Carlo Cuppini

martedì 20 maggio 2014

Pecorella

Questo è un Paese dove la parola "pecorella" – detta a un carabiniere nel contesto di una manifestazione su un tema controverso, caratterizzata da un aspro scontro ideologico, politico e fisico – può essere considerata un insulto punibile con una condanna a 4 mesi di carcere.

Questo è un Paese dove persone incolpevoli e inermi possono morire in stato di arresto – per strada o in questura o in ospedale o in cella – e i cui cadaveri vengono trovati con il sedere spaccato, i testicoli schiacciati, il torace sfondato, ferite e lividi ovunque.


Questo è un Paese dove il capo della polizia al tempo del G8 di Genova, Gianni De Gennaro, si è salvato per un soffio, e con molte ambiguità, dalle condanne che hanno decimato i vertici della polizia, e poi è stato promosso da tutti i successivi governi, diventando capo del Dipartimento per le informazioni sulla sicurezza con Berlusconi, poi Commissario speciale per l'emergenza rifiuti in Campania con Prodi, poi Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con Monti, per finire alla presidenza del più importante gruppo industriale di Stato, Finmeccanica, con Letta.

Questo è un Paese dove i poliziotti che hanno ammazzato un ragazzo, Federico Aldrovandi - condannati in via definitiva a 3 anni e 6 mesi di carcere - portano ancora la divisa e fanno ancora lo stesso mestiere.

Questo è un Paese dove decine o centinaia di poliziotti dedicano una lunga standing ovation ai poliziotti-assassini di cui sopra.

Questo è un Paese dove un sindacato di poliziotti organizza una manifestazione sotto le finestre dell'ufficio dove lavora la madre del ragazzo assassinato di cui sopra, per esprimere solidarietà ai poliziotti-assassini di cui sopra.

Questo è un Paese dove il capo di un sindacato di poliziotti afferma che se in Italia venisse introdotto il reato di tortura - come richiesto dall'Onu e dall'Unione Europea per allinearsi agli altri Paesi civili - i poliziotti italiani incrocerebbero le braccia e smetterebbero di lavorare per protesta.

Questo è un Paese dove il migliore tra i recenti capi della polizia, l'unico che ha avuto il coraggio di chiedere scusa per i crimini commessi dai poliziotti e cercare una pacificazione con il popolo italiano, aveva il nome più grottesco per il ruolo che ricopriva: Manganelli. E il fatto che prima di morire abbia scritto un romanzo - bello o brutto che sia - rivela che anche un capo della polizia può avere una vita interiore, e quindi una morale, per fortuna.

Questo è un Paese dove il gesto simbolico di una ragazza che stampa un bacio sulla visiera del casco di un poliziotto durante una turbolenta manifestazione può essere oggetto di denuncia per "violenza sessuale" da parte del segretario generale del sindacato di polizia Coisp, Franco Maccari.

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In questo Paese io so da che parte stare. Lo so bene dal 2001 - anche se là fisicamente non c'ero - e nei 13 anni che sono seguiti non c'è stata alcuna circostanza che mi inducesse a cambiare parte o idea.

In questo Paese è necessario stare da una parte, perché due parti ci sono, anche se così non dovrebbe essere: a creare la frattura eversiva sono state e sono le forze dell'ordine ("alcuni membri delle forze dell'ordine", bisognerebbe dire, certo, ma in assenza di una chiara, netta e definitiva presa di posizione da parte dei vertici della polizia, non possiamo che dire: "le forze dell'ordine") che hanno dichiarato guerra alla gente, alla 'loro' gente, agli italiani, e continuano a portare avanti con metodo questa guerra, mese dopo mese, anno dopo anno, abuso dopo abuso, violenza dopo violenza, omicidio dopo omicidio. Due all'anno, di media, i morti ammazzati, se non sbaglio. L'ho già scritto.

In questo Paese io esprimo solidarietà a Marco Bruno, condannato a 4 mesi di carcere, non per avere tirato sassi, petardi, bombe, non per avere divelto un reticolato, sfondato vetrine, fatto minacce, bloccato il traffico, dato schiaffi: per avere detto "pecorella" a un carabiniere.

In questo Paese io mi unisco al gesto di Marco Bruno e dico – anzi, ancora peggio: scrivo – "pecorella" all'indirizzo di Stefano Fadda, il carabiniere insultato che non ha voluto/saputo/potuto evitare questo processo a danni del buon senso collettivo prima ancora che di Marco Bruno.

Dico e scrivo "pecorella" a quei poliziotti che hanno ammazzato e sono rimasti al loro posto.
Dico e scrivo "pecorella" ai loro superiori che non li hanno sbattuti fuori dall'Arma.
Dico e scrivo "pecorella" ai moltissimi chi li hanno applauditi.
Dico e scrivo "pecorella" a tutti i poliziotti e i carabinieri che non prendono apertamente posizione contro la degenerazione fascista, violenta, autoritaria, antidemocratica e criminale che riguarda alcuni settori delle forze dell'ordine.
Dico e scrivo "pecorella" a chi è rimasto impunito solo perché non sono stati fatti i nomi e perché ci si rifiuta di mettere la targhetta identificativa sulla divisa.
Dico e scrivo "pecorella" a chi, pur sapendoli bene, non ha voluto fare i nomi e ha fermando il corso della giustizia.
Dico e scrivo "pecorella" a chi non vuole che sia inserito il reato di tortura nel codice penale italiano.
Dico e scrivo "pecorella" a chi nel 2001 a Genova ha creato prove false per criminalizzare chi in realtà era la vittima.
Dico e scrivo "pecorella" a chi ha depistato le indagini per salvare se stesso e i propri colleghi o superiori o sottoposti.
Dico e scrivo "pecorella" a chi si rifiuta di rispondere alle domande dei cittadini allibiti e spaventati.
Dico e scrivo "pecorella" al giudice Gian Luca Robaldo, che ha firmato una sentenza esemplare, finalizzata a intimidire il dissenso anche nelle sue espressioni più innocue e pacifiche.

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A non tutti i poliziotti e i carabinieri voglio dire e scrivere "pecorella".
Non a chi fa onestamente, coraggiosamente, a volte eroicamente, il proprio lavoro.
Non a chi si è confrontato con le critiche, aprendosi al dialogo, dando risposte.
Non a chi ha partecipato alle proiezioni del film Non lavate questo sangue, per esempio, per discutere, da poliziotti-cittadini, con altri cittadini, di quello che era successo a Genova, di come era potuto accadere.

Non voglio dire "pecorella" a chi pecorella non è, e fa il poliziotto o il carabiniere senza andare dietro al gregge, ragionando con la sua testa, valutando cosa è bene e cosa è male, sapendo che gli ordini – soprattutto se riguardano l'uso legale della violenza – devono essere valutati con il metro del proprio giudizio morale e che al limite possono anche essere messi in discussione.

A tutti gli altri dico "pecorella". Ma dovrei dire "pecorella con le fauci di lupo" (e chissà se anche "lupo", detto a un carabiniere, sarebbe giudicato un insulto punibile con 4 mesi di carcere dal giudice Robaldo... così, sommati, diventerebbero 8). Perché queste persone sono pecore nel rispettare gli ordini dei superiori, nell'andare dietro a ciò che fanno i colleghi - tra i quali si possono facilmente nascondere , nel non assumere le responsabilità del proprio agire, e sono lupi con i più deboli, con chi non è dotato di una divisa e di una pistola d'ordinanza, con chi è un povero disgraziato e presumibilmente non potrà pagarsi un buon avvocato, con chi è colpevole esclusivamente di trovarsi nel posto sbagliato nel momento sbagliato. Lupi mannari, per l'esattezza, perché i lupi non sbranano i propri simili.

A queste "pecorelle-lupo mannaro" avrei voglia di dire ben altro, per la verità; ma, visto il precedente di Marco Bruno, un "vigliacco" potrebbe costarmi 4 o 5 anni di carcere e un "infame bastardo" forse l'ergastolo. E con una vita da vivere, una compagna e una figlia da accudire e da amare, un lavoro da svolgere, molti progetti da portare avanti, un orto da curare, è meglio essere prudenti. Meglio fare come Marco Bruno, quindi, e limitarsi a un "pecorella" - "pecorella-lupo mannaro", tutt'al più - rischiando al massimo qualche mese di carcere.