C'è un piccolo libro importante, pubblicato da Edizioni Centro Studi Erickson, scritto dalla professoressa Daniela Lucangeli e dall'esperto di comunicazione Luca Vullo. È un manuale pratico e veloce di comunicazione piena, umana ed efficace nei contesti scolastici ed educativi, e in tutti quelli in cui avviene un incontro tra adulti e bambini. È anche un racconto di quello che questo rapporto è e può essere. Ed è una riflessione teorica su quello che dovrebbe intercorrere, tra adulti e bambini. Il libro è incentrato sull'importanza del corpo, dei gesti, degli sguardi, dei sorrisi, dei volti (tutti interi), del non detto, del "toccato con mano", della comunicazione non verbale e dei linguaggi corporei, dell'ascolto, della comunità, del sentire. Tutto ciò che è stato non solo colpito dalle misure contro la pandemia (questo sarebbe un problema relativo), ma "minimizzato", per troppo tempo, perché a qualcuno non venisse in mente di farsi domande sulla capacità di contemperare esigenze primarie e diritti essenziali dei decisori che quelle misure andavano attuando. Altro sarebbe stato sacrificare temporaneamente dei beni essenziali, essendo ben coscienti, drammaticamente coscienti, di quanto si stava compiendo; convinti del dovere di un prossimo, quanto più sollecito, risarcimento per tutto ciò che si era negato.
blog di Carlo Cuppini
martedì 28 settembre 2021
Alla ricerca del corpo perduto
Marco Villoresi: "Io mi sento cittadino più di prima"
Pubblico, con profondo coinvolgimento e adesione morale, il testo integrale di una nuova lettera di Marco Villoresi, professore di Letteratura Italiana all'Università di Firenze, sospeso dall'insegnamento e dallo stipendio in conseguenza della sua scelta di non esibire la Certificazione Verde. Anche la sua prima lettera, con cui il 16 settembre annunciava la sua decisione, è pubblicata su questo blog con l'autorizzazione dell'autore.
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Firenze, 26 settembre 2021
Carissimi.
Rivolgo le seguenti riflessioni a tutti i liberi cittadini che hanno a cuore la salute della democrazia e della società italiana, ma scrivo direttamente a voi, compagni e colleghi della comunità universitaria, che state lottando, con grande impegno e lucida intelligenza, contro il cosiddetto Green Pass. Sento il bisogno di scrivervi per dimostrare pubblicamente il mio totale apprezzamento per quello che state facendo. In particolare, per la vostra volontà di denuncia delle pericolose derive che investono i campi del diritto e dell’etica, della scienza e della comunicazione, condizionando sempre più pesantemente il nostro vivere civile. Tutto questo si concretizza nel vostro NO, che faccio mio, che facciamo nostro, così limpido e così genuino, il NO alla discriminazione tra cittadini, alle limitazioni delle libertà dell’individuo, alla riduzione della nostra umanità ad un mero codice a barre.
Molti di voi, credo, sanno qual è stata la mia scelta. Come avevo annunciato in una lettera del 16 settembre alla Rettrice dell’Università di Firenze, poi finita sui giornali senza che io muovessi un dito e a mia insaputa - È la stampa, bellezza! -, mi sono rifiutato di esibire il lasciapassare. Il 22 settembre, giorno d’inizio del mio corso di Letteratura Italiana, la mia scelta è stata burocraticamente registrata. Le conseguenze le conoscete tutti: sono a casa senza stipendio. Dura Lex, sed Lex. Che, difatti, serenamente accetto. E altrettanto serenamente, condividendo il mio stesso destino, la sta accettando il collega Stefano Leoni, vicedirettore del Conservatorio di Torino.
Sembrerà paradossale ai più, ma questa scelta non la sto vivendo - permettetemi di rifarmi ad un’autorevole definizione - da cittadino di serie B. Tutt’altro, direi. Sono cose note, del resto: il passaggio dalla parola all’atto - quando l’atto è ben meditato e consapevole - ha sempre una funzione liberatoria. In questo momento, io mi sento cittadino più di prima. Un libero cittadino italiano che accetta le conseguenze di una sua libera scelta. D’altronde, come ho risposto ai molti - ai sorprendentemente molti - che mi hanno voluto mostrare vicinanza e stima, ho solo scritto quello che pensavo. E ho solo fatto quello che ritenevo necessario. Tutto qui.
Ma non è certo per parlarvi di me e di quello che sto vivendo, che vi scrivo. Vi scrivo, invece, per provare ad immaginare - provando a immaginarlo insieme a voi - cosa potrebbe essere fatto di pratico e di incisivo nelle giornate che ci separano dal 15 ottobre. Allorquando, è noto, l’utilizzo del lasciapassare - un unicum fra le democrazie d’Europa, ricordiamolo sempre - verrà esteso a tutti gli ambiti lavorativi. Una data che ritroveremo senz’altro nei libri di storia. Ma dubito, come tutti voi, che sarà una data di cui il nostro paese potrà andar fiero.
Vengo al dunque, partendo da una cosa che penso di aver capito di questo reo tempo che ci tocca vivere. E che forse voi stessi, come e meglio di me, avrete con grande pena percepito, giorno dopo giorno, sempre più distintamente. Molti liberi cittadini si sentono soli e smarriti. E, soprattutto, molti lavoratori si sentono traditi. Traditi dalle istituzioni, dai partiti, dai sindacati. Solitudine, smarrimento, sensazione di esser stati traditi. Credo siano sentimenti diffusi e trasversali. Non si tratta di giovani o anziani, di persone appartenenti a specifiche categorie sociali e culturali, a quello o quell’altro schieramento politico. Né, tantomeno, si tratta semplicemente di chi, oggi come ieri, è più o meno favorevole a certe restrizioni o imposizioni, o a certe scelte sanitarie anziché altre.
Ebbene, che cosa possiamo fare per combattere questo generale senso di disagio e di asfissia che colpisce molti italiani, anzi che cosa dobbiamo necessariamente fare noi che lavoriamo nell’Università? Comincerei proprio dall’Università, dalla nostra realtà professionale. Dicendo che il civile, pacifico e umanissimo rifiuto del lasciapassare deve andare di pari passo con la serena pretesa di vivere e di lavorare in un’Università libera, aperta, inclusiva. Questo significa cambiare molti dei paradigmi oggi in vigore, alcuni dei quali surrettiziamente consolidati in tempo di pandemia. Dobbiamo far presente con chiarezza ciò che NON vogliamo. Non vogliamo l’Università asservita al potere politico-economico, l’Università dei burocrati e dei lacchè, dei tornelli e dei QR Code, del pensiero unico e del sapere profilato. L’Università deve tornare ad essere, in ogni disciplina, il campo di ricerca permanente di quelle verità che non possono mai coincidere con la Verità. Sono le sole verità, lo sappiamo bene, che il libero pensiero scientifico può accettare: le verità soggette a costante revisione, sempre criticabili e fallibili, sempre reversibili e falsificabili. Questo credo oggi sia davvero indispensabile, per ritrovare il gusto di una sana dialettica senza censure e mettere un argine a quella spudorata trasformazione della scienza in scientismo a cui stiamo assistendo nell’ultimo anno e mezzo. Lo dobbiamo, innanzi tutto, ai nostri studenti. Che potranno contare anche e soprattutto su questo costante esercizio critico per restare sempre dei liberi cittadini, senza mai trasformarsi in docili sudditi.
In questi giorni che ci separano dal 15 ottobre, tuttavia, occorrerà trovare concretamente il modo per mostrare che noi docenti siamo vicini non solo ai nostri studenti – e, in particolare, a quelli non osservanti, a cui viene impedito il libero accesso alle lezioni, alle biblioteche, ai laboratori. Noi dovremo mostrare di essere solidali e vicini anche a quei cittadini soli, smarriti, traditi di cui parlavo prima, smentendo una volta di più coloro che hanno volgarmente insinuato che ci muoviamo soltanto per spirito di corporazione.
Non c’è bisogno che ve lo dica: io posso liberamente esporre la mia idea di Università, come ho fatto, ma non ho nessuna autorevolezza, né tantomeno diritto di suggerire che cosa fare alla singola persona per opporsi alla vergognosa estensione del lasciapassare. Anche perché, oltre ad essere scelte molto intime, sono scelte che possono mettere in gioco aspetti materici della vita di tutti i giorni. Lo avrete capito, però, e certo non posso negare che alle libere scelte individuali - alle scelte fatte in scienza e coscienza che precipitano nel reale - riconosco una forza e un credito speciale. E persino, come dicevo poc’anzi, un valore terapeutico.
Il vostro gruppo, che è il mio gruppo, è frutto di queste scelte individuali. Ora sappiamo che siamo tutti dalla stessa parte, la parte che ci sembra giusta. E non importa se siamo pochi o se siamo tanti. Avendo ben chiaro il comune obiettivo, ognuno di noi nei prossimi giorni continuerà a fare liberamente quello che riterrà opportuno. Mi permetto, però, di fare una considerazione elementare, sempre rispettando le idee, le sensibilità e le esigenze di ciascuno. Il 15 ottobre, ne converrete, è una linea di confine: se non ci sarà un forte segnale di civile e serena resistenza, dal giorno dopo le discussioni sul lasciapassare saranno per davvero solo sterili discussioni accademiche.
Nessuno può essere chiamato a fare ciò che liberamente non vuole fare. E nessuno meglio di noi lo sa, dato che è anche per questo che stiamo lottando. Credo, però, a una cosa molto semplice: se alcuni di voi, ovvero se alcuni dei professori firmatari dell’appello contro il cosiddetto Green Pass, per qualche giorno evitassero di esibire il lasciapassare, ecco, io credo che sarebbe il modo migliore per mettere in luce una forza pacifica e pronta a lavorare per una società più libera, informata e consapevole. D’altronde, sulla base delle notizie che stanno circolando, non è difficile immaginare che il 15 ottobre quel gesto di civile e trasparente disobbedienza lo faranno operai, artigiani, impiegati e persino poliziotti. Non importa quanti, sarà quel che sarà. Ma io voglio anche immaginare che a fianco di questi cittadini e lavoratori ci saranno dei professori universitari. E il solo immaginarlo, credetemi, mi dà gioia e salute.
Con stima e amicizia,
Marco Villoresi
venerdì 24 settembre 2021
Il contagio della dignità
domenica 19 settembre 2021
Dignità
Dal mondo della scuola e dell’università giungono storie di miseria, intimidazione e abuso di potere, tese a umiliare la dignità delle persone. Come quelle che ho raccontato nei giorni scorsi. Arrivano anche storie straordinarie di umiltà, dignità e scelte drammatiche, dolorose.
Vi prego di leggere fino in fondo questa lettera (che diffondo con il permesso dell’autore) di Marco Villoresi, professore di Letteratura Italiana dell’Università di Firenze.
Vi prego di diffonderla, se credete, anche in segno di solidarietà verso il professore dimissionario.
È una “semplice testimonianza” che dovrebbe essere inclusa nella contro-storia culturale di questa epoca terribile che stiamo cercando di scrivere, e di difendere dall'erosione dei significati che la narrazione delle abluzioni rituali e della “sana obbedienza”continuamente produce.
Questa scelta, insieme alle parole che la raccontano, insegnerà ai nostri figli a credere che anche nel momento più buio non tutto deve essere considerato perduto.
Come oggi i “no” pronunciati 90 anni fa da 12 docenti universitari su 1200 ci danno la misura del coraggio possibile, della dignità necessaria.
Grazie, professor Villoresi.
Buon coraggio a tutte e a tutti.
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La mia scelta di non avvalermi del Lasciapassare Verde.
Cari tutti,
mi permetto di rubarvi pochi minuti del vostro preziosissimo tempo per comunicarvi la mia scelta - una scelta ben più che minoritaria, verosimilmente, nell'Università italiana - di non avvalermi del lasciapassare verde. Questo breve scritto, lo dico subito, non ha alcun intento provocatorio o propagandistico. Si tratta di una semplice testimonianza - la mia testmonianza, inevitabilmente parziale, irriducibilmente soggettiva. Che vi chiedo di accogliere, comunque, quale che sia il vostro libero pensiero in merito all'argomento, come atto di doveroso e profondo rispetto nei riguardi di tutti gli studenti e di tutti i compagni di lavoro del Dipartimento di Lettere e Filosofia e dell'intera comunità accademica.
Non entrerò troppo nel dettaglio delle motivazioni, universali o intime, che mi hanno portato a fare questa scelta. D'altronde, tutti voi avete sapienza e cultura in abbondanza per immaginarne in gran numero e varietà: di ordine politico, ideologico, giuridico, costituzionale, razionale, scientifico, sanitario, etico, psicologico e persino psichiatrico. E magari motivazioni che riguardano la stessa Università, ovvero se oggi l'Università sia ancora abitata da un disinibito e indipendente spirito critico, se viva ancora di fertili controversie o si mortifichi in uno sterile conformismo, se promuova il rischio dinamico della creatività e della complessità o prediliga la statica sicurezza del protocollo e della profìlazione seriale. Infine, e soprattutto, se l'Università possa dirsi, oggi, spazio libero, aperto e inclusivo.
Ma, davvero, non ha nessuna importanza che io renda conto nello specifico di questa mia personalissima scelta. Perché è questa scelta, non ciò che l'ha motivata o che può significare, che determina l'impossibilità di iniziare, come ogni anno, il mio corso di Letteratura Italiana; è questa scelta a mettermi ipso facto in quella condizione di diversità e di precarietà che molti - comprensibilmente, per carità - non possono ne vogliono sopportare.
Si tratta, in sostanza, della "scelta di scegliere" indipendentemente dalle conseguenze - permettetemi, per una volta, di aggrapparmi alle parole altrui -, quella che "investe le condizioni di possibilità di ogni eventuale scelta, a partire dalla propria. Da qui la sua forza, ma anche la sua pericolosità e il suo rischio" (G. GIORELLO, Di nessuna chiesa. La libertà del laico). Sembra un atto di patetico integralismo intellettuale a vocazione pubblica, ma è tutt’altro: è un atto psico-fisico di necessità, è la resistenza individuale, privata e obbligata di chi sa di perdere molto, se non tutto, ma intende, insieme alla sua libertà, conservare il rispetto di sé.
Dunque, sono ben consapevole di ciò che il mio eretico Non Serviam! comporta sul piano burocratico ed economico: al momento, la sospensione dal lavoro senza retribuzione; più avanti, forse, il licenziamento. E chissà che altro ancora: quando si innesca, come la storia ci insegna, la brama di discriminazione e di persecuzione non conosce limiti.
Comunque sia, sono ancor più consapevole delle conseguenze che tale scelta provoca sul piano emotivo e umano. E chi mi conosce sa bene che il dispiacere più grande sarà la perdita dell'energizzante contatto con gli studenti: quel salutare assembramento e contagio di intelligenze, di progetti e di corpi che resta la cosa più bella e importante, la cosa più vitale, del nostro mestiere.
Dal 1984, anno della mia immatricolazione, non è passato giorno che io non abbia fatto parte, in un ruolo o nell'altro, dell'Università di Firenze. Qui, nella mia città, ho potuto godere del beneficio di studiare e di lavorare sotto la guida e al fianco di grandi maestri, di formarmi come ricercatore e docente. E, soprattutto, come uomo.
Però, davvero non ho intenzione, nel contesto, nelle forme e nei toni con cui oggi viene richiesto, di esibire il lasciapassare verde per insegnare, per andare in biblioteca, per entrare nel mio studio, per incontrare gli studenti, i laureandi, i dottorandi... peraltro avendo anche il sacerdotale ufficio di interrogare, controllare e allontanare gli eventuali renitenti all'osservanza.
No, non ho intenzione di godere di questo inopinato 'privilegio coatto' che, diversamente da quanto avviene in tutte le democrazie d'Europa, il governo del nostro paese (e l'Università) vuole concedere, bontà sua, ai docenti, agli amministrativi e agli studenti ben codificati e, sempre e ovunque, scansionabili. Per quanto tempo - mesi, anni, in eterno? -, non si sa. Neanche, si badi, ho intenzione di infrangere la legge - almeno per ora, mi pareche il diritto non preveda ne punisca gli psicoreati.
Da libero cittadino italiano, dunque, da membro della comunità universitaria, scelgo di esercitare una civile protesta che si concretizza nel rifiuto del lasciapassare verde.
Ma accetto socraticamente - consentitemi il conforto dell'autoironia - ciò che il governo del nostro paese (e l'Università) ha deciso nei riguardi di chi non esibisce quotidianamente la sua prona adesione al sempre più pervasivo e abusivo controllo biopolitico, alle limitazioni di diritti fondamentali della persona e allo stato di emergenza permanente.
Accetto, sì, riservandomi, tuttavia, la libertà di pensare e definire tutto questo un abominio. Un abominio che, come sappiamo, presto toccherà in sorte a tutti i lavoratori italiani. Non ho banda, sono solo, direbbe il Poeta: non appartengo a nessuna parrocchia accademica, non ho mai avuto tessere di partito e, sinceramente, ho in uggia appelli, petizioni e prese di posizioni verbali senza ricadute nella realtà effettuale.
Di conseguenza, della mia scelta mi assumo in toto e concretamente la responsabilità. Sarà senz'altro incompresa e disprezzata dai più - ben percepisco lo spirito del tempo, dunque anche di questo sono perfettamente consapevole.
Ma, credetemi, la faccio senza imbarazzo e in pace con me stesso. È stata ben meditata, è stata presa in piena autonomia e, inutile dirlo, non ha nessuna velleità di risultare esemplare. È solo la mia scelta, che sin dai prossimi giorni mi destina, se non alla macchia, ad un volontario confino, In partibus infìdelium.
Così, in attesa di tempi migliori, semmai ne capiteranno, e di qualche buona novella, proverò l'esperienza di color che son sospesi... dal lavoro, dai luoghi della cultura e della socialità, e da alcuni servizi pubblici essenziali.
E allora, visto che questa è la stagione che ci tocca attraversare, non mi resta che augurare schiettamente a tutti voi tanta salute e altrettanta serenità.
Un grande abbraccio,
Marco Villoresi.
domenica 12 settembre 2021
venerdì 3 settembre 2021
Green pass e giovani: esclusione, hate speech, capri espiatori - Lettera aperta alle istituzioni
di Carlo Cuppini *
Giovanni Agnoloni *
Enrico Macioci *
* scrittori e operatori culturali
- È accettabile che lo Stato ponga ostacoli alla formazione intellettuale dei giovani e alla partecipazione attiva e passiva dei cittadini alla vita culturale del Paese, quale che sia il fine ultimo, anziché rimuoverli?
- In Italia l’infanzia e l’adolescenza godono ancora di uno statuto speciale che garantisce loro una tutela straordinaria da parte delle istituzioni e della comunità?
Premessa: Green pass e Certificazione verde
Nel momento in cui si sono resi disponibili i vaccini anticovid, le istituzioni europee hanno avviato un percorso per porre coordinate e paletti politici, giuridici ed etici adeguati alla nuova fase della gestione della pandemia. L’obiettivo era quello di normare una materia complessa come quella della vaccinazione anticovid, favorendo la più rapida uscita dall’emergenza internazionale e facendo salvi allo stesso tempo – con uguale senso di priorità – i valori della democrazia e i fondamentali principi della civiltà del diritto.
In questo contesto il Consiglio d’Europa, con la risoluzione 2361 del gennaio 2021, ha disposto che la vaccinazione sia volontaria e che i non vaccinati non siano oggetto di discriminazioni. Successivamente, Commissione Europea e Parlamento Europeo hanno varato il “green pass”, uno strumento finalizzato a facilitare la libera circolazione e gli spostamenti tra le nazioni, ribadendo il principio di non discriminazione, come si legge nel regolamento UE 2021/953.
Il governo italiano, sulla scia di quello francese, ha voluto interpretare uno strumento nato con tale finalità come un dispositivo normativo che divide i cittadini in due insiemi destinati a beneficiare di differenti diritti e opportunità. La “Certificazione Verde Covid-19” che nasce con il decreto legge 23 luglio infatti non è il green pass varato dalle istituzioni europee. Eppure nell’immaginario comune, per via di ambiguità linguistiche nella comunicazione istituzionale e mediatica, le due cose tendono a coincidere.
Sul passaporto sanitario voluto dal governo italiano sono già state espresse molte critiche e qui non vogliamo tornare sul tema: il nostro punto di vista coincide con quello espresso nel documento “Green pass: le ragioni del no”, oggetto di una sottoscrizione popolare che ha avuto l’adesione anche di numerosi esponenti del mondo della cultura, del diritto, dell’università e della comunità scientifica.
Quello di cui vogliamo parlare sono le implicazioni della Certificazione Verde Covid-19 per gli adolescenti e i giovani.
La pressione sui giovani
La cosa che lascia maggiormente turbati, in questa vicenda politica, è la pressione psicologica e materiale che per tramite di questo decreto viene esercitata sui minorenni e sui giovanissimi: cittadini riguardo ai quali non viene fatto alcun distinguo, né nelle fonti normative né in seno al discorso pubblico, come se non dovessero essere sempre e inderogabilmente oggetto di particolari considerazioni e attenzioni. Lo stabilisce, oltre a un principio etico che dovrebbe essere universalmente condiviso, la Convenzione ONU sui Diritti dell’Infanzia, ratificata dall’Italia esattamente trent’anni fa con la legge 176/1991 (art. 3): “In tutte le decisioni relative ai fanciulli [persone di minore età], di competenza delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l'interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente”.
Ci sembra incredibile che lo Stato ponga un cittadino – tanto più se minorenne – di fronte alla possibilità di compiere una determinata scelta, a costo però di essere escluso da una serie di attività culturali, sociali, sportive, ricreative, che potrebbero – dovrebbero – essere parte essenziale e imprescindibile della sua vita, della cura della propria salute psico-fisica, del proprio processo di crescita, della partecipazione attiva e passiva alla vita culturale del Paese; salvo sottoporsi costantemente a un test che potrebbe essere non sempre disponibile con il necessario tempismo, costoso, invasivo, in alcuni casi fastidioso o doloroso. (A questo proposito ci chiediamo perché i tamponi salivari, annunciati un anno fa come soluzione pratica, attendibile e non invasiva, non siano ancora all’ordine del giorno).
Discorsi di odio
All’aspetto ricattatorio delle esclusioni si aggiunge la retorica del “dovere morale”, con la conseguente paura di incorrere nello stigma sociale – preoccupazione tanto più forte negli adolescenti e nei giovanissimi, come sappiamo. Una paura alimentata da una comunicazione mediatica – anche per bocca di influenti persone di scienza, purtroppo – e perfino istituzionale, drammaticamente irresponsabile, che non di rado evoca a parole (e suscita nel mondo reale) conclamate situazioni di illegalità. Disumanizzare le persone non vaccinate paragonandole ai topi, definendole “vigliacchi”, “traditori”, “disertori”; auspicare che ai malati non vaccinati vengano fatte pagare le cure (insinuando forse che qualora non se lo potessero permettere dovrebbero essere lasciati privi di assistenza medica?), o che vengano esclusi dal servizio sanitario nazionale; tollerare interpretazioni indefinitamente estensive e “creative” delle interdizioni in varie attività sociali e contesti lavorativi non previsti nel decreto; criminalizzare una scelta che – va ribadito – è consentita dalle norme nazionali e tutelata da quelle internazionali, con esplicito divieto di qualunque forma di discriminazione: tutto questo sta determinando un drammatico dissesto sociale, con un clima da caccia alle streghe che coinvolge allo stesso modo adulti e minorenni.
Assistiamo in questi giorni a una escalation sconcertante di questo hate speech, sia nella comunicazione istituzionale sia in quella mediatica. Abbiamo ascoltato un presidente di Regione annunciare l’esclusione dei cittadini non vaccinati dai luoghi pubblici e dalla vita della comunità; non come sanzione per avere violato una norma, si badi, ma perché in loro “prevale la dimensione egoistica”: perché “non sei degno di entrare in un ambiente pubblico”. Avremo dunque una limitazione di diritti fondamentali e costituzionalmente garantiti, per cittadini di tutte le età, perfino adolescenti, che hanno compiuto una scelta consentita dalle norme, sulla base del giudizio morale di un governatore? Ci stiamo avvicinando a quel “sistema del credito sociale” cinese al quale, fino a un paio di anni fa, tutti guardavamo con sgomento?
“Non persone”: vittime designate
Qualcuno sta giocando con il fuoco, ovvero con la psicologia di massa, in un momento storico di profonda instabilità e incertezza, alimentando diffidenza e odio sociale verso coloro che sono sempre più descritti e trattati come “non persone”: individui “giustamente” spogliati dei loro diritti. In primis il diritto alla dignità. Siamo esattamente agli antipodi di una “adesione volontaria”, di un “consenso informato”, che pure lo Stato pretende che chi si accinge a essere vaccinato dichiari e firmi.
Siamo professionisti della parola, conosciamo il potere del linguaggio. Sappiamo che lo hate speech nasce da una forma mentis, ma allo stesso tempo “crea” forma mentis, la diffonde, e può condurre alla tragedia. è per questo motivo che lo hate speech viene combattuto in tutti i contesti sociali, mediatici e politici, chiunque sia a pronunciarlo e contro chiunque sia rivolto. Eppure pochissimi condannano questo specifico hate speech.
Le emozioni che questo discorso di odio smuove ci fanno temere che, qualora la campagna vaccinale si dovesse rivelare per i più diversi motivi non all’altezza delle aspettative di cui è stata rivestita (“ne usciremo solo grazie ai vaccini, e solo grazie ai vaccini, e solo se ci vacciniamo tutti”), la frustrazione di massa si possa tradurre in una reazione di violenza incontrollata contro i capri espiatori che già sono stati designati attraverso un costrutto culturale “impeccabile”: i non vaccinati, già anticipatamente disumanizzati e degradati al livello di “non persone”, individui indegni, che sfuggono a un dovere morale.
Se questa ondata di violenza si dovesse verificare, dobbiamo sapere che si abbatterà anche su una parte della popolazione infantile e minorile, dodicenni, quindicenni, con esiti moralmente, psicologicamente e socialmente catastrofici.
Un quasi obbligo che però è un divieto (altrove)
Impossibile non soffermarsi sul fatto che la scelta verso cui lo Stato italiano spinge con tale pressione gli adolescenti, è una scelta non raccomandata, non prioritaria, o addirittura non autorizzata, in altri Paesi dell’Unione Europea ed extraeuropei, per persone della stessa fascia di età, in nome della loro tutela e del principio di massima precauzione. Questo in considerazione del fatto che gli studi clinici svolti dalle case farmaceutiche sono stati limitati nel campione, nel tempo e nella tipologia delle verifiche. Con un’incognita che rimane sulle possibili conseguenze indesiderate a medio o a lungo termine, a fronte di una malattia che rappresenta un rischio quasi nullo per la popolazione pediatrica e giovanile sana, salvo casi di patologie particolari, note e identificabili, per i quali anche i Paesi che non raccomandano o non autorizzano la vaccinazione generalizzata per gli adolescenti solitamente prevedono protocolli specifici e deroghe.
Non vogliamo entrare nel merito delle considerazioni scientifiche sulla sicurezza e sull’efficacia dei vaccini, e sul ruolo della vaccinazione di massa negli sviluppi della pandemia da del covid-19 – ambiti che non ci competono. Ma non possiamo evitare di chiederci come la tutela dei bambini e degli adolescenti possa essere declinata in accezioni tanto diverse, e perfino opposte, tra Paesi che appartengono allo stesso consesso internazionale. è inevitabile domandarsi, peraltro, se tutto questo discorso andrà ripetuto tra qualche settimana, negli stessi termini e con preoccupazioni ancora maggiori, anche per i bambini sotto i 12 anni.
“È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli…”
Come scrittori e operatori culturali, costituzionalmente attenti anche ai temi dell’educazione e della crescita intellettuale delle giovani generazioni, non riusciamo a concepire che lo Stato ponga intenzionalmente ostacoli alla fruizione culturale dei giovanissimi, alla loro partecipazione attiva e passiva alla vita culturale del Paese, anziché rimuoverli. E questo indipendentemente dalle circostanze ordinarie o emergenziali che possano verificarsi in un dato momento; e indipendentemente anche dal fatto che questi ostacoli possano essere intesi come un mezzo per perseguire un obiettivo prioritario e universalmente condiviso, come è quello di controllare la pandemia e di ridurre sempre di più tutti i rischi a essa connessi.
Non troviamo facilmente uno stato d’animo che ci porti ad accettare una politica che mina di fatto la continuità e l’equità dei percorsi educativi di giovani persone che si trovano nel pieno della loro formazione intellettuale, distribuendo in modo differenziato le opportunità più basilari.
Ripensiamo a esperienze culturali vissute da ciascuno di noi nel periodo dell’adolescenza o della prima giovinezza, in precisi, irripetibili momenti della propria crescita, della propria apertura al mondo. Ricordiamo la capacità che queste esperienze hanno avuto di affinare la sensibilità, continuando poi a indirizzare le scelte di vita e di lavoro anche nei decenni a seguire. Pensiamo con angoscia che oggi, a moltissimi adolescenti, ragazze e ragazzi, potrebbero essere negate opportunità ed esperienze di analogo valore.
Una domanda rivolta alle istituzioni
Ci chiediamo – e lo chiediamo alle istituzioni – se in Italia l’infanzia e l’adolescenza godano ancora di uno statuto speciale che garantisce loro attenzioni e tutele straordinarie. Oppure se la legge 176/1991 già citata sia stata di fatto abrogata. E se, a fronte di una pandemia, bisogna ritenere che qualunque misura sia da considerarsi legittima “basta che funzioni”; o anche solo che prometta di funzionare.
Speriamo e crediamo che non sia così; e ci aspettiamo di vedere comportamenti conseguenti da parte delle istituzioni e delle forze politiche.
Se invece il “basta che funzioni” è diventato il paradigma dominante dell’epoca delle emergenze sanitarie e dei rischi pandemici, allora dobbiamo sapere che in ogni caso – quali che saranno i modi, gli strumenti, i tempi e i bilanci con cui usciremo da questa situazione – noi ne usciremo sconfitti, avendo colpito al cuore la generazione dei figli.