Articolo pubblicato su "Alfabeta2", n. 17, marzo 2012
1.
1.
Tra il 1961 e il 1963 il giovane psicologo statunitense Stanley
Milgram condusse un esperimento di psicologia sociale destinato a gettare una
nuova, inquietante luce sui fondamenti dell’etica e del comportamento umano. Il
dispositivo di ricerca era semplice: le “cavie”, ignare del funzionamento e
degli scopi reali dell’esperimento, erano incaricate da un finto scienziato di
infliggere scariche elettriche ad altre cavie (finte), ogni volta che queste fornivano
una risposta sbagliata ai quiz proposti. A ogni errore la scarica elettrica
aumentava di intensità, fino al livello definito “attenzione: scossa molto
pericolosa”. L’esperimento dimostrò statisticamente che persone “normali”,
selezionate a caso, possono essere disponibili a infliggere altissimi livelli
di sofferenza ad altri esseri umani, a sangue freddo e nella totale assenza di
motivazioni: il 40% dei partecipanti si spinse fino al penultimo livello
(“scossa molto intensa”), prima di protestare e ritirarsi; il 30% continuò fino
al livello più alto, che portava le finte cavie a una simulata perdita di
conoscenza, dopo grida, suppliche e convulsioni. Naturalmente gli “addetti al
pulsante” non sapevano di essere essi stessi il vero oggetto di studio, né
potevano immaginare che fosse tutta una messa in scena e che non esistesse
alcuna scarica elettrica. L’esperimento si articolava ulteriormente: la
disponibilità a torturare veniva studiata in funzione di diverse configurazioni
spaziali. In alcune sessioni “torturatori” e “torturati” erano posti molto
vicini, a distanza di contatto fisico; in altre veniva frapposta una maggiore
distanza, ma all’interno dello stesso ambiente; ancora, il “torturatore” veniva
portato in uno spazio contiguo, da cui poteva vedere attraverso un vetro ma non
sentire le reazioni del “torturato”; infine si dava la condizione
dell’isolamento fisico completo tra i due soggetti. Gli esiti mostrarono che a
ogni passaggio di distanziazione i partecipanti erano pronti a spingersi un po’
più in là nell’obbedire ciecamente al compito e quindi nell’infliggere dolore.
L’intera vicenda offre importanti indicazioni sulle modalità di rappresentazione della realtà, nella misura in cui rivela che è possibile, di fronte a situazioni identiche, assumere comportamenti opposti. Lacanianamente, i risultati dell’esperimento Milgram invitano a delle considerazioni sui linguaggi con cui ci rapportiamo alla realtà, e grazie ai quali diamo senso alle nostre azioni all’interno di quel linguaggio che è la realtà. Sono chiamate quindi in causa le pratiche di chi il linguaggio lo utilizza nel lavoro poetico, artistico e intellettuale. Attualmente da più parti si auspica un maggiore interesse della scrittura e dell’arte per la realtà, attraverso rinnovate forme di impegno. Sarebbe forse utile ripartire da Milgram per capire meglio di cosa parliamo quando parliamo di realtà, e di realismo.
4.
L’esperimento nasceva sulla scia dello sgomento ancora fresco per le
atrocità compiute dai nazisti: Milgram trasse ispirazione dal processo a
Eichman, che si stava svolgendo a Gerusalemme, lo stesso evento che influenzò
Anna Harendt nell’elaborazione di La banalità del male. Ma finì per rivelare che chiunque, anche in una
società democratica, è potenzialmente pronto a ricoprire un ruolo analogo a
quello del carnefice nazista. Persone “normali” compivano un crimine in assenza
di movente, semplicemente perché gli veniva detto che non stavano affatto
compiendo un crimine: lo certificava la figura dello scienziato (finto) che si
presentava come garante dell’utilità, della legalità e della normalità della
situazione.
L’esperimento creò sconcerto. Venne ripetuto e riformulato anche da
altri ricercatori, con la comprensibile aspettativa di vedere smentiti i
risultati. Un’ultima versione risale al 2009, attualizzata in relazione al
fenomeno del reality show. Le conclusioni di Milgram sono sempre state
confermate.
2.
Perché tornare a parlare di Milgram, oggi, nell’ambito di una riflessione
sulla letteratura, sull’arte e sul linguaggio?
L’intera vicenda offre importanti indicazioni sulle modalità di rappresentazione della realtà, nella misura in cui rivela che è possibile, di fronte a situazioni identiche, assumere comportamenti opposti. Lacanianamente, i risultati dell’esperimento Milgram invitano a delle considerazioni sui linguaggi con cui ci rapportiamo alla realtà, e grazie ai quali diamo senso alle nostre azioni all’interno di quel linguaggio che è la realtà. Sono chiamate quindi in causa le pratiche di chi il linguaggio lo utilizza nel lavoro poetico, artistico e intellettuale. Attualmente da più parti si auspica un maggiore interesse della scrittura e dell’arte per la realtà, attraverso rinnovate forme di impegno. Sarebbe forse utile ripartire da Milgram per capire meglio di cosa parliamo quando parliamo di realtà, e di realismo.
Cosa è accaduto nel mezzo secolo che ci separa dalla formulazione
dell’esperimento? Oggi in effetti siamo sempre lì, pronti a spingere quel
bottone. Quotidianamente produciamo dolore e morte a volontà: se non la
infliggiamo direttamente spingendo un pulsante, è pur vero che la
commissioniamo, ne condividiamo la responsabilità, la tolleriamo o
ratifichiamo: in ogni caso la perpetuiamo attivamente, magari perché essa è un
prodotto secondario – ma inevitabile – nel processo di produzione di ciò che
desideriamo ed esigiamo. Come nell’esperimento Milgram (come nella Germania
nazista, come nella guerra del Vietnam citata da Milgram nella conclusione del
suo Obedience to Authority del 1974) c’è un’autorità “universalmente”
riconosciuta che si fa garante e solleva i singoli dalla responsabilità (legale
ma anche morale) delle scelte individuali: questa autorità è costituita oggi
primariamente dal Mercato, in sintonia con i sistemi politici e quelli mediatici
a esso integrati. Tutto ciò che ha accesso al Mercato riceve automaticamente
l’autorizzazione e l’autorevolezza necessarie. La merce è emblema di verginità:
entrando nel Mercato, la merce riceve un battesimo e, come un neofita, viene
rilavata da ogni peccato, riacquista l’innocenza, riceve un nuovo nome. In
altre parole la merce porta con sé, compresi nel prezzo, tutti i gradi di
distanziazione che de-portano nella “stanza accanto” di Milgram, azzerando l’empatia
e consentendo, come nell’esperimento, di non darsi pensiero riguardo alla
propria responsabilità nell’aumento del tasso di sofferenza globale. Parlo di
migranti incarcerati e drogati nei CIE; di centinaia di migliaia di persone
massacrate nelle guerre mediorientali; delle infinite vessazioni a cui sono
sottoposti i Palestinesi; dei bambini costretti a lavorare per produrre i
giocattoli dei nostri bambini (e nostri); dei milioni di morti per fame, sete e
malattia a causa dell’eco(nomico)sistema di cui facciamo parte; delle violenze
antisindacali e del saccheggio delle risorse nei quattro angoli del mondo. Ma
anche dell’ecatombe quotidiana dei milioni di animali che vengono torturati e
ammazzati per immettere nel Mercato qualcosa di eccessivo e, tutto sommato,
futile.
3.
La grande conquista dell’ordine “democratico” globale non è tanto
l’occultamento della colossale ingiustizia su cui esso si basa. Questa è sotto
gli occhi di tutti: se per ipotesi ogni abitante del pianeta potesse improvvisamente
godere oggi stesso dei diritti essenziali che la democrazia promette e
rivendica universalmente, la società umana e il pianeta smetterebbero di
esistere prima di domani. La cosa è talmente lampante che nessuno cerca di
nascondere il fatto che la vertiginosa disparità è strutturalmente necessaria e
che costituisce l’asse portante del sistema. La conquista veramente innovativa
è piuttosto l’universalizzazione dell’“effetto Milgram”. Più illuminante del Principe
di Machiavelli, Obedience to Authority indica a oligarchi e
plutocrati globali l’ingrediente essenziale per esercitare il potere sulle
masse e perpetuare la violenza dall’alto nel tempo presente: la distruzione
dell’empatia, che si attua attraverso la distanziazione delle persone dal piano
della realtà. La iper-mediatizzazione fa al caso: maggiore è la
meta-informazione, minore è la capacità di reagire alla notizia; in questo senso
ogni rimbalzo mediatico (e informatico) corrisponde a un grado di
distanziazione nell’esperimento Milgram. Chi sta nella “stanza accanto” sa
tutto, ma è disposto a compiere qualunque cosa, se l’authority solleva da ogni responsabilità morale e legale. Ecco che
l’etica è rifondata sulla base della prossemica.
“Ama il prossimo tuo come te stesso”. Ci insegnano a considerare il
precetto cristiano come un’affermazione rivoluzionaria, utopica e folle: ispirata
dalla follia di un possibile amore sovrumano. Eppure, alla luce
dell’esperimento Milgram, la sentenza sembra più una constatazione della natura
umana che un’esortazione a superarla. Suonerebbe assai più eclatante: “Ama chi
sta nella stanza accanto come ami chi ti è prossimo”.
C’è da credere che chiunque invocherebbe la grazia per il
vitello-ingranaggio dell’industria alimentare, se venisse portato in prossimità
delle atroci sofferenze cui la bestia è destinata. Che differenza c’è tra la
sofferenza di un animale e quella di un umano? A giudicare dallo sguardo,
nessuna. Chi non farebbe di tutto per salvare una persona che sta rischiando la
vita dall’altra parte dalla strada? Una legge, peraltro, obbliga a farlo. Però
l’“omissione di soccorso” sembra costituire reato solo nella distanza
ravvicinata; se così non fosse sarebbe imperativo salvare ogni giorno la vita
di centinaia di migliaia di persone, alle quali basterebbe la piccolissima
parte di ciò che altrove viene sprecato. Si sta di fatto consumando una
grandiosa omissione di soccorso globale, un olocausto di dimensioni
inimmaginabili di cui nessuno alla fine sarà chiamato a rispondere.
Veniamo all’arte e al linguaggio. I quali oggi difettano certamente
della capacità di impegno, ma non di realismo. Non del realismo della
verosimiglianza, perlomeno. La descrizione della realtà è anzi pervasiva,
esaustiva e soddisfacente, come la sua denuncia. è tutto un pullulare di “libri neri” o di volumi che qualcuno
di molto potente “non ti farebbe leggere mai”. È consentito dire tutto, indicare
l’orrore, evidenziare statistiche che fanno rabbrividire. Si può anche
pubblicare per Mondadori un libro che critichi aspramente la proprietà di
Mondadori. Questa forma di realismo è consentita quasi senza eccezioni: è pur
sempre un realismo “sincronizzato” con le caratteristiche del Mercato e dei
sistemi ad esso integrati. È il “realismo della stanza accanto”, che non
porterà nessuno ad alzarsi dalla sedia o a staccare il dito dal bottone della
scarica elettrica. È il realismo del finto scienziato dell’esperimento, che
informa dettagliatamente i partecipanti riguardo alle sofferenze che essi
stessi stanno procurando ad altre persone al di là della parete.
Si potrebbe tentare tuttavia la strada di un realismo non-autorizzato,
andando clandestinamente, con il linguaggio, dall’altra parte: nella stanza della
realtà, in prossimità delle conseguenze delle nostre azioni, per mettersi in
condizione di non spingere mai più quel pulsante. Neanche distrattamente,
neanche se incoraggiati e rassicurati dall’ideologia che ci avvolge e pervade
in modo inerziale l’intera sfera del linguaggio. Questo non significa parlare di
certe cose: piuttosto, relativamente alla letteratura, scrivere in un certo modo, forgiare il linguaggio
in forme irriconoscibili perché possa essere usato come piede di porco per scardinare
quella porta, o come grimaldello per far scattare la serratura, o come testa
d’ariete per abbattere il muro. Un realismo dell’approssimarsi, della
vicinanza, dell’empatia tra la parola e la cosa, dell’aderire alla realtà, che
non significa – ribadisco – parlare della realtà. Certamente sarebbe un
realismo irriconoscibile, tanto quanto irriconoscibile è la realtà che ci
sfugge, anche quando è a un millimetro dalla nostra pelle, anche quando si tratta della nostra pelle.
Va specificato che non è soltanto attraverso la coscienza del dolore
che il reale ci convoca a sé: il dolore, però – il dolore degli altri, il
dolore oggetto dell’esperimento Milgram – è un indicatore efficace per
comprendere schiettamente la faccenda. Si pensi però alla discesa non-autorizzata
nel reale di Francesco d’Assisi, orientata tanto alla possibilità reale della gioia quanto a quella del
dolore – l’importante era che si trattasse del piano reale. Anche lì era una questione di prossemica nei confronti
dell’altro: prossimità fisica, concettuale, spirituale (dove per “altro” si
deve intende “gli altri”, ma anche “l’altro in me stesso” e “l’alterità assoluta”).
Probabilmente Simone Weil intendeva questo quando scriveva nelle Intuizioni precristiane che
“l’immaginazione è l’inferno”. L’immaginazione weiliana è l’irrealtà che ci
conserva infantili, insoddisfatti e inoffensivi: è la “stanza accanto” alla
realtà, da dove spingiamo bellamente il pulsante della scarica elettrica, senza
scopo e senza darci pensiero. L’immaginazione weiliana è tutta la libertà che
ci è consentita, la quale, nel venire esercitata, ci àncora a questo sistema politico divenuto ormai fatto
antropologico. E la “stanza accanto” è senza dubbio la terra promessa del
popolo della libertà.
5.
Credo che compito, responsabilità e rischio del poeta impegnato
sia far saltare il tavolo del “realismo della stanza accanto”; tirare il freno
e scalare la marcia per de-sincronizzarsi
rispetto alla “milgramizzazione” che rende tutto contiguo e connivente nel
grembo del Mercato; tentare una nuova, non-autorizzata, sincronia (empatia,
prossimità) con l’altro.
Discendere, perfino, con i piedi e con il linguaggio, nel reale, per essere
prossimo a tutto, e a ogni cosa singolarmente.
Edoardo Sanguineti – con il suo portato rivoluzionario tanto eretico
da apparire ortodosso – non ci indicava forse questa strada dichiarando che “le
avanguardie sono state l’unico realismo del Novecento”?
Il Novecento non è il nostro secolo. Le avanguardie stanno nei musei e
nei sussidiari. Ma di certo tornare a forme di realismo di mimesi, di denuncia,
di documentazione, di epica, non sarà sufficiente per arrivare ad avere un
brivido che si propaghi dalla nostra colonna vertebrale fino alla realtà
circostante; scuotendoci, scuotendola. Bisogna rischiare molto di più. Realismo
come inizio della (iniziazione alla) realtà. La perfetta letizia della
decrescita, il compiuto realismo del disarmo – materiale e mentale – ci
spingerebbero verso un silenzio assoluto: il silenzio del dopo-catastrofe, con
la catastrofe in corso.
È possibile contrastare la tentazione del silenzio riaprendo ancora
una volta, radicalmente, i conti irrisolti tra il linguaggio dell’arte e il
nostro destino?
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