Carlo Cuppini

martedì 6 dicembre 2022

6 dicembre: un dolore che non mi abbandonerà

Non potrò mai dimenticare il dolore che ho provato la mattina del 6 dicembre 2021, giunto alla solita fermata dell’autobus.
Sapevo benissimo che cosa iniziava quel giorno, naturalmente. Ma vedere oggettivato sulla piatta banalità del display informativo – su quella neutralità amorale, indifferente, completamente al di sotto del bene e del male – la decisione dello Stato italiano di affrontare un pressante e grave problema collettivo escludendo dalla vita sociale una cospicua parte della popolazione, minorenni compresi – non essendo in grado, o all’altezza, o disponibile, lo Stato, a tentare soluzioni di altro genere – la visione, dicevo, di quella scritta arancione alternata agli orari delle corse mi ha procurato il più intenso e lacerante dolore che abbia mai provato nella mia vita.
Non era un dolore nuovo: era una nuova tappa del dolore iniziato il 22 luglio, e cresciuto nei mesi seguenti, che avrebbe avuto il suo apice il 10 gennaio successivo. Ma il 6 dicembre 2021, dopo mesi di impegno vorticoso e insonne contro il green pass, quel dolore è esploso letteralmente dentro di me, trasformandomi in una specie di Bartleby lo scrivano: un uomo nella cui mente c’è spazio soltanto per un “I would prefer not to”, rivolto al potere, all’autorità, e, in subordine, a chiunque e a qualunque cosa. Il 6 dicembre 2021 avrei preferito non - qualunque cosa. Avrei preferito non esistere, piuttosto che trovarmi lì a leggere quella scritta, che compariva e scompariva alla fermata dell’autobus, sotto gli sguardi impazienti di chi aspettava la schermata con i tempi di attesa. Avrei preferito non vivere, piuttosto che tirare fuori il green pass per recarmi al lavoro.
Il 6 dicembre 2021 ho trasformato quel dolore in energia intellettuale e politica, facendola confluire nelle battaglie che già da mesi stavo portando avanti. Non perché pensassi che quelle battaglie sarebbero servite a qualcosa di concreto – ci avevo creduto, ma ormai non lo credevo più – ma perché altrimenti sarei impazzito. Questa è la verità: sarei impazzito, e non per modo di dire, e una parte di me sarebbe morta. Ho trasformato quel dolore in combustibile per le battaglie politiche e culturali, affinché il desiderio di essere innocente non diventasse desiderio di non vivere, e perché il “I would prefer not to” non mi portasse allo stesso capolinea di Bartleby. Forse, due mesi dopo, ho smesso di mangiare, attivamente e politicamente, per non rischiare di smettere di mangiare alla maniera di Bartleby: quella che porta, passo dopo passo, a restare un giorno steso in terra, senza che nessuno se ne accorga subito, con occhi spalancati che poi qualcuno verrà a chiudere senza avere saputo e capito niente di te.
Che le scelte delle persone escluse fossero lodevoli o riprovevoli, di certo non erano illecite; e io ho tentato di non essere complice di ciò che veniva (e in parte ancora viene) inflitto loro, arrivando perfino a negare l’opportunità di presentare un certificato di non contagiosità assai più sicuro dell’attestato di vaccinazione – il tampone negativo – nei lunghi mesi del super green pass, o del baratro. (Nella frase precedente ho usato intenzionalmente alcuni dei termini su cui si concentrano i due più recenti scritti di Giorgio Agamben apparsi on-line).
Oggi non faccio più battaglie politiche, né spendo le mie energie per frequenti e lunghe elaborazioni intellettuali sulle questioni di stringente attualità: il motivo più importante è che, ricucendo alcuni fili strappati dalla pandemia, ho deciso di tornare a impiegare la totalità delle mie energie mentali, delle mie capacità, del mio tempo libero nella scrittura. In questo caso si tratta di un romanzo che scrivo dal luglio scorso, tutti i giorni, tutte le notti, un’impresa per me molto impegnativa, da cui non voglio essere distolto. Credo che questa sia la cosa migliore che io possa fare, per me stesso e per gli altri. Una cosa per me addirittura necessaria.
Oggi, un anno dopo, un altro 6 dicembre, con un clima sociale, culturale e politico parzialmente mutato, quel dolore è sicuramente meno lacerante. Eppure è sempre lì, lo sento, da qualche parte, tutti i giorni. Guardare la fotografia scattata un anno fa alla fermata del bus lo rinnova per intero, come se non fosse passato un giorno.
Credo che quel dolore, in fondo, non mi abbandonerà mai.



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