Carlo Cuppini

domenica 12 dicembre 2021

"L'abete nel cerchio" di Enrico Macioci, poesie in fondo alla classe

Enrico Macioci è un narratore di razza, autore di romanzi stilisticamente vividi e coinvolgenti e tematicamente profondi. L’ultimo, Tommaso e l’algebra del destino (Sem, 2020), sembra una prefigurazione metaforica del tragico abbandono dell’infanzia a cui abbiamo assistito nei due anni di pandemia. Enrico è anche un acuto e coraggioso osservatore della realtà e del sistema della comunicazione (impossibile ormai scindere i due termini), capace di legare a un vasto universo di riferimenti culturali i fatti che riguardano tutti, restituendo profondità abissale al nostro presente schiacciato e assolutista.

Grazie a questo libro (L'abete nel cerchio, Marco Saya Edizioni, 2017) lo scopro poeta.
Da lettore, trovo nelle sue poesie dei “dispositivi liturgici” che dispongono la mente – sfidandola – a una meditazione laica, paradossale, accesa, implacabile. Non vigile assopimento nel nulla, ma immobile combattimento spirituale immerso nel divenire.
Una poesia di immagini talvolta ermetiche (nel senso di poesia ermetica), post-romantiche (pensando alla poesia visionaria e panica francese a partire da Rimbaud), che accendono contrasti vertiginosi, senza desiderio di pacificazione, al più di accettazione.
C’è spesso Dio, un Dio con la maiuscola. Figura letteraria o vero interlocutore spirituale? Non lo sappiamo, e non ha importanza. È un perno essenziale intorno a cui gira il discorso con se stesso e con le manifestazioni naturali ed esistenziali del Cosmo, del Tempo e del Destino. La figura dell'ultima speranza: quella di una riemersione dal lago, di una rivoluzione.
La prefazione di Marco Guzzi ci fa pensare che queste poesie potrebbe essere maturate nella vicinanza spirituale o culturale con la proposta che il noto poeta-filosofo-attivista porta avanti da anni.
È una poesia che non esita a dire "Io", in barba alla spersonalizzazione delle avanguardie poetiche novecentesche (a cui spesso, da poeta, io stesso mi impicco, tallonato dal mostro del linguaggio, divoratore dell'ombra gettata dal pronome personale). Ma è un Io che, nello stesso movimento di darsi, ambisce a superarsi: spiritualmente, paesaggisticamente, linguisticamente.
E forse si manifesta soltanto per porre in essere il tentativo di questo superamento.
Io è un altro, come ebbe a dire Rimbaud. Anche Dio è altro. Tutto è altro. E in questa alterità ogni connessione saltata e saltante potrebbe miracolosamente, fortunosamente, risultare ristabilita. Come per un insperato errore di sistema. O incappando casualmente nella "maglia rotta nella rete" (proprio "In limine" di Montale è citato in un testo).
In questa alterità da abitare e parlare, forse un solo posto ci è riservato: quello dei “cattivi”, “in fondo alla classe”.







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