Carlo Cuppini

domenica 19 settembre 2021

Dignità

Dal mondo della scuola e dell’università giungono storie di miseria, intimidazione e abuso di potere, tese a umiliare la dignità delle persone. Come quelle che ho raccontato nei giorni scorsi. Arrivano anche storie straordinarie di umiltà, dignità e scelte drammatiche, dolorose.

Vi prego di leggere fino in fondo questa lettera (che diffondo con il permesso dell’autore) di Marco Villoresi, professore di Letteratura Italiana dell’Università di Firenze.

Vi prego di diffonderla, se credete, anche in segno di solidarietà verso il professore dimissionario.

È una “semplice testimonianza” che dovrebbe essere inclusa nella contro-storia culturale di questa epoca terribile che stiamo cercando di scrivere, e di difendere dall'erosione dei significati che la narrazione delle abluzioni rituali e della “sana obbedienza”continuamente produce.


Questa scelta, insieme alle parole che la raccontano, insegnerà ai nostri figli a credere che anche nel momento più buio non tutto deve essere considerato perduto. 

Come oggi i “no” pronunciati 90 anni fa da 12 docenti universitari su 1200 ci danno la misura del coraggio possibile, della dignità necessaria. 

Grazie, professor Villoresi. 

Buon coraggio a tutte e a tutti. 


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La mia scelta di non avvalermi del Lasciapassare Verde. 

Cari tutti, 

mi permetto di rubarvi pochi minuti del vostro preziosissimo tempo per comunicarvi la mia scelta - una scelta ben più che minoritaria, verosimilmente, nell'Università italiana - di non avvalermi del lasciapassare verde. Questo breve scritto, lo dico subito, non ha alcun intento provocatorio o propagandistico. Si tratta di una semplice testimonianza - la mia testmonianza, inevitabilmente parziale, irriducibilmente soggettiva. Che vi chiedo di accogliere, comunque, quale che sia il vostro libero pensiero in merito all'argomento, come atto di doveroso e profondo rispetto nei riguardi di tutti gli studenti e di tutti i compagni di lavoro del Dipartimento di Lettere e Filosofia e dell'intera comunità accademica. 

Non entrerò troppo nel dettaglio delle motivazioni, universali o intime, che mi hanno portato a fare questa scelta. D'altronde, tutti voi avete sapienza e cultura in abbondanza per immaginarne in gran numero e varietà: di ordine politico, ideologico, giuridico, costituzionale, razionale, scientifico, sanitario, etico, psicologico e persino psichiatrico. E magari motivazioni che riguardano la stessa Università, ovvero se oggi l'Università sia ancora abitata da un disinibito e indipendente spirito critico, se viva ancora di fertili controversie o si mortifichi in uno sterile conformismo, se promuova il rischio dinamico della creatività e della complessità o prediliga la statica sicurezza del protocollo e della profìlazione seriale. Infine, e soprattutto, se l'Università possa dirsi, oggi, spazio libero, aperto e inclusivo. 

Ma, davvero, non ha nessuna importanza che io renda conto nello specifico di questa mia personalissima scelta. Perché è questa scelta, non ciò che l'ha motivata o che può significare, che determina l'impossibilità di iniziare, come ogni anno, il mio corso di Letteratura Italiana; è questa scelta a mettermi ipso facto in quella condizione di diversità e di precarietà che molti - comprensibilmente, per carità - non possono ne vogliono sopportare. 

Si tratta, in sostanza, della "scelta di scegliere" indipendentemente dalle conseguenze - permettetemi, per una volta, di aggrapparmi alle parole altrui -, quella che "investe le condizioni di possibilità di ogni eventuale scelta, a partire dalla propria. Da qui la sua forza, ma anche la sua pericolosità e il suo rischio" (G. GIORELLO, Di nessuna chiesa. La libertà del laico). Sembra un atto di patetico integralismo intellettuale a vocazione pubblica, ma è tutt’altro: è un atto psico-fisico di necessità, è la resistenza individuale, privata e obbligata di chi sa di perdere molto, se non tutto, ma intende, insieme alla sua libertà, conservare il rispetto di sé. 

Dunque, sono ben consapevole di ciò che il mio eretico Non Serviam! comporta sul piano burocratico ed economico: al momento, la sospensione dal lavoro senza retribuzione; più avanti, forse, il licenziamento. E chissà che altro ancora: quando si innesca, come la storia ci insegna, la brama di discriminazione e di persecuzione non conosce limiti. 

Comunque sia, sono ancor più consapevole delle conseguenze che tale scelta provoca sul piano emotivo e umano. E chi mi conosce sa bene che il dispiacere più grande sarà la perdita dell'energizzante contatto con gli studenti: quel salutare assembramento e contagio di intelligenze, di progetti e di corpi che resta la cosa più bella e importante, la cosa più vitale, del nostro mestiere. 

Dal 1984, anno della mia immatricolazione, non è passato giorno che io non abbia fatto parte, in un ruolo o nell'altro, dell'Università di Firenze. Qui, nella mia città, ho potuto godere del beneficio di studiare e di lavorare sotto la guida e al fianco di grandi maestri, di formarmi come ricercatore e docente. E, soprattutto, come uomo. 

Però, davvero non ho intenzione, nel contesto, nelle forme e nei toni con cui oggi viene richiesto, di esibire il lasciapassare verde per insegnare, per andare in biblioteca, per entrare nel mio studio, per incontrare gli studenti, i laureandi, i dottorandi... peraltro avendo anche il sacerdotale ufficio di interrogare, controllare e allontanare gli eventuali renitenti all'osservanza. 

No, non ho intenzione di godere di questo inopinato 'privilegio coatto' che, diversamente da quanto avviene in tutte le democrazie d'Europa, il governo del nostro paese (e l'Università) vuole concedere, bontà sua, ai docenti, agli amministrativi e agli studenti ben codificati e, sempre e ovunque, scansionabili. Per quanto tempo - mesi, anni, in eterno? -, non si sa. Neanche, si badi, ho intenzione di infrangere la legge - almeno per ora, mi pareche il diritto non preveda ne punisca gli psicoreati. 

Da libero cittadino italiano, dunque, da membro della comunità universitaria, scelgo di esercitare una civile protesta che si concretizza nel rifiuto del lasciapassare verde. 

Ma accetto socraticamente - consentitemi il conforto dell'autoironia - ciò che il governo del nostro paese (e l'Università) ha deciso nei riguardi di chi non esibisce quotidianamente la sua prona adesione al sempre più pervasivo e abusivo controllo biopolitico, alle limitazioni di diritti fondamentali della persona e allo stato di emergenza permanente. 

Accetto, sì, riservandomi, tuttavia, la libertà di pensare e definire tutto questo un abominio. Un abominio che, come sappiamo, presto toccherà in sorte a tutti i lavoratori italiani. Non ho banda, sono solo, direbbe il Poeta: non appartengo a nessuna parrocchia accademica, non ho mai avuto tessere di partito e, sinceramente, ho in uggia appelli, petizioni e prese di posizioni verbali senza ricadute nella realtà effettuale. 

Di conseguenza, della mia scelta mi assumo in toto e concretamente la responsabilità. Sarà senz'altro incompresa e disprezzata dai più - ben percepisco lo spirito del tempo, dunque anche di questo sono perfettamente consapevole. 

Ma, credetemi, la faccio senza imbarazzo e in pace con me stesso. È stata ben meditata, è stata presa in piena autonomia e, inutile dirlo, non ha nessuna velleità di risultare esemplare. È solo la mia scelta, che sin dai prossimi giorni mi destina, se non alla macchia, ad un volontario confino, In partibus infìdelium. 

Così, in attesa di tempi migliori, semmai ne capiteranno, e di qualche buona novella, proverò l'esperienza di color che son sospesi... dal lavoro, dai luoghi della cultura e della socialità, e da alcuni servizi pubblici essenziali. 

E allora, visto che questa è la stagione che ci tocca attraversare, non mi resta che augurare schiettamente a tutti voi tanta salute e altrettanta serenità. 

Un grande abbraccio, 

Marco Villoresi.

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