Carlo Cuppini

lunedì 12 dicembre 2016

Ciao Cate (Lettera per Caterina Poggesi)

Ciao Cate,
Tu non ci sei più, la tua casa è vuota, ma io ti vorrei parlare.

L'immenso vuoto che hai lasciato, in me, come in tanti - centinaia di persone - è pieno di molte cose. Di sgomento, nostalgia, commozione. Di dolore e di ammirazione. Ma anche di gratitudine, bellezza, e gioia. Sembra strano... Di incredulità. Di senso di responsabilità, verso quello che ci hai lasciato, verso il modo in cui ci hai lasciati, verso la sfida che ci hai lanciato proprio mentre te ne andavi.

Hai fatto qualcosa di incredibile, Cate. Tremo a dirlo... ma ti è riuscito il tuo progetto più grande, più indecente, più audace. Il più scandaloso e il più umano.

Hai ancora una volta riunito una comunità - da quando ti conosco, dieci anni, non hai fatto altro che creare modi di esserci, insieme, sotto regole precise, che non appaiono tali, da te sottilmente orchestrate; hai sempre fatto questo: la regista di situazioni magiche, la "facilitatrice" di costruzioni collettive, l'animatrice di consapevolezze impossibili, di fervide relazioni creatrici. Lasciare semi nelle persone, discretamente, che modificassero il corso della giornata, il colore dell'esperienza, la direzione della vita.

In questi ultimi tuoi giorni - prima, durante la tua scomparsa - hai riunito un grande gruppo di persone che ti volevano bene, che si riconoscevano nelle tue tracce, nelle tue visioni. Una comunità coesa, tenuta insieme da invisibili ma potenti fili, che per quattro giorni o più si è spostata da una parte all'altra della città, per cercarti, pensarti, applaudirti, guardarti, sgomentarsi, ritrovarti, ringraziarti, salutarti, toccarti, piangerti, salutarti, trattenerti.

Per giorni e notti ci siamo spostati da Scandicci a Careggi, da Cango ancora a Careggi, alla Chiesa dei Cappuccini. Qualcuno, già prima, passando da casa tua, con te ancora presente, anche se incosciente; qualcuno accompagnandoti il giorno dopo fino a Livorno e a Castiglioncello, per gli ultimissimi atti. Una geografia di luoghi dell'anima a te cari.
In ognuno di questi luoghi cercavamo te, e trovavamo noi stessi, gli uni con gli altri.
E ogni volta ci ritrovavamo e ci riconoscevamo, ogni volta in modo più intenso e più dolente, ed eravamo grati di questo inatteso calore in mezzo a una distesa di gelo. E ci amavamo, amando questo rituale collettivo che ci era dato di vivere - atto comune di condivisione, compianto - sorretti dal pensiero di trovarsi ancora, più tardi, ancora tutti, per un'altra tappa di avvicinamento al distacco da te.

La grande festa di Fosca, selvaggia, energica, rumorosa, come l'avevi pensata. Musica, balli, travestimenti e grida, tutta la sera fino a notte. E chissà in quale baratro sprofondavi in quelle ore... o in quale corridoio di luce ascendevi.

La notizia della tua morte, il giorno dopo, a sera. Dunque era vero. Era possibile. Ed era accaduto. Ce l'avevano detto subito, una settimana prima, che era irreversibile, finale, questione di giorni o di ore. Ma chi ci poteva davvero credere? Un miracolo, si può sempre sperare. Lo stesso miracolo che ci tiene in vita ogni giorno, strutture così fragili come noi siamo, in mezzo al caos, al caso, agli incidenti della materia. Un miracolo deve succedere, soprattutto in questi frangenti. Il miracolo ti avrebbe ripresa per i capelli, ti avrebbe svegliata - pensavo senza dirmelo, senza farci troppo caso - come il principe azzurro la bella addormentata.

Il miracolo invece non era prolungare il calvario, concedendoti altre settimane.
Il miracolo è stato vederti nella bara, bellissima e intatta, la mattina dopo, domenica, piena di fascino silenzioso, assorta, con il sorriso che ti contraddistingueva, con i tuoi migliori vestiti di scena, viola, stivali pitonati, la spilla di Fosca sul petto. Bella, riposata, come prima della malattia. Come se questi sette anni fossero passati senza ombra del male. Unico segno del tuo stato, la posizione delle mani sovrapposte, troppo innaturale.

Poi il pomeriggio a Cango, in una bottega di falegnameria, per assistere alla tua ultima regia: una poesia intensa, dolente, che richiamava l'assenza, la distanza, parole di Elisa Biagini, attraverso le voci disincarnate di tre donne non vedenti.
Pubblico assorto e concentrato, appeso ai movimenti di quelle labbra, aggrappato all'apparire e sparire di quelle parole in mezzo alla polvere di segatura sospesa nell'aria. Seduti per terra, tutti accalcati.
Un lunghissimo applauso, che ti chiamava, ti richiamava tra noi, in mezzo al tuo lavoro, all'energia che hai evocato, una durata di mani che ti voleva trattenere. Che si illudeva di potere non finire mai.

Poi ancora a Careggi, alle Cappelle del Commiato, tra i tuoi parenti, tua madre, tuo padre, le tue sorelle, per vederti ancora un'ultima volta. E stringersi ancora l'uno all'altra, tutti quanti, idealmente, di nuovo lì.
Così serena e rilassata, sotto la zanzariera. Quasi l'imbarazzo di rubarti un momento di intimità estrema: il volto vero - ma di una verità spaventosa - ancora più che nel sonno, solo con se stesso, assorto, senza espressione o tensione, senza protezione.

Il giorno dopo, lunedì, il tuo funerale. La chiesa dei Cappuccini strapiena, la mattina, una mattina limpida e fredda, piena di sole, il vento spazzava via le foglie appena ingiallite dai rami, che l'autunno mite aveva finora risparmiato.
Tanta gente nel piazzale che non riusciva ad entrare. La bara sigillata.
Dov'eri? Già volatilizzata?
Noi c'eravamo, un corpo solo, fragile e potente nel lasciarsi andare, stentando a lasciarti andare.
I discorsi vibranti di un frate, che non ti aveva nemmeno conosciuta.

Dopo, tutti a mangiare ai Briganti, cos'altro ti saresti aspettata? Gli spaghettini aglio e pomodoro, un brindisi con un bicchiere di vino, ancora lacrime, ricordi, qualche risata.
"La Cate ha detto se si va tutti a mangiare."
Come dopo un incontro o uno spettacolo al Frau.

E noi tutti che adesso non sappiamo che fare. Come continuare.
Esattamente come in "Tangeri", quel tuo piccolo capolavoro, tre minuti di pura immersione in un sogno, e poi doversi all'improvviso svegliare, e andare.

Ecco. Hai sempre voluto mischiare l'arte e la vita, la vita e l'arte, attraverso un preciso progetto esistenziale. L'arte vissuta come vita. La vita vissuta come arte. Lo stesso sogno, lo stesso desiderio a sostenere entrambe. La tensione che, come nelle ore delle rivoluzioni, trasforma per un breve momento gli individui in esseri solidali, mille braccia e un solo cuore che batte, una sola intelligenza trasversale. Qualcosa che somiglia all'alchimia, e all'amore.

Ecco. Adesso sei andata ben oltre.
L'arte e la vita. La morte. Il tuo progetto più ardito.
Fa male pensarlo, sembra una retorica romantica e macabra. E so che se tu avessi potuto scegliere tra questo grande spettacolo o altre ore di vita, avresti scelto la vita.
Ma è andata così. Ed è stato perfetto così.
Niente di improvvisato. Preciso anche l'intermezzo comico del prete che prende il microfono, in mezzo al funerale, per chiedere di spostare le macchine che bloccano il passaggio "del tram".

Dobbiamo esserti molto grati per questa precisione. Per quanto di potente e grandioso – e fragile ma perdurante, anche se difficile da conservare – ci hai lasciato.

Che non è solo dolore, nostalgia, rimpianto, ricordi. È un compito, un progetto, una direzione, una responsabilità, uno stare, una promessa, un impegno, una sfida, un legame, un mistero, un'incognita, un'energia che non possiamo trascurare.

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Oppure ci sei. Forse mi sbaglio, e ci sei.
Sei lì, dietro il pesante tendone delle cose, della materia.
Come un fondale di teatro, scuro e polveroso, ma che qualcosa lascia trasparire.
La scena non finisce lì, dietro quello c'è un mondo, ogni teatrante lo sa. E forse quella è la parte migliore.
Ma vorrei sapere, adesso, come si può credere a qualcosa? A una religione, intendo, a un racconto del dopo, a una fisica delle cose?
Non si può credere a niente, se non per fede.
Meno che meno che tutto finisca in ciò che si misura e si vede.
Bisognerebbe credere a tutto, per umiltà minima, senza credere a niente, per intelligenza estrema.
Tutto può succedere, tutto può essere vero, perfino più vero del vero.
Psicomagia, avresti detto tu?
La psiche non ci crede, che si muore. Perché quello che crede lo crede davvero. E se credesse che tutto finisce nel nulla, non reggerebbe un istante, collasserebbe. La psiche la sa lunga, ma non ce la racconta tutta. Io mi fido della psiche. E il fatto che la psiche sussista, indica che noi non siamo condannati al non senso. Questo, più o meno, lo diceva Jung.
(E tu mi hai fatto arrivare più vicino al mio Jung, dopo molte mie letture, presentandomi il signore 'junghiano' che sarebbe stato il mio analista...)

Forse sei lì, dietro questa membrana, così onnipresente ed evidente che non la vediamo, come i pesci non vedono l'acqua, gli uccelli non vedono l'aria.
Forse da oltre la soglia ci guardi, ci rivolgi dei segni, avvicini le mani.
Forse, attraverso questa membrana, potremmo avvicinare le nostre mani, recitare degli alfabeti, fare delle danze rituali.
Forse una notte verrai nel sogno, se la membrana si potrà allentare quel tanto. (Chissà quanti, oltre a me, lo stanno pensando, sperando...)

O forse ci sei, dietro la membrana, ma sei girata dall'altra parte, rivolta ai tuoi campi, al tuo mare...
Allora ti potremmo intravedere, soltanto sentire, intuire il profilo, la sagoma in controluce.
E forse sarebbe più giusto così, senza starti a tirare da questa parte – ormai te ne sei andata.
Ma anche così, magari ogni tanto ti potresti girare...

La vita uguale all'arte, l'arte uguale alla vita. La morte uguale ad entrambe.
Che sfida spericolata... Che scandalo, che provocazione. Che idea esagerata che ci hai lasciato.

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Allora, Cate, cos'è che vive? Cos'è, di te, che potremo far continuare?
E non parlarmi di ricordi, della memoria. Niente mi sembra più triste e funerario della memoria, in questo momento, anche se riconosco il suo valore. Ma adesso mi fa solo arrabbiare.
Non trovo risposta, non c'è teorema. Forse non serve domandare...
Ma bisogna andare.

E le foto che ti scattavi durante le fasi peggiori delle terapie? Non si può non parlarne. Ancora un progetto, seriale, un dispositivo per documentare ogni ventiquattro ore la trasformazione del corpo, in soggettiva, il volto che perde i connotati, la bellezza sostituita dalla mostruosità. Tutto fissato, da te stessa. Con ironia, narcisismo o maniacalità? Senso dell'arte, senza altro.
E questo pensiero inquietante, questa domanda che non riesco a fare... Qualcuno avrà avuto il coraggio di fotografarti, distesa nella bara? Di certo, non ho dubbi, lo avresti voluto. Lo avresti fatto tu stessa se avessi potuto. Conclusione di un progetto concettuale che avevi avviato, che forse preludeva a questo finale.

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Chissà se hai mai pensato che la fine sarebbe stata un tale spettacolo, così partecipato, così vitale, una tale emozione che serpeggiava e ci traversava?
Chissà se, da morta, qualcosa ti è arrivato?
Ma ti rendi conto di quale intensità hai consegnato nelle nostre mani, mentre ti salutavamo?


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Ora, che fare di queste parole? A chi le posso affidare?
Sperare che, solo perché le ho scritte, ti arrivino là, oltre la membrana?
Portarle a Castiglioncello, da dove guardi il mare?

Oppure darle a tutti gli altri, a quelli in cui c'è una parte di Cate.

Dopo il funerale, ai Briganti, salutando, ho chiamato la Cristina – credo la persona a te più vicina – con il nome sbagliato. Lei mi ha sorriso, ha detto che ero la quinta persona che quella mattina la chiamava Cate.
Forse ognuno di noi, d'ora in poi, sarà per gli altri un po' Cate.

Noi continueremo a cercarti e a cercarci tra le cose visibili, i ricordi, i discorsi, le foto, e tra quelle invisibili. Noi ti porteremo dentro, ti porteremo avanti, non ti lasceremo cadere.
Tu, se puoi, fatti viva, ogni tanto, almeno con qualcuno di noi. Faremo passaparola, non preoccuparti. Fai sentire l'eco della tua bella risata.

Ciao Cate

PS
Prima di trascrivere questa lettera dal quaderno, ero in giardino a fumare. Orione si staglia per intero oltre i rami spogli del ciliegio, nel cielo limpido, nero. Una notte freddissima, il fumo si confonde al vapore. Da quelle parti è passata una stella cadente. Simona Nordera, il giorno del tuo funerale, ha scritto su fb: "Ho visto una luminosissima stella cadente. So chi me l'ha mandata." Chissà se eri tu anche questa volta...

PPS
A proposito di stelle... avevo scritto anche una poesia, prima di questa lettera. Eccola.



Alzo gli occhi, perché è lì che ti posso cercare
La notte limpida e fredda, le stelle, il fumo che sale...
Altre lacrime, tenui...
E penso a tua madre...

Un sole, sei stata, che irradia.
Ora cenere muta, che contempla il mare.

Non ti vedo. Non ancora. Nel buio.
Nello spazio siderale punteggiato.
Nel tempo senza orario, senza calendario.
Forse non sei ancora arrivata...

Ma so. Che ci sei. Che sei lì.
Nuova costellazione senza nome,
Linee mai viste tra le stelle di sempre.
Un volto nella mappa dello smarrimento.

Come una dea ragazza gettata nel cielo,
La sua immagine riprodotta sui vasi,
Il segreto dell'essere comune e speciale.
E niente e nessuno che la può trattenere.

Le fotografie... le risate... il colpo di teatro del tuo commiato.
Le pagine delle tue agende, fitte di frecce ordinate,
Tracce di una concreta utopia da modellare,
Cosmogonie di comunità, reali perché inventate.

Adesso,
Senza contare le sillabe
– come le stelle, le lacrime –
continuare a parlare

Di te, Cate.