prepararsi alla morte del figlio, predisporre tutti i particolari, ordinare abbondanti corone di fiori, collocare la bara in fondo al vialetto, bene in vista, un po' rialzata, dove possa prendere in pieno la luce del sole – il figlio ha fatto il suo tempo, il figlio è passato, nel tempo del tutto per sempre, non c'è più bisogno del figlio, il figlio non serve, è un ingombro, un imbarazzo, un grave imbarazzo, è d'intralcio – accompagnarlo al dunque, tenendolo stretto per mano, affettuosamente, sorridendogli sinceramente, gioiosamente, lodando le doti, facendo le feste, come si conviene, in modo opportuno, non celando il buon umore, chiacchierando anche d'altro, lasciandosi di buon grado distrarre, coinvolgere in altri discorsi, interessandosi a faccende di poco interesse, per conversare con tutti i presenti, in virtù del bel tempo, non curandosi troppo del figlio, ormai grande, anche se dovesse piangere, sorridere allegri, svagarsi, ma non piangerà – giunti sul posto lasciarlo, accanto a tutti quegli altri, i figli degli altri, gli altri figli, quella dozzina di ragazzi e ragazze, abbandonarlo al suo tempo, al suo poco tempo, agli spiccioli di tempo, davanti all'evento, alla fine, al destino, di cui si incarica un militare, in una stanza minuscola, seminterrata, dove viene portato, lui solo, un po' buia, anche se lui non è pronto, non si sente pronto, non ha avuto tempo di pensarlo, di farsi una ragione, pensare un pensiero finale, e questo lo rende triste, in modo infinito, non essere pronto, avere sprecato la sera, precedente, l'ultima di tutte, caduto nel sonno all'improvviso, per la grande stanchezza ordinaria, del giorno, per la fatica del fare, le cose, le solite cose, le cose diverse, tutte le cose, addormentato senza un pensiero, al potere finire, così, l'indomani, un destino, nella piccola stanza, a cui potrebbe sottrarlo soltanto, un tiro di sorte, inatteso, un volto di donna, sortilegio, con voce potente, inattesa, che non riguarda nessun altro
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