Nel volume uscito di recente con tutte le poesie della Szimborwska, ne ho letta una che si chiama L'acrobata. Non è particolarmente bella. Posso anzi dire che le sue poesie non piacciono: mi sembra che manchi quel grido che lacera il cielo. Quel grido che non è il grido di un uomo che va su un palcoscenico e grida, ma il grido di un uomo che scende in strada, e grida. Come nelle poesie di Antonio Porta. Ma di questo parlerò un'altra volta... Il motivo per cui ho tirato in ballo questa poesia della Szimborwska è perché mi ha ricordato un'altra poesia con lo stesso titolo, scritta da Giovanni.
Giovanni era un giovane uomo detenuto nel carcere di Bologna, intorno al 2002. Stava lì perché aveva fatto una rapina in banca con una pistola giocattolo. Gli avevano dato sette anni. Ne aveva già scontati cinque, e in quel periodo era in attesa di un pronunciamento del giudice che lo avrebbe sollevato dagli ultimi due anni grazie alla condotta esemplare tenuta in carcere. Era un ragazzone sensibile e intelligente, sprizzava energia in tutti i sensi, anche fisicamente, aveva una buona attitudine a una risata limpida e sonora, il carattere che spiccava in lui, dopo la socialità, era l'entusiasmo, e subito dopo si percepiva la lealtà. Io ho frequentato il carcere di Bologna per sei mesi: come volontario proponevo un'ora settimanale di lettura e scrittura ai detenuti che volessero e potessero partecipare. Ce n'era una decina, tra questi Giovanni. Ci divertivamo, scoprivamo i contemporanei e dissacravamo i classici: ricordo l'esito esilarante che ebbe la mia proposta di riscrivere il finale di uno dei racconti di Gente di Dublino di Joyce.
Con Giovanni avevo una buona intesa. Lui aveva una buona intesa soprattutto con Debora, che condivideva questa attività con me. Un giorno portò a me a Debora un foglietto. La volta precedente avevamo parlato di poesia. E' una mia poesia, disse. Si intitolava L'acrobata. Non ricordo niente di quella poesia, se non che era una poesia che era stata scritta perché era necessario che fosse scritta. Era il grido di quell'uomo per strada, il cui primo effetto su di te è un brivido, prima di qualunque pensiero. Ricordo anche che era una poesia di gioia.
Non ricordo se in quella o in un'altra occasione parlai con Giovanni dei miei progetti di vita. Ero molto giovane e sprovveduto, e in parte impaurito dai miei stessi sogni e soprattutto dalla concreta possibilità di realizzarli. Per questo mi tenevo sul vago e avevo un tono possibilista. Lui si accalorò: Come puoi temporeggiare, essere indeciso, incerto...? Come puoi pensare che forse non ce la farai prima ancora di averci provato? Non vedi che io sono pieno di sogni, e da cinque anni non ho potuto neanche provare a muovere un dito, perché sono chiuso qui dentro!? Tu sei libero. Vai, fai. Non c'è niente che ti incatena. Vai e fallo anche per me che non posso.
E' più o meno questo, che mi disse. Inutile dire che non ho mai più dimenticato queste parole.
C'è un'altra cosa che voglio dire di Giovanni. Ed è l'ultima cosa che ho saputo di lui. Fu un altro volontario, che seguiva il caso giudiziario di Giovanni e lo accompagnava a Napoli quando c'erano le sedute al tribunale, a raccontarmi che il giudice alla fine gli aveva negato la riduzione dei tempi. Giovanni rimase molto scottato dalla notizia: si immaginava già libero, da mesi. Mentre tornavano in stazione per rientrare a Bologna, si lanciò su un autobus e nessuno ne seppe più niente. Almeno finché non chiamò al telefono questo volontario. Da una cabina, in Spagna. Gli disse, Scusami, ho fatto una cazzata. Ma ti giuro che non ce l'ho fatta a resistere. Spero che tu non passi dei guai per questo. Comunque ora sto bene, sono libero. Non so se resterò in Spagna. Qui sto lavorando, ho "rifatto" i documenti. Ma forse vado in Grecia. Ah! Salutami Carlo e Debora.
Non ricordo il nome del volontario che mi riferì questa conversazione. Ma anche queste ultime parole di Giovanni non le ho mai più dimenticate. E penso che ora stia facendo l'acrobata in Grecia, e forse scrivendo poesie, più belle di quella della Szimborwska, che forse nessuno leggerà mai.
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