Articolo pubblicato su www.radiocora.it
L’anno primo dell’epoca pandemica è stato caratterizzato da un caotico rimescolamento e sovrapporsi di ambiti dell’esistenza e della conoscenza tradizionalmente distinti – ancorché spesso contigui – sui quali ha dominato qualcosa di non ben definito che è stato talvolta identificato – da media, politici, amministratori, commentatori, scienziati – con la locuzione “la scienza”. Mi sembra importante e urgente che si sviluppi una riflessione su questo tema in generale, in senso culturale, e nello specifico dell’attualità che ci riguarda più da vicino. Il mio contributo consiste in una serie di domande e in alcune considerazioni.
DOMANDE:
- Di cosa parliamo quando parliamo di scienza?
- Quali sono le differenze – metodologiche e di collocazione all’interno del sapere e dell’esperienza umana – tra scienze esatte, naturali, umane, sociali, statistiche?
- Quali sono i rapporti tra le scienze e le tecniche?
- Cos’è la medicina? Una scienza, una tecnica o un insieme di tecniche basate su una serie di scienze (e anche su altri saperi)?
- Nello spazio concettuale tra evidenze scientifiche, metodo scientifico, tecniche, politica, dove si collocano esattamente le politiche sanitarie?
- Nella attuale situazione (fronteggiare una malattia infettiva nuova e relativamente sconosciuta), cosa pertiene alle scienze (e a quali delle scienze), cosa alla medicina, cosa alle politiche sanitarie e cosa alla politica tout court?
- Quale tasso di complessità sta nello spazio compreso tra le opposte e speculari deformazioni cognitive con cui abbiamo avuto a che fare nei mesi scorsi, riassumibili in “la scienza non è democratica” e “basta scienza”?
- Quali sono il ruolo e la posizione della cultura scientifica nelle società contemporanee?
- In particolare, qual è il ruolo della cultura scientifica rispetto alla politica, ai principi giuridici e alla cultura democrazia?
- Che cos’è stato storicamente lo scientismo? Si può dire che abbia qualche corrispettivo oggi?
- Esistono dei paletti che, se scavalcati, trasformano la scienza in ideologia scientista? Quali?
- Cosa ci dicono la filosofia della scienza e la storia della scienza, oggi?
- In che relazione stanno queste discipline (umanistiche?) con le discipline scientifiche?
- Scienziati e tecnici possono considerarsi legittimati a sostenere l’opportunità o la necessità di adottare misure contrarie alle leggi o ai principi costituzionali (quale che sia il fine perseguito)? Oppure questa eventuale responsabilità deve essere esclusivamente in carico alla politica, dopo che gli scienziati hanno esposto principi generali di salute pubblica senza entrare nel merito delle plausibili modalità di attuazione?
- In altre parole (per esempio): posto che uno scienziato può certamente dire “è necessario rallentare la diffusione del contagio, altrimenti accadrà questo”, è ammissibile che chieda ai decisori che, per perseguire questo scopo, è necessario sospendere gli articoli 13 e 16 della Costituzione (o altri)?
- In Europa vige ancora il principio bioetico per cui nessuna innovazione tecnologica potenzialmente incidente sulla salute può essere autorizzata prima che ne sia dimostrata sperimentalmente la non nocività? Oppure ha prevalso il paradigma opposto, tipico della cultura nordamericana, per cui tutto è autorizzato finché non ne sia provata la nocività?
- Di fronte all’attuale situazione, si rende necessario un CTS, o il governo potrebbe/dovrebbe avvalersi degli organismi istituzionali esistenti (ISS, CSS, Aifa…), trovando modi per coinvolgere in modo ampio e costante la comunità scientifica più accreditata?
- Se deve esistere un CTS, da quali figure professionali dovrebbe essere formato?
- Alla luce dei verbali pubblicati, delle dichiarazioni dei membri, delle affermazioni dei governanti, delle inchieste giornalistiche… siamo oggi in grado di compiere una valutazione dell’operato del CTS nelle varie fasi della gestione dell’epidemia?
- L’aspetto medico della risposta all’emergenza sanitaria è stato rappresentato adeguatamente all’interno del CTS (composto per lo più da medici), o in quel contesto ha prevalso nettamente quello epidemiologico (come evitare la diffusione del contagio)?
- In altre parole: l’idea “nuova” che si dovesse contrastare a tutti i costi la circolazione del virus, non ha forse finito per accantonare, o addirittura ostacolare, un approccio medico tradizionale al problema (come curare con efficacia i malati)?
- Il rapporto consiglieri-decisori-cittadini (comprendendo nell’ultima categoria anche la comunità scientifica) è stato adeguatamente trasparente? Ci sono ragioni perché non lo sia?
CONSIDERAZIONI:
Queste domande rimandano a diversi momenti della gestione della pandemia. Uno di questi mi pare emblematico: il documento “Una proposta per riaprire l’Italia”, sottoscritto da autorevolissimi scienziati, tra cui Roberto Burioni che lo ha diffuso sul suo sito il 14 aprile scorso. Non posso né voglio entrare nel merito scientifico del documento; voglio porre l’attenzione su una sola parola all’interno del seguente passaggio:
“Per tornare gradualmente alla nostra vita di sempre, proponiamo la creazione di una struttura di monitoraggio e risposta flessibile, MRF, dell’infezione da SARS-CoV-2 e della malattia che ne consegue (COVID-19) e, possibilmente, in futuro, di altre epidemie. Questa nuova struttura, con chiare articolazioni regionali, che prevediamo operare sotto il coordinamento di Protezione Civile (PC) e Ministero della Salute (MinSan) e il supporto tecnico dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS), dovrà avere le seguenti caratteristiche generali: (…) 4) Mandato legale di proporre in modo tempestivo e possibilmente vincolante provvedimenti flessibili in risposta a segnali di ritorno del virus, tra cui forme di isolamento sociale (sospensione di attività, eventi sportivi, scuole, ecc…)”
La parola che voglio evidenziare, alle luce delle domande che ho elencato, chiaramente è “vincolante”: scienziati, tecnici che possano determinare iniziative fortemente impattanti sulla vita individuale e sociale e potenzialmente contrarie a principi e articoli della Costituzione, ponendosi al di sopra (in questo modo mi sembra che vada inteso quel “vincolante”) agli stessi poteri legislativo ed esecutivo.
La data di diffusione di questo documento è interessante: esattamente 10 giorni dopo, infatti, il 24 aprile, un gruppo di medici, ricercatori, farmacologi, guidati da Piero Sestili, ordinario di Farmacologia all’Università di Urbino, mandavano al Ministro della Salute – sincerandosi che venisse recepita – una lettera che poneva l’attenzione sulla possibilità e necessità di sviluppare un discorso sulle terapie domiciliari precoci. Nel documento si legge tra l’altro: “Secondo la nostra esperienza è invece proprio in queste fasi iniziali che andrebbe intrapreso il contenimento farmacologico dell’infiammazione per evitare che i suoi danni si accumulino, trascinando alcuni pazienti in quella grave condizione poi difficilmente rimediabile. Questo appello è quindi volto a richiamare la Sua attenzione sulla necessità di promuovere l’adozione tempestiva e precoce (all’inizio della sintomatologia respiratoria sospetta) rispetto all’odierna prassi, di una semplice terapia antinfiammatoria efficace come quella Cortisonica a medio o alto dosaggio associata, a giudizio del medico curante, a farmaci a probabile attività anti- SARS-CoV-2 come la Clorochina e all’Enoxaparina per prevenire le gravi complicazioni trombotiche come la C.I.D. Questa terapia, va sottolineato, potrà essere svolta in ambito domiciliare.”
A detta dei promotori della lettera, non è mai pervenuta alcuna risposta. Eppure i contenuti della lettera (al netto di alcuni aspetti che sono state indagati e in parte chiariti da successivi studi – per esempio il ruolo dell’idrossiclorochina), sono stati ampiamente validati dalle successive “scoperte” di Oxford sul desametasone “farmaco salvavita”, dal protocollo di cura diffuso da un luminare della farmacologia come Giuseppe Remuzzi (che parte dagli antinfiammatori), dalle recenti affermazioni del nuovo presidente dell’Aifa Giorgio Palù in merito al ruolo dei “farmaci salvavita”, anche qui a partire dagli anti-infiammatori, e dell’importanza cruciale delle terapie domiciliari tempestive, in grado di ridurre il rischio di decorso infausto della malattia.
La quasi contemporaneità dei due documenti, vista a posteriori, suscita una riflessioni: sembrerebbe che in quel momento, in virtù della potenza del “mito covid”, allora in piena costruzione, si è consumata la separazione tra medicina ed epidemiologia difensiva, a tutto danno della prima. (Nota bene: parlare di “mito covid” non significa in alcun modo negare l’esistenza reale del covid come malattia, o del virus Sars-Cov-2; significa rilevare che la rappresentazione che del covid è stata fatta, nei mesi iniziali della pandemia in modo unanime e unilaterale, incentrata sull’assolutizzazione della sua “eccezionalità”, ha ostacolato e ritardato la possibilità di conoscere le “specificità” reali della “malattia covid”; e di tarare le reazioni e le iniziative su quelle). La prospettiva propriamente medica è stata di fatto seppellita (se ne comincia a parlare con qualche disinvoltura soltanto oggi, pur in mezzo a ripetuti tentativi di screditare i “medici che curano”, esponendo al pubblico ludibrio singoli casi impresentabili), soppiantata per iniziativa di influenti scienziati e consiglieri (per lo più medici, e non epidemiologi, tra l’altro) da quella che negli effetti (non certo nelle intenzioni – non siamo complottisti!) è stata ed è un’immensa operazione di ingegneria sociale, di devastazione psicologica, di ristrutturazione economica non concertata e non passata per i percorsi della democrazia.
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