Mezzo secolo fa si svolgeva negli USA
l’“esperimento Milgram”, destinato a dare una spiegazione poco rassicurante dei
crimini nazisti e a cambiare radicalmente i presupposti dell’etica. Oggi lo studio ci parla ancora di noi e dei rapporti sfumati tra arte, impegno, violenza e linguaggio.
Nel 1961 lo psicologo statunitense Stanley Milgram, allora ventottenne, condusse un esperimento di
psicologia sociale destinato a gettare una nuova, inquietante luce sui
presupposti dell’etica e del comportamento umano. Il dispositivo di ricerca era semplice:
le “cavie” (ignare del funzionamento e degli scopi reali dell’esperimento) erano
incaricate da un finto scienziato di infliggere scariche elettriche ad altre
cavie (finte), immobilizzate, ogni volta che queste fornivano una risposta
sbagliata ai quiz a cui venivano sottoposte. A ogni errore la scarica elettrica era
più elevata, fino ad arrivare al quinto livello definito “attenzione:
scossa molto pericolosa”.
L’esperimento mostrò statisticamente che persone
normali, selezionate a caso, sono pronte a infliggere alti livelli di sofferenza
ad altri esseri umani anche in totale assenza di motivazioni: il 40% dei
partecipanti si spinse fino al quarto livello (“scossa molto intensa”), prima
di protestare e ritirarsi; il 30% continuò fino al livello più alto (450 V),
che portava le (finte) vittime a una simulata perdita di conoscenza, dopo grida
di dolore, suppliche e convulsioni. Naturalmente gli “addetti al pulsante” non
sapevano di essere il vero oggetto di studio, né che non esisteva alcuna
scarica elettrica.
L’esperimento poi si articolava ulteriormente indagando le
variazioni di comportamento a seconda di diverse configurazioni spaziali. Erano
previste delle sessioni in cui “torturatori” e “torturati” erano posti molto vicini,
quasi a distanza di contatto; altre in cui si frapponeva una maggiore distanza, ma
all’interno della stessa stanza; poi il “torturatore” veniva portato in uno
spazio contiguo da cui poteva vedere, attraverso un vetro, ma non sentire le reazioni del
“torturato”; infine si dava la condizione dell’isolamento fisico tra i due
soggetti. A ogni passaggio di distanziazione i partecipanti erano disposti a
spingersi un po’ più in là nell’infliggere dolore (e quindi nell’obbedienza al
compito ricevuto), fino alle estreme conseguenze. Eppure il grado di
informazione era sempre lo stesso: nessuno poteva dire di non sapere, o di non
avere capito ciò che stava compiendo.
L’esperimento
nasceva sulla scia dello sgomento per le atrocità compiute dai nazisti (Milgram
trasse ispirazione dal processo a Eichman che si stava svolgendo in quel
periodo a Gerusalemme; lo stesso evento che influenzò Anna Harendt nella
stesura di La banalità del male); ma
finì per rivelare che chiunque è potenzialmente pronto a ricoprire un analogo
ruolo di carnefice, se indotto dalle circostanze. Per di più, i partecipanti
all’esperimento non traevano alcun vantaggio dal proprio operato, non odiavano
(né conoscevano) le proprie vittime, non avevano un obiettivo, per quanto folle o irrazionale: si comportavano
come criminali senza alcun movente; semplicemente si attenevano a quanto richiesto da una figura
(il finto scienziato) che si presentava come garante dell’utilità, della
legalità e della normalità della situazione.
L’esperimento
creò sconcerto. In seguito venne ripetuto e riformulato più volte, anche da
altri ricercatori, con la comprensibile aspettativa di vedere smentiti i
risultati. Un’ultima versione risale al 2009, attualizzata in relazione al fenomeno dilagante dei reality shows. I risultati di Milgram sono stati sempre confermati.
Perché
riparlare di Milgram oggi, a 50 anni dal primo esperimento? Perché parlarne dal
punto di vista della letteratura e dell’arte e, in definitiva, del linguaggio? Del suo potere e delle sue insidie?
L’esperimento
Milgram ci fornisce importanti indicazioni sulle modalità con cui ci rappresentiamo la realtà, sui linguaggi
con cui ci rapportiamo ad essa e grazie ai quali troviamo il nostro posto all'interno di essa. Riguarda quindi, profondamente, le pratiche di chi il linguaggio lo
utilizza nel lavoro poetico, artistico e intellettuale.
Oggi, che da più parti
si invoca una nuova convergenza dell’arte verso la realtà attraverso rinnovate
forme di impegno civile, mi sembra utile ripartire da Milgram per capire di cosa parliamo
quando parliamo di “realtà”, e di “realismo”.
Anche oggi,
infatti, siamo sempre lì, pronti a spingere quel bottone. Non c'è ragione per cui la cosa dovrebbe essere cambiata. A pensarci bene è mortificante – in tutti i sensi – perché non si tratta dell’esperimento Milgram e le vittime
sono vere, è tutto vero, non c’è simulazione. Quotidianamente produciamo
sofferenza (e morte) a volontà: se non la infliggiamo direttamente spingendo un
pulsante, è pur vero che la commissioniamo, ne condividiamo la responsabilità,
la tolleriamo o ratifichiamo: in ogni caso la perpetuiamo e incrementiamo
attivamente. Con i nostri gesti la reclamiamo. Magari perché essa è un prodotto secondario – ma inevitabile – nel
processo di produzione di ciò che vogliamo. Come nell’esperimento Milgram (e
come nella Germania nazista) anche in questo casosi può facilmente individuare un’autorità – riconosciuta “universalmente” – che si fa garante e ci solleva dalle implicazioni legali (e morali) delle nostre scelte: questa autorità è costituita oggi, primariamente, dal Mercato,
in totale sintonia con i sistemi politici e quelli di informazione e comunicazione. Ciò che ha accesso al Mercato riceve automaticamente l’autorizzazione e
l’autorevolezza necessarie.
La merce è emblema di verginità: entrando nel
Mercato, la merce riceve un battesimo e, come il neofita, viene rilavata da
ogni peccato, riacquista l’innocenza, riceve un nuovo nome. Nell'ottica dell'esperimento,
la merce porta con sé, compresi nel prezzo, tutti i gradi di distanziazione che
comportano l’azzeramento dell’empatia e consentono alle cavie di Milgram di infliggere dolore ai propri simili senza darsi pensiero. Parlo di migranti arrestati e drogati nei CIE; di centinaia di migliaia di civili
massacrati nelle guerre mediorientali; del genocidio dei
Palestinesi; dei bambini costretti a lavorare per produrre i giochi dei nostri
bambini (e nostri), dei milioni di morti per fame, sete e malattia a causa
dell’eco(nomico)sistema globale a cui aderiamo con ogni gesto quotidiano; delle
violenze antisindacali nei paesi poveri; del saccheggio delle risorse ai
quattro angoli del mondo. Ma anche dell’ecatombe quotidiana di milioni di
animali che vengono torturati e ammazzati in modi intollerabili per immettere
nel Mercato qualcosa di eccessivo e tuto sommato non indispensabile.
La grande conquista
dell’ordine democratico globale – oggi più che mai piramidale – non è tanto l’occultamento
della colossale ingiustizia su cui si basa: essa in effetti è sotto gli occhi
di tutti e se ne può tranquillamente discutere senza temere di incorrere nella censura
o in violente ritorsioni. La conquista veramente innovativa è l’universalizzazione della
“dimensione Milgram”. Più illuminante del Principe di Machiavelli, insieme a Mondo Nuovo di Huxley, a 1984 di Orwell, alla Società dello spettacolo di Debord (e a una manciata di altri titoli) Obedience
to Autority di Stanley Milgram (pubblicato nel 1974) rivela il più
importante ingrediente per governare con successo sulle masse nel tempo presente:
la distruzione dell’empatia attraverso la distanziazione delle persone dalla
realtà effettiva. La iper-mediatizzazione fa al caso, creando l'opportuno paradosso: più siamo informati, più
la nostra capacità di reagire a ciò di cui siamo informati è fiaccata. Ogni
passaggio mediatico corrisponde a un ulteriore grado di distanziazione nell’esperimento Milgram. Chi sta nella “stanza accanto” è disposto a compiere
qualunque cosa, se l’autority garantisce
la sospensione da ogni responsabilità morale e legale.
L’etica in funzione dalla
prossemica.
“Ama il prossimo tuo come te stesso”: ci insegnano a considerarlo un
precetto rivoluzionario, utopico e “folle”, intriso della follia dell’amore sovrumano.
Eppure, alla luce dell’esperimento Milgram, la sentenza sembra più una constatazione
della natura umana che un’esortazione a superarla. Suonerebbe assai più
rivoluzionaria l’ingiunzione: “Ama chi sta nella stanza accanto tanto quanto ami il tuo
prossimo”. Per restare in ambito evangelico (giusto perché è lì che si fonda parte della nostra etica) si potrebbe parafrasare un altro motto in questo modo: "Non fare a chi sta lontano ciò che non faresti mai a chi ti sta vicino".
C’è da credere
che chiunque invocherebbe la grazia per il vitello dell'industria alimentare (nato e vissuto immobilizzato per non far indurire la muscolatura), se
venisse portato fisicamente in prossimità delle atroci sofferenze cui la bestia
è sottoposta e destinata. Che differenza c’è tra la sofferenza di un animale e
quella di un umano? A giudicare dallo sguardo, nessuna. Chi
non farebbe di tutto per salvare una persona che sta rischiando la vita dall’altra
parte dalla strada? Una legge, peraltro, obbliga a farlo. Ma come mai
l’omissione di soccorso è un reato solo nella distanza ravvicinata? Si sta di
fatto consumando una grandiosa e spettacolare omissione di soccorso globale, di
cui nessuno risulterà colpevole. Non ci sarà una Norimberga per questo crimine.
Per quanto ci è dato sapere.
Veniamo
all’arte e al linguaggio. Che cosa manca perché si possa dar luogo all’impegno verso la realtà, nella scrittura, nell'arte? Non certo il realismo. Non il realismo
inteso come verosimiglianza, perlomeno: il racconto della realtà è anzi pervasivo,
esaustivo e soddisfacente. Quasi niente viene celato o censurato. è tutto un
pullulare di “libri neri”, o di libri che qualcuno di molto potente (e
minaccioso) “non ti farebbe leggere mai”. Ci è consentito dire tutto,
denunciare qualunque cosa, evidenziare statistiche che fanno rabbrividire e
svelano crimini abominevoli. Si può anche scrivere per Mondadori un libro che
critichi, direttamente o indirettamente, la proprietà della Mondadori. Questa forma
di realismo è sempre consentita: perché è pur sempre un realismo “sincronizzato” con
le esigenze del Mercato e dei sistemi ad esso integrati. È un “realismo della stanza
accanto”, che non porterà mai nessuno ad alzarsi dalla sedia, o a staccare il
dito dal bottone della scarica elettrica. È il realismo del finto scienziato
dell’esperimento Milgram che informa i partecipanti delle atroci sofferenze
procurate ad altre persone al di là della parete.
Ci si
potrebbe mettere invece sulle tracce di un realismo non-autorizzato che consiste
a mio avviso, fondamentalmente, nel tentativo di andare, con il linguaggio, di
là: nella stanza dei torturati, per mettersi in condizione di non spingere mai
più quel pulsante. Neanche distrattamente, neanche se incoraggiati e
rassicurati da tutto ciò che ci avvolge e sostiene. Forgiare il linguaggio in
forme irriconoscibili, perché possa essere usato come robusto piede di porco
per scardinare quella porta; o come sottile grimaldello per fare scattare la
serratura; o come testa d’ariete per buttare giù definitivamente il muro – questo
a seconda dell’indole e dei percorsi di ognuno. Un realismo dell’approssimarsi,
della vicinanza, dell’empatia tra la parola e la cosa, dell’aderire alla
realtà, che non significa (necessariamente) parlare della realtà. Certamente sarebbe
di un realismo irriconoscibile (come ce n’è e ce n’è stati), tanto quanto la
realtà che ci sfugge anche quando è a un millimetro dalla nostra pelle. Anche
quando si tratta della nostra pelle. Non
è solo il dolore a richiamarci al reale, è evidente: ma il dolore, il dolore
degli altri, il dolore oggetto dell’esperimento Milgram, è un indicatore
efficace. Ma si pensi alla militanza nel reale di Francesco di Assisi, riferita
tanto alla possibilità reale della
gioia, quanto a quella del dolore. Anche lì era una questione di prossemica nei
confronti dell’altro sia fisica che concettuale che spirituale (altro come gli
altri, altro come altro in me stesso, altro come alterità assoluta).
Credo che
Simone Weil intendesse proprio questo quando scriveva, nelle Intuizioni precristiane, che “l’immaginazione
è l’inferno”. L’immaginazione weiliana è l’irrealtà che ci conserva; è la
“stanza accanto” alla realtà, da dove spingiamo bellamente il pulsante della
scarica elettrica. L’immaginazione è la libertà che ci è consentita, che ci
àncora a questo sistema democratico: la “stanza accanto” è senza
dubbio la terra promessa del popolo della libertà.
Credo che compito,
responsabilità e rischio del poeta “impegnato” sia far saltare il tavolo del “realismo
della stanza accanto”; tirare il freno e scalare la marcia per de-sincronizzarsi rispetto alla “milgramizzazione”
universale, che rende tutto contiguo e connivente nel grembo del Mercato; tentare
una nuova, non-consentita, sincronia (empatia, prossimità…) con l’altro: gli
altri umani, gli animali, le cose, gli eventi, la Storia… Discendere perfino,
con i piedi e con il linguaggio, nel reale, per essere prossimo a tutto, e a
ogni cosa singolarmente.
Edoardo Sanguineti
– con il suo portato comunista tanto eretico da poter apparire ortodosso – non
ci indicava forse questa strada dichiarando che “le avanguardie sono state l’unico
realismo del Novecento”?
Il Novecento non
è il nostro secolo, le avanguardie stanno nei musei e nei sussidiari. Ma di
certo tornare a forme di realismo di denuncia, di documentazione, di epica, di
narrazione, non sarà sufficiente per avere un brivido che si propaghi dalla
nostra colonna vertebrale fino alla realtà circostante, scuotendoci,
scuotendola. Bisogna rischiare molto di più. La perfetta letizia della
decrescita, il perfetto realismo del compiuto disarmo – fisico e mentale – ci
spingerebbero verso un silenzio assoluto, il silenzio del dopo-catastrofe. Ma è
possibile oggi provare a contrastare questa tentazione riaprendo ancora una
volta, radicalmente, i conti mai risolti tra il linguaggio dell’arte e il
nostro destino?
già.
RispondiEliminaTiziana Cera Rosco