Ho avuto il piacere di scrivere la postfazione dell’ultimo libro di Pieralberto Valli, che propongo qui come recensione e consiglio di lettura.
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Un viaggio verso il mondo
Di Carlo Cuppini
La scrittura di Pieralberto Valli attira per lo scintillio delle parole; cattura con la raffinata tessitura della sua tela; poi sprofonda in luoghi oscuri e impervi, dove ci si trova a contatto con inquietanti elementi umidi, palpitanti e ingombranti. Sono i temi sommersi del nostro tempo: animali mostruosi che, inosservati, dormono nel fondo di una caverna e sognano di svilupparsi nella dimensione del tempo; un domino di mutazioni sempre più indipendenti dalla realtà, capace di dipanarsi contemporaneamente verso il futuro e verso il passato, rendendo entrambi immaginari.
I romanzi e i racconti di Valli sono la porta di accesso a questo luogo di visioni e rispecchiamenti.
I futuri di cui ci parlano le sue storie sono frutto di un’immaginazione che cresce sui bordi della realtà come una muffa pigmentata, oppure sono il ritratto di una realtà che ha già sopravanzato qualunque possibilità di immaginazione? Una realtà, in questo caso, vista senza il filtro normalizzante delle sovrastrutture ideologiche che avvolgono la nostra vita quotidiana come una rete agganciata agli oggetti comuni.
Di “oggetti” comuni è pieno l’appartamento di Hermann e Johann: il divano, i muri, la porta del bagno, i neon, il lavandino, i gradini di legno, la maniglia della finestra, due brioche, uno sbuffo di fumo. Sono le cose che compongono “l’universo abituale”, dove “i confini dei muri e delle stanze erano i medesimi di sempre.”
Pur concentrandosi sui minimi dettagli materiali e sensoriali, Pieralberto Valli non ha un fare scientifico o analitico, ma poetico e filosofico: non indugia sulle caratteristiche degli oggetti perché è interessato alle relazioni tra le cose, in un mondo fatto di cose; ma perché intuisce che gli oggetti sono l’estremità visibile di qualcosa che è in grado di rivelare i valori simbolici prima di affondare nella dimensione dell’ulteriore.
Così la porta socchiusa del bagno diventa una “frattura verticale”; e “i nostri corpi” diventano “la sindone di un passato scomparso”; le ombre “si congiungevano ritmicamente, a intervalli regolari, creando figure astratte” che “rimandavano ad altri mondi, ad altri tempi.”
Il racconto di Valli è minuzioso, concentrato sugli oggetti come sui corpi. Le mani e i tratti dei volti vengono osservati insistentemente. L’attenzione sulle reazioni corporee è sempre accesa: i gesti, gli arrossamenti, i tremiti, la propriocezione espressa per similitudini; come nelle pennellate emozionali della pittura manierista – quella tenue e sensuale di Barocci, quella sanguigna e parossistica di Rosso Fiorentino – il corpo è parte di un dialogo, reagisce agli stimoli e cambia stato.
Poi c’è la musica. Pieralberto Valli, oltre che insegnante è musicista. I suoi brani attingono alla tradizione della musica indipendente e underground italiana: hanno un andamento ipnotico, un mood filosoficamente ribelle e quietamente malinconico, una cura del dettaglio sonoro e lessicale nel deflagrare lento di cataste di visioni. Musica e letteratura si rispecchiano perfettamente l’una nell’altra, in Valli; e come la sua musica è piena di letteratura, così la sua scrittura è piena di musica, ed è essa stessa musica.
“L’acqua, intanto, aveva iniziato a sgorgare accompagnata dal motivetto di una pubblicità che stava canticchiando pur senza ricordarne il testo. Le canzoni prive di parole ci riportano spesso all’infanzia, a una fase della vita che preesiste il linguaggio e in cui il semplice suono definisce i contorni della comunicazione, che non per questo risulta meno efficace. La mia mancata risposta non aveva modificato la realtà circostante e l’universo non si era arrestato in attesa che formulassi una risposta alla sua offerta. Lo schianto dell’acqua, le note della reclame, il sordo silenzio delle strade mi avvolgevano tanto quanto il divano su cui avevo disteso le ossa.”
Nel mondo di Valli, se una mancata risposta non ha modificato la realtà circostante e non ha fatto arrestare l’universo, è bene specificarlo: perché non è affatto scontato.
La dimensione auditiva, quella visiva, quella propriocettiva e quella autoriflessiva hanno la stessa importanza: l’accordo tra questi elementi ha il potere di rilevare gli attimi in cui i fatti della quotidianità si avvicinano “pericolosamente” all’orbita filosofica dell’esistenza. Sono i momenti in cui, pur presi nella rete, possiamo gettare uno sguardo al di fuori di essa, e sentire il richiamo di una libertà a cui non possiamo dare nessun significato concreto che non sia la scelta di mettersi in viaggio, facendoci carico di un rischio: il rischio della ricerca, che può anche significare fallimento e perdizione. Oppure risveglio, riappropriazione.
Viaggio, ricerca, rischio. Questi temi accomunano Il nodo al libro precedente, la Trilogia della distanza.
Il protagonista del Nodo, come quello del racconto più esteso della Trilogia, compiono un lungo viaggio: in entrambi i casi, si tratta di un viaggio che porta poco lontano da casa; ma il movimento rappresenta una quest che conduce lontano dal punto dell’esistenza in cui si trovavano; disancorando il destino da un percorso che sembrava segnato.
Non si può parlare del Nodo senza fare un cenno alla Trilogia, dal momento che entrambi sembrerebbero far parte di un progetto nato, forse involontariamente, per accompagnare il nostro ingresso nell’epoca pandemica, curandoci e scorticandoci allo stesso tempo, come sempre fa la buona letteratura.
Se la Trilogia è dunque la scoperta della distanza – delle nuove distanze che sono state istituite, o forse delle vecchie distanze che si sono improvvisamente rivelate – ed è una navigazione raggelata e disperata attraverso di essa, Il nodo è la riconquista della prossimità: valore perduto in un oblio anestetizzato, che vale qualunque gesto illecito. Perfino mettersi in viaggio per salvare un bambino senza diritto di cittadinanza, una giovane “non persona”, emblema di un corso delle cose che, mentre scrivo queste righe, si sta approssimando qui, nel “mondo reale”.
“Questo, si può chiamare mondo?”
Tanto nella Trilogia della distanza quanto nel Nodo c’è la percezione di un mondo nuovo già iniziato, un “Neustarten” che neanche tanto velatamente richiama quel concetto di "Great Reset” con cui certa élite finanziaria assegna apertamente una prospettiva distopica al tempo di crisi che viviamo. Ma c’è anche il senso di un “mondo ritrovato”: come in Brave new world di Aldous Huxley, in 1984 di George Orwell, in The man in the high castle di Philip K. Dick, e come in molti altri esempi di letteratura fantascientifica, fino alla recente quadrilogia di Giovanni Agnoloni Internet. Cronache della fine, a un mondo nuovo aberrante – ancorché inclusivo e pacificato all’apparenza – si contrappone la sensazione che da qualche parte, in qualche modo, debba esistere ancora il mondo. Ovviamente non si tratta di paura di ciò che è avveniristico o sconosciuto; non è desiderio di regressione e conservazione; non è la ricerca di un rifugio nel “piccolo mondo antico”: è la volontà di mondo, la rivendicazione del mondo; giacché l’altro, quello “nuovo”, non è mondo, ma è la sua sostituzione; non è “nuovo”, ma è altro; non è “pace” ma è deportazione: nel regno dell’irreale, dei significati separati dai significanti, e quindi indefinitamente intercambiabili.
“Stavo fuggendo dal reale o verso il reale?”
Le ombre delle nostre paure, nuove e ancestrali, delle nostre domande, eterne e rinnovate, sulla libertà, sul rapporto con il potere, sul posizionamento dell’individualità rispetto all’unanimismo, sui destini collettivi, vengono proiettate in queste narrazioni necessarie e sconcertanti. È tale la loro nitidezza che le possiamo finalmente vedere, staccate da noi; possiamo studiarne le movenze; in alcuni istanti crediamo perfino di poterle seguirle fino al punto di congiunzione con la nostra persona, dove la materia del corpo confina con quella del buio.
Ma arrivati a quel punto, un suono o una musica ci distolgono.
“Credo si chiami vita, Hermann.”
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