Seduto a fumare in salotto, dopocena, le gambe accavallate, i pantaloni della tuta di un grigio liso e slentato, non posso evitarmi questa vista: il tessuto logoro degli abiti da casa è tutto imbrattato: macchie umide di liquami freschi, di colore trasparente, grigio, giallino, verdino, con punte di marrone e arancione. Fino al grigio scuro tendente al nero: tutti gli organi interni hanno smollato, si sono sfondati nello stesso istante, senza dolore né avvertimenti: hanno buttato fuori i loro contenuti segreti, riversandoli abbondantemente di sotto, sul cavallo basso dei pantaloni: anche i muscoli e la pelle del ventre devono avere ceduto: altrimenti non si spiegherebbe tale evidente e imbarazzante fuoriuscita. Se poi alzo appena la testa e lo sguardo, davanti a me, sulla poltrona c'è un uomo con un grosso cappello nero calato pesantemente sugli occhi: la tesa del cappello getta un'ombra su tutto il resto del viso: come se l'Angelo volesse nascondermi la sua identità: come se le ali imponenti schiacciate tra la sua schiena e la spalliera, non fossero sufficienti a smascherarlo.
Mi guarda di sottecchi, dissimulando qualunque genere di interesse. Fuma una sigaretta, soffia forte, ma con noncuranza, il fumo lontano dal viso. Oziosamente, direi. Quasi un pretesto per occhieggiare dalla mia parte. Mi basta un'occhiata veloce al pacchetto sul tavolo per capire che si è preso la penultima sigaretta del mio pacchetto: l'ultima sta ancora lì, mezza fuori, a denunciare con la sua solitudine l'indebita sottrazione. Comunque, di certo, stasera non avrò il coraggio di fumare quell'ultima sigaretta. Né, credo, lo farà lui. Quando spengo la mia, se n'è già andato. Ed io sto bene, pronto ad alzarmi, andare.
Non capisco cosa accada stasera:
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