’enfasi e l’attesa messianica riposta sui vaccini, e la simbologia battesimale a essi connessa, possa avere indotto a mettere in secondo piano il tema della cure, ritardando di mesi (mesi in cui le persone morivano, e muoiono) l’elaborazione di adeguati protocolli di cura domiciliare (che ancora devono arrivare), e lasciando in vigore quelli esistenti, drammaticamente inadeguati. Tanto "o vaccino o morte". Con tutto che il più grande rafforzamento delle posizioni no-vax – probabilmente di sempre – non si deve all’efficacia dello loro campagne, ma alle modalità di comunicazione, inutilmente retoriche, riduzioniste e intimidatorie, degli “ultra-vax” di questi mesi: a partire dal giubileo dei selfie, passando per la sagra dei “non c’è nessun problema” (smentiti magari dopo 24 ore dalle decisioni degli enti regolatori) e dei “dagli al no-vax” (anche quando non si tratta affatto di un no-vax), fino all’aberrazione giuridica del pass vaccinale, proposto spensieratamente come fondamento di una nuova idea di cittadinanza da modularsi ad personam sulla base di dati biometrici.

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