Israele/Palestina: qualche riflessione basilare per tornare a capirci qualcosa
Quando si parla delle vicende dolorose che intercorrono tra Israeliani e Palestinesi, si rischia sempre di parlare d'altro. Tra i commentatori nostrani questa tendenza non è infrequente. A proposito dell'aggressione alla nave Mavi Marmara, in particolare, si è potuto leggere e sentire di tutto. Moltissime voci si sono levate, come se questo fatto, grave, fosse più grave o più significativo dell'ecatombe perpetrata un anno e mezzo fa a Gaza. Sull'attacco alla nave turca si è potuto leggere perfino, dalle colonne del "Foglio", che gli Ayatollah iraniani avrebbero festeggiato l'autogol israeliano brindando con lo "champagne". L'immagine di un leader musulmano che beve champagne può apparire soltanto in una vignetta satirica o in un esempio di giornalismo ottusamente colonialista e antropologicamente qualunquista, come non di rado dimostra di essere il giornalismo italiano.
Sarebbe invece utile cogliere l'occasione per rinfrescarsi la memoria e fare il punto, analiticamente più che emotivamente (le emozioni ce le mettono già, e copiosamente, i protagonisti di queste vicende), sulla situazione storico-politica da cui questi fatti traggono significato.
Ecco alcune considerazioni:
1) La politica di Israele verso i territori Palestinesi si trova da tempo in un completo stallo: da una parte non può acconsentire alla nascita di uno Stato palestinese, a meno che non voglia piombare nella guerra civile e lasciarsi distruggersi internamente dalla rivolta che senza alcun dubbio attuerebbero sionisti di destra, coloni, nazionalisti religiosi, poveracci arabofobici (di cui si sono già visti, e si vedono, inequivocabili prodromi a partire dal ritiro delle colonie a Gaza). D'altra parte non può annettere i territori, come sarebbe richiesto da ampia parte della società e delle forze politico-religiose e militari, per il fatto che i Palestinesi diventerebbero evidentemente cittadini israeliani (votanti, salvo la rinuncia all'ordinamento democratico dello Stato), e quindi, come affermano le ricerche demografiche, in capo a pochi anni ci sarebbe il 'sorpasso arabo': e lo "Stato ebraico" diventerebbe di fatto uno Stato a maggioranza araba, governato con ogni probabilità da arabi filopalestinesi.
1) La politica di Israele verso i territori Palestinesi si trova da tempo in un completo stallo: da una parte non può acconsentire alla nascita di uno Stato palestinese, a meno che non voglia piombare nella guerra civile e lasciarsi distruggersi internamente dalla rivolta che senza alcun dubbio attuerebbero sionisti di destra, coloni, nazionalisti religiosi, poveracci arabofobici (di cui si sono già visti, e si vedono, inequivocabili prodromi a partire dal ritiro delle colonie a Gaza). D'altra parte non può annettere i territori, come sarebbe richiesto da ampia parte della società e delle forze politico-religiose e militari, per il fatto che i Palestinesi diventerebbero evidentemente cittadini israeliani (votanti, salvo la rinuncia all'ordinamento democratico dello Stato), e quindi, come affermano le ricerche demografiche, in capo a pochi anni ci sarebbe il 'sorpasso arabo': e lo "Stato ebraico" diventerebbe di fatto uno Stato a maggioranza araba, governato con ogni probabilità da arabi filopalestinesi.
2) L'esistenza di uno Stato palestinese indipendente - cioè l'idea più in voga negli ambienti progressisti, e non solo, di "due popoli / due Stati" - è un non-sense politico: basta osservare le mappe elaborate dell'agenzia ONU che monitora il territorio (OCHA), per vedere che lo Stato palestinese che gli israeliani sarebbero disposti a riconoscere è impossibile: si tratta di un arcipelago di appezzamenti di terreno isolati, collegati l'uno all'altro solo a seconda della discrezione dei militari israeliani che resterebbero a presidiare le imponenti infrastrutture israeliane, ad uso dei coloni e precluse ai Palestinesi, in tutta la Cisgiordania. Senza dire del fatto che, grazie alla politica dello stato di fatto, razionalmente e cinicamente perseguita da Israele in questi quattro decenni di occupazione fino alla recente edificazione del muro, attraverso tanti piccoli passi illegali ma "di fatto", si è giunti a una pressoché completa espropriazione di tutte le risorse dei territori palestinesi, a favore dello Stato ebraico e delle sue emanazioni coloniali: a partire dall'acqua, dalle zone coltivabili e dai possibili siti di interesse turistico. Ciò che resta ai palestinesi per costruirci il loro stato è un nulla - volendo abitabile.
3) Questa doppia paralisi ci fa tornare alle origini dello Stato di Israele, rivelando una strategia calcolata e cinica, lontanissima dall'emotività erculea che spesso, e con una certa indulgenza, gli viene imputata ("uso sproporzionato della forza"): l'unica via d'uscita dallo stallo suddetto, dal punto di vista israeliano, è la sparizione dei Palestinesi, ovvero la pulizia etnica degli arabi da Israele. Proposito, questo, perseguito dai governanti israeliani attraverso un'ampia gamma di strumenti, che vanno dall'omicidio/eccidio (a Gaza frequentemente, nei campi profughi quotidianamente, durante la seconda Intifada e ad ogni buona occasione, senza inibizioni), alla realizzazione di un apartheid legalizzato, sia all'interno di Israele che nei territori occupati, alla pressione morale, psicologica, sociale, politica, prima ancora che militare, ovunque ci sia un arabo. Anche recentemente due Ministri israeliani (Interni ed Esteri) hanno dichiarato che gli arabi israeliani dovrebbero avere il buon senso di lasciare lo Stato ebraico agli ebrei e andarsene in qualche altro paese arabo.
4) E' proprio su tale pulizia etnica, e grazie ad essa, che si è potuto costituire lo Stato di Israele nelle forme che ha tutt'ora: infatti, se ai circa 700.000 Palestinesi scappati dalla loro terra nel '48 per sfuggire alla guerra (o, in una percentuale ancora da accertare, deportati forzatamente) fosse stato consentito il ritorno alle loro case una volta finita la guerra (come impongono le Convenzioni di Ginevra) lo Stato ebraico non sarebbe potuto nascere, o non sarebbe potuto costituirsi come quella democrazia a suffragio universale che piace all' "Occidente", o non sarebbe stato uno Stato 'ebraico'. A partire da questo necessario atto fondativo, tanto imbarazzante quanto allontanato dalle coscienze, si è sviluppata con continue attualizzazioni la storia politica e militare israeliana fino a oggi.
5) In Palestina, negli ambienti laici e progressisti (che non sono minoritari né elitari), dietro il feroce scontento per la nuova ANP post-Arafat e la paura di Hamas, serpeggia un pensiero nuovo, frutto dell'estenuazione, della frustrazione e dell'esigenza vitale di rinnovamento: mandare a monte l'ANP e farsi annettere da Israele. E alle prime elezioni, con la composizione demografica rivoluzionata, trasformare lo Stato di Israele in uno Stato laico, democratico, multietnico e multireligioso. Sarebbe anche opportuno inventare un nuovo nome per il nuovo Stato: più d'uno, tra i Palestinesi, ha fatto sua la proposta di Gheddafi per "Israstina". Diversi anni fa si parlava invece di Isfalur (e se ne parlava anche in Israele): una sorta di Benelux tra Israele Palestina e Giordania. Ma da allora, troppa arroganza e troppi crimini sono stati messi in atto da Israele per pensare a una qualunque forma di federalità.
E' necessario sforzarsi - oggi, domani, alla prossima emergenza che farà notizia, che in realtà è già in atto e non è mai cessata - di ricondurre i fatti al substrato politico e storico da cui questi derivano. Altrimenti coi troveremo a sostenere cose che ci renderanno degni del "2+2=5" che era imposto come verità nella società immaginata (prefigurata) da Orwell in 1984.
C'è gente reale da quelle parti. La loro storia ci riguarda.
C'è gente reale da quelle parti. La loro storia ci riguarda.
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