Qualche giorno fa scrivo un articolo sul nascente movimento non-violento in Palestina, pensando di destinarlo a una rivista. Prima di mandarlo alla redazione lo sottopongo ad amici. Più d'uno mi manifesta perplessità: un approccio troppo di parte, una terminologia troppo radicale. Insomma: "Io sono daccordo su tutto, ma secondo me è impubblicabile".
"Qual è il problema?" domando.
"Non si può parlare di 'resistenza palestinese', definire l'occupazione israeliana un 'regime di arbitrio e illegalità', non si può dire che i coloni intendano realizzare una 'pulizia etnica'".
Una persona a me vicina lavora in un famoso quotidiano nazionale. Anche lei mi conferma che nessun giornale italiano pubblicherà un articolo che mette in cattiva luce Israele: "E' un bell'articolo, parla di cose interessanti che in Italia non si sanno. Ma devi cambiare un po' di cose."
Ascolto i consigli e cerco di rimettere mano allo scritto. Ma quando mi trovo davanti al computer, scorro riga per riga e non riesco a cambiare niente. Con che termine dovrei sostituire "resistenza"? Ho Conosciuto persone la cui vita quotidiana è resistenza. Loro per primi si sentono "resistenti". In che senso? Quando ricostruiscono una scuola che è stata abbattuta perché Israele non aveva concesso il permesso di costruzione. Quando sfidano il coprifuoco per andare a comprare un ingrediente per cucinare. Quando mandano i bambini a scuola nonostante le intimidazioni dei soldati.
"La pulizia etnica dei palestinesi" è il titolo di un libro di un noto storico ebreo israeliano, Ilan Pappè. Non di un palestinese. E' un libro di testo adottato dalle università.
Resto con le dita inerti sulla tastiera. Tutto questo mi fa riflettere.
C'è Berlusconi che ha il monopolio di mezzo mondo mediatico italiano. Ma ora non è questo il punto. Mi viene in mente qualcosa che ho letto tempo fa. Si parlava del fascismo, e si diceva che il problema più grande con la censura, allora, era l'autocensura dei giornalisti e degli scrittori. Continuo a riflettere sui consigli che ho ricevuto: persone che la pensano come me mi invitano a cambiare la prospettiva generale del mio discorso, per renderlo "presentabile" e "pubblicabile". "Certe cose non si devono dire. Bisogna trovare un modo più soft".
C'è qualcosa che non mi torna. Guardo le immagini della manifestazione a Roma. Ma per una volta Berlusconi non c'entra. Cosa è il giornalismo italiano? Quale idea abbiamo, noi stessi, giovani, di sinistra, intelletti liberi, della nostra libertà intellettuale e di parola? No, non mi piace questa rassegnazione. Questo spirito compromissorio in partenza. Ho deciso: mando l'articolo alla redazione così com'è.
A volte, quando affronto degli argomenti "tabu", mi viene il dubbio che in me possa agire una subdola autocensura. Allora ho un trucco per uscire dall'impasse: vado sul blog di José Saramago e mi leggo un paio di suoi post. Ritrovo subito la bussola.
Carlo, ci sono.
RispondiEliminaAnche io mi autocensuro, e questo sommato a degli fattore cotidiani, scelte sbagliate o pigrizza, mi fa non riuscire di scrivere. Per ora.
Abbraccio