Egregio signor Battista,
ho ascoltato il suo intervento sul
Teatro Valle, su Radio3, e sono rimasto molto sorpreso dalla sua
posizione e dalle sue argomentazioni; a tal punto da provare il
desiderio di scriverle per confrontarmi con lei.
Lei riconduce l’intera questione al
rispetto delle regole (“la questione è quella
del rispetto delle regole”, ha detto testualmente, enfatizzando
l’“è”). Come se l’occupazione del Valle avesse interrotto lo
svolgimento di un corso florido (ha tenuto a precisare che pochi mesi
prima dell’occupazione lei ha potuto godere di uno spettacolo con
Franca Valeri).
Eppure
lei certamente non ignora che l’occupazione è avvenuta dopo che il
disastroso Ente Teatrale Italiano – che ha assorbito e fatto
scempio delle risorse pubbliche destinate al teatro italiano per
molti decenni – è stato chiuso, praticamente da un giorno
all’altro.
Ascoltando
le sue parole uno potrebbe pensare che in Italia non sia in corso una
catastrofe – giunta con diversi anni di anticipo nel mondo del
teatro e della cultura – che ha alla sua base proprio le regole che
lei difende a priori, in quanto tali, senza possibilità di critica.
Ora,
la critica dell’esistente, che è il succo della democrazia, è
anche ciò che consente di immaginare cambiamenti, evoluzioni,
alternative, possibili miglioramenti.
E
laddove tutto crolla – restando al contempo ingessato in uno status
quo garantito dalla totale
paralisi gestionale, amministrativa, sindacale, fino a esaurimento
scorte – la critica talvolta è portata a spingersi un po’ oltre
l’assoluta cortesia, assumendo la forma della provocazione; perfino
forzando un po’ le regole.
Dove
un teatro rischia di chiudere e restare chiuso per anni (non sarebbe
il primo caso), per via di una pessima gestione e di una politica
governativa che fa colpevolmente terra bruciata di ogni presidio
culturale, mi sembra naturale e sano che l’esercizio della critica
si sposi con il principio della resistenza: in nome della
sopravvivenza e dell’identità culturale, del rispetto della
propria professionalità (mortificata da amministratori che non
pagano mai per i propri errori, i quali però possono rovinare la
vita delle persone); ma anche in nome di un tentativo di cambiamento
– necessario, a detta di molti – di quelle regole entro le quali
la crisi si è manifestata e ha trovato terreno facile.
Non
ritiene che il Valle Occupato, oltre che una “prevaricazione”,
sia stato e sia un laboratorio unico che ha portato a visualizzare in
concreto altri possibili sistemi di regole?
Non
crede che potrebbe essere utile osservare questo esperimento duraturo
non solo per stigmatizzarlo in nome del buonsenso e di un astratto
perbenismo, ma anche per capire che cosa sta funzionando, e perché?
Non
crede che l’occupazione del Valle sia stata consentita e tollerata
dalle autorità soltanto perché non esisteva alcun altro progetto
credibile e sostenibile per quello spazio?
E non
crede che paragonarlo con il Leonkavallo sia quanto meno bizzarro e
inopportuno?
Il
mondo cambia (e migliora, almeno secondo alcuni) grazie a piccole
forzature dello status quo,
soprattutto quando le strutture gestionali esistenti si rivelano
incapace di affrontare le sfide del presente, per non parlare del
futuro. Il sistema teatrale (e culturale) italiano istituzionale
dimostra da decenni di non essere in grado di sostenere, difendere,
produrre, promuovere alcunché.
Il
Valle Occupato è una “piccola forzatura” che non ha tolto niente
a nessuno, ha mantenuto in essere nella Capitale uno spazio culturale
di primaria importanza (altrimenti destinato a un futuro incerto e
forse ignominioso), si è fatto propulsore e spunto concreto di un
dibattito sulle nuove modalità di produzione e fruizione culturale,
che in Italia è assente tra le poltrone del Parlamento, negli studi
televisivi, nelle sale universitarie e tra le pagine dei principali
quotidiani.
Cordialmente,
Carlo
Cuppini