Raccolgo anche qui sul blog, per gruppi di dieci, le terzine che propongo quotidianamente su facebook.
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Monte Sapienza, pavimento del Duomo di Siena |
1) Nel 700° anniversario della morte di Dante, propongo una terzina al giorno (o anche più d'una), in ordine sparso. Un invito alla lettura e alla meditazione sulle parole del sommo poeta, lasciando da parte tutto l'aspetto filologico e accademico.
L'inizio sarà quanto di più banale, non me ne vogliate: l’incipit del primo canto. Ma forse proprio l'apparentemente ovvio richiede una maggiore attenzione: per far tornare a parlare ciò che, dato ormai per acquisito, è divenuto muto. Ascoltate.
Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura
ché la diritta via era smarrita.
***
2) Continuiamo con la seconda terzina. Non perché abbia cambiato idea e deciso di andare avanti rispettando l'ordine. Ma per ora non ho motivi per saltare. In fondo, ieri, in apertura, ci siamo subito smarriti. E adesso, continuare a leggere linearmente o piombare cinque o dieci canti avanti, è comunque un modo di errare, brancolando nel buio più totale. Siamo nelle mani del caso, o della sorte o dell'intelligenza invisibile delle cose. O di tutte e tre queste cose. Si annunciano illuminazioni, se è vero che la conoscenza si dà attraverso cesure, imprevisti e inciampi...
Questa terzina ci parla della grande paura. Ci dice anche che ormai è cosa passata, appartiene non all'esperienza aperta, corporea, del presente, ma al "pensier", alla memoria, alla mente.
Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!
(E noi? La nostra angoscia attuale potrà essere prima o poi solo un ricordo che ci farà ancora tremare, o pian piano diventerà un paesaggio familiare, un fatto costitutivo, la normalità che ci farà vedere una selva selvaggia come una ordinata, abitabile città?)
***
3) D’accordo, ho cambiato idea. Andiamo dritti, per ora. Fino alla fine del primo canto. E’ troppo bello… Poi, dobbiamo familiarizzare col testo, col linguaggio, prima di poterci prendere la libertà di saltare avanti e indietro nel tempo, come “eternauti". Facciamoci portare per un po’. Poi vedremo.
Ora, una terribile paura è stata evocata: una paura che poi è passata, ma che a rimembrarla adesso ancora fa tremare le membra*. E su questa paura il poeta insiste, prima di riprendere il racconto: vuole far intendere bene di cosa si tratta, la definisce, in modo ultimativo e insuperabile, con otto parole. La paura (o ciò che la determina: si possono davvero distinguere le due cose?) è la morte.
Ma... subito dopo c'è un ma. Perché in questa quasi-morte "altre cose" si possono scorgere...
Ascoltate, lentamente, come se fosse un haiku. Immaginate che questa terzina sia una poesia compiuta, intitolata “Paura".
Tant'è amara che poco è più morte;
ma per trattar del ben ch'i' vi trovai,
dirò de l'altre cose ch'i' v'ho scorte.
* Devo alla scrittrice Emanuela Nava il risveglio della vecchia passione per l'etimologia (vera o falsa che sia). La sua Maestra piena di parole insegna agli scolari la differenza tra ricordare/scordare (attività che si compiono con il cor-cuore), e rammentare/dimenticare (con la mente); e molte altre cose; anche il segno che lascia l'in-segnare. Se queste etimologie sono reali, il rimembrare non ha niente a che vedere con le membra. Tuttavia, la falsa etimologia ci rammemora che certe memorie non stanno nel cuore né nella mente, ma sono scritte nel corpo; e solo in esso sono capaci di risvegliarsi.
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4) Scopriamo che è stato il "sonno" a far perdere a Dante la strada. Ma che tipo di intorpidimento - del corpo o della mente? - potrebbe far sbandare dalle vie consuete al punto da condurre all'Inferno? E io? Sono sveglio o sto dormendo un analogo sonno? E tu, che stai per leggere questa terzina?
Io non so ben ridir com’i’ v’intrai,
tant’era pien di sonno a quel punto
che la verace via abbandonai.
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5) In queste tre terzine vediamo un'alba controluce e ripensiamo alla notte spaventosa che è trascorsa. Qui, per due volte, ritorna la parola "paura", in entrambi i casi in relazione con il cuore (che è un lago).
Ma poi ch’i’ fui al piè d’un colle giunto,
là dove terminava quella valle
che m’avea di paura il cor compunto,
guardai in alto e vidi le sue spalle
vestite già de’ raggi del pianeta
che mena dritto altrui per ogne calle.
Allor fu la paura un poco queta,
che nel lago del cor m’era durata
la notte ch’i’ passai con tanta pieta.
(Per continuare a divagare tra etimologie vere e false e fili tra le parole, mi viene in mente una cosa che sentii dire a John Berger la volta che lo potei ascoltare dal vivo, a Ferrara: il contrario del coraggio non è la paura, ma lo scoraggiamento - discouragement. Si può avere umanamente paura, e al tempo stesso essere umanamente coraggiosi; nella misura in cui non si cede allo scoraggiamento, allo scoramento, non si cede il cuore).
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6) Siamo sempre all'inizio del primo canto, e al verso 22 incontriamo la prima delle tantissime similitudini disseminate lungo tutta la Commedia, che Dante utilizza con audacia sperimentale (non era una tecnica molto usata nella poesia del suo tempo) per trasmettere ciò che altrimenti sarebbe inesprimibile. E come... così...
In fondo si tratta di un elogio della letteratura, e della cultura: che cosa cerchiamo nella letteratura se non molteplici similitudini con la nostra vita, che ci spieghino in modo complesso e impensato i tasselli che compongono la nostra esperienza? I quali, presi soltanto per quel che in se stessi sono, risulterebbero muti e sordi, ci farebbero andare stolidamente avanti, senza dirci niente.
Ogni similitudine, in Dante, è un micro-romanzo nel romanzo. Un accenno, una parentesi che si apre, una scatola cinese. Qui c'è un naufrago che, raggiunta già la riva e la salvezza, volgendosi indietro verso il mare viene assalito di nuovo dal terrore, mentre il suo animo continua a voler scappare.
E come quei che con lena affannata
uscito fuor del pelago a la riva
si volge a l'acqua perigliosa e guata,
così l'animo mio, ch'ancor fuggiva,
si volse a retro a rimirar lo passo
che non lasciò già mai persona viva.
***
7) Il corpo. Dante vive il viaggio verso la trascendenza con il corpo. Corpo che incede, corpo che viene meno, che ha bisogno di riposare, che torna ad avanzare. Lo capiamo bene già nei versi 28-30 del primo canto, quando il cammino riprende con uno zoom non sullo sguardo, non sul paesaggio in cui il poeta si addentra, ma sul piede su cui appoggia il peso: il dettaglio fisico del muscolo, la percezione dello sforzo. Dove la materia è negata, misconosciuta o rimossa, dove la mente è scissa dalle membra, dove si discosta lo sguardo dalla lucertola, non c'è possibilità di alchimia, trasformazione, conoscenza.
Poi ch’èi posato un poco il corpo lasso,
ripresi via per la piaggia diserta,
sì che ’l piè fermo era sempre ’l più basso.
***
8) Il primo incontro dopo lo smarrimento nel bosco è con un animale. La lonza. Forse una lince. Minacciosa, ma non al punto da indurre il poeta a darsela a gambe. Gli sbarra la strada in modo efficace. Gli sta piantata "dinanzi al volto". E quindi, magnifica l'espressione dell'esitazione, ancora una volta descritta nel suo piano fisico.
Ed ecco, quasi al cominciar de l'erta,
una lonza leggiera e presta molto,
che di pel macolato era coverta;
e non mi si partia dinanzi al volto,
anzi 'mpediva tanto il mio cammino,
ch'i' fui per ritornar più volte vòlto.
***
9) La "paura", di nuovo. Trascorsi appena 45 versi, è la quarta volta che incontriamo questa parola. E non è l'ultima, nel primo canto.
Queste terzine sono un po' difficili da capire, le faccio precedere da una parafrasi.
Era il primo mattino, il sole si trovava nella stessa posizione astrale in cui si era quando il firmamento fu creato. Questa coincidenza mi metteva bene: mi faceva pensare che forse la lonza mi avrebbe lasciato perdere e che me la sarei cavata. Però vi giuro che mi venne un colpo quando davanti a me vidi apparire nientemeno che un leone.
Temp'era dal principio del mattino,
e 'l sol montava 'n sù con quelle stelle
ch'eran con lui quando l'amor divino
mosse di prima quelle cose belle;
sì ch'a bene sperar m'era cagione
di quella fiera a la gaetta pelle
l'ora del tempo e la dolce stagione;
ma non sì che paura non mi desse
la vista che m'apparve d'un leone.
***
10) Che forza questa immagine in cui la potenza minacciosa del leone diventa un’onda, pura energia che si propaga nell’aria in cerchi concentrici che si allargano, dando tangibile densità all’atmosfera, increspandone la trasparenza piena di atomi, rivelandola come elemento materiale che collega fisicamente le cose, e non le separa come concetti separati. Questo leone ci fa quasi piombare nella fisica del Novecento…
Questi parea che contra me venisse
con la test'alta e con rabbiosa fame,
sì che parea che l'aere ne tremesse.
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