Scrivere, come fotografare o disegnare, è viaggio.
Il linguaggio comune alla base di ogni disciplina artistica - al di là della tecnica e della pratica - è quello dell'esplorazione meravigliosa dell'ignoto, della conoscenza amorosa dell'altro.
Scrivere è un modo di mettersi in cammino. Il camminare dà corpo alla lentezza possibile, questa santa lentezza che ci è necessaria a osservare, incontrare, trovare il coraggio, lasciare che pensiero e sentire abbiano origine e destinazione.
Nel muovere il passo, non si può escludersi dalla Storia. Lei, a sua volta, ci cammina sopra. Oggi noi - la famiglia umana - siamo i protagonisti passivi di un colossale processo di deportazione: siamo profughi, ci espellono dalla realtà per internarci a tappe forzate nel regno dell'insensato.
Vige il totalitarismo analfabetico: la libertà è concessa finché non si prova a conoscere e a decodificare ciò che ci circonda, ciò che siamo, il linguaggio del potere, l'accadere degli eventi, cosa intercorre tra le persone, gli interstizi, i luoghi. La libertà di scelta è obbligatoria. Almeno finché, come in 1984 di Orwell, crediamo nel 2+2 =5. Altrimenti, libertà pensiero ed espressione sono proibiti.
Mettersi in cammino è l'incipit della militanza: per resistere, decostruire, vedere oltre le scenografie vittoriose in cui è immersa la nostra disfatta.
Lentezza è il solo grimaldello che conosco per scalzare la mistificazione.
Poesia è la via per conservare la chiave del segreto e la clandestinità.
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