Dunque niente più mascherine negli stadi.
Niente più mascherine nei supermercati.
Niente più mascherine negli uffici.
Niente più mascherine alle poste e in banca.
Dunque niente più mascherine negli stadi.
Niente più mascherine nei supermercati.
Niente più mascherine negli uffici.
Niente più mascherine alle poste e in banca.
Il libro comincia così…
“Il tempo respira, il passato può cambiare. L’infanzia è impronta di futuro nelle vie di una città immutabile…”
Con un po’ di emozione cominciamo a portarvi dentro il nostro libro, a partire dall’incipit del primo racconto: il mio “Il palazzo rinascimentale”. A dire la verità per me l’emozione è forte. Perché questo racconto è il mio omaggio all’infanzia, e allo stesso tempo il mio omaggio a Urbino. In fondo le due cose non potevano che coincidere, perché per me sono la stessa cosa. Dove per omaggio non intendo celebrazione, ma tentativo di cogliere l’essenza enigmatica, sfuggente, abissale, dell’una e dell’altra cosa. L’infanzia è sede di ogni alterità, così come l’adultità è il luogo di ogni (rischio di) omologazione. Il mito del Puer Aeternus potrebbe avere qualcosa da insegnare al proposito… Anche Urbino, con la sua orfica lontananza da tutto, nello spazio e nel tempo, custodisce i segreti delle irriducibili, incomparabili diversità. Che sono i segreti della poesia, quindi, se dobbiamo dare retta a Rimbaud: “io è un altro”; “la vita è altrove”.
Ma basta con le divagazioni. Qui sotto potete leggere la prima pagina del racconto. Spero che vorrete dedicarle due minuti del vostro tempo. È associata a una fotografia di Urbino scattata a questo scopo dal sottoscritto.
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IL PALAZZO RINASCIMENTALE
_"Tutto è reale, tutto è immaginario."_
Il tempo respira, il passato può cambiare.
L’infanzia è impronta di futuro nelle vie di una città immutabile, collocata fuori dalla geografia e dalla storia. Qui ogni cosa parla di arte, di filosofia e solitudine, di natura, amicizia e contemplazione. Di libertà e trasgressione. Di un confine immateriale posto in ogni dove.
Il borgo si raggiunge costeggiando strapiombi. È la capitale di un minuscolo ducato sperso sull’Appennino, disincagliato dalle selve circostanti, scomparso un giorno in mezzo alle nuvole e mai più ritrovato. Un sogno architettonico capace di attrarre le menti illuminate dell’epoca rinascimentale, conservandone tra i vicoli il suono dei passi.
La casa è all’ultimo piano di un antico palazzo nobiliare, sulla sommità di uno dei due colli su cui è disteso l’abitato. Dalla terrazza si vedono i tetti che digradano da ogni lato. Più in basso, un salto nel vuoto oltre la cerchia muraria. Quindi le vallate, che scendono tutto intorno per finire a nord con lo scorcio fulmineo di un Adriatico lontano e risalire nelle altre direzioni a formare un concluso anello collinare.
Da lassù la certezza è il volo delle rondini d’estate, il transito dei nembi mastodontici ad altezza d’uomo, le cime degli alberi scosse dai venti, il rintocco delle campane. Poi il lento ruotare della volta celeste, punteggiata di stelle, percorsa dai pianeti, rigata da meteore infuocate. Sempre uguale e mutevole, appoggiata sulla punta dello sguardo di un bambino sdraiato sulle tegole.
Trenta metri più in basso l’architettura rinascimentale, indifferente alle automobili, alla luce bianca dei lampioni, al chiasso degli studenti nei locali. Le piazze, le stradine, i vicoli di mattoni, le scalette, le volte.
Al centro del dedalo, il Palazzo Ducale: costruzione imponente, tentacolare, che domina, con i segreti dei numeri e della proporzione, la conformazione di un terreno irrazionale.
Le pareti del palazzo, anch’esse di mattoni come ogni altro fabbricato, sono intervallate sull’intera superficie dai buchi quadrati dove nidificano i piccioni, traccia di un involucro mancato: la pietra bianca che avrebbe dovuto affermare, fin dove arrivano la vista e la fama, il teorema del potere e dello splendore. Le sole lastre che sono state posate adornano i portali, le finestre, il perimetro della pavimentazione della piazzetta davanti all’ingresso principale. Nel bianco vorticano immobili spirali di pietra più grandi di un cuore umano: attestazioni dell’origine subacquea di questa visione incantata, che perpetua l’impressione di un regno in fondo al mare, protetto da una bolla atemporale.
L’anima del palazzo è la facciata costruita sul retro, rivolta non all’interno del borgo ma alla vallata, con i due Torricini slanciati come minareti, i tre livelli di balconi, l’aquila che dal tetto guarda il punto dove è sepolto un tesoro. Una facciata chiusa in se stessa per folgorare gli stranieri sulla strada e custodire il sonno degli eredi. Senza una porta da cui poter entrare.
(…)
Questo brano è pubblicato sul sito della casa editrice:
👉 http://www.arkadiaeditore.it/da-luoghi-lontani-2/
Nei libri di Macioci ci sono una sapienza narrativa e una padronanza degli strumenti linguistici tali da stridere quasi, paradossalmente e in modo fecondo, con un “fuoco rimbaudiano” che sottostà al progetto, lo fa scaturire all’origine, lo sospinge in avanti, torna ad affiorare di tanto in tanto tra le righe in forma di ombra o cenere, a ricordare che le immagini figurative di una solidissima narrazione potrebbero sfarinarsi in un istante, davanti alla verità di un solo, ancestrale, urgente, violento verso iconoclasta. Verso di bestia. Verso di poeta.
Il Macioci poeta, nato proprio dai lapilli cadenti del vulcano-Rimbaud, per sua stessa confessione, è sempre lì nascosto nelle pieghe dei suoi libri, e dei suoi interventi critici; abita nelle anse di un probabile (e in effetti accettato) passato in metrica, o in quelle di un tempo laterale che tuttora trascorre, ma non si vede.
Ebbene, nel suo ultimo libro Macioci ci offre qualcosa che in parte è diverso e nuovo: c’è tutto il Macioci che conosciamo e amiamo, e che temiamo, anche; ma questo sta insieme a una asciuttezza – a partire dalla forma relativamente breve del racconto – che produce una altissima pressione dentro il testo, e innesca una sorta di fusione nucleare che porta tutti gli elementi sopra citati a essere una cosa sola, non divisibile.
Diciamo subito che Sfondate la porta ed entrate nella stanza buia (Terrarossa Edizioni) è un libro su Alfredo Rampi: l’“Alfredino” della straziante tragedia di Vermicino consumatasi in diretta televisiva nel giugno del 1981. E lo è fin dal titolo, che cita una frase pronunciata dal povero bambino nel momento in cui l’agonia in fondo al pozzo lo conduceva verso il territorio del delirio. Ma poi diciamo subito che questo libro non è un libro su Alfredino, se non per il titolo, e per un rumore di fondo, in cui però né il volto né la voce del bambino reale sono riconoscibili.
Macioci fa una scelta geniale - geniale non è la parola corretta, in realtà, perché fa pensare a un esibito compiacimento, qui del tutto assente; fa una scelta di estrema intelligenza narrativa, e di altrettanto estremo pudore morale. Lo scrittore decide di “staccare” dalla vicenda che vorrebbe trattare - ma che non vuole in alcun modo violare - una “pellicola letteraria”, un doppio del tutto immaginario, una vicenda seconda, insomma, di un altro bambino che in quegli stessi giorni scompare nel nulla, forse caduto anche lui in un baratro, in un buco nero del terreno, o della Storia, o della coscienza sociale, mentre nelle televisioni si svolge lo spettacolo a reti unificate della tragedia di Alfredino.
Macioci sprofonda così, e ci sprofonda, nella storia intima, splendida e dolorosa, di Francesco e Christian, amici per la pelle, anche loro cone Alfredo seienni, dove il primo rimane e il secondo scompare. E svolgendo questa storia Macioci ricama un’ode vibrante, profondamente autentica, all’infanzia, all’amicizia primordiale, ai segreti di quegli sguardi immaturi sul mondo degli adulti, sul mondo naturale, sul senso del fato, sugli accadimenti che fanno crescere in un istante, o anche invecchiare.
La storia di Christian e di Francesco riverbera quella di Alfredo Rampi, certamente, ma in modo empatico e pudico. Del resto, si sa tutto di quella storia, si sa anche troppo. Non c’è bisogno di ripercorrerla quarant’anni dopo. Non c’è bisogno di aggiungere pornografia del dolore alla pornografia del dolore, privato e collettivo, che imperversa e dilaga oggi in tutti i mezzi di comunicazione - spesso allo scopo di formare nel pubblico una determinata reazione/opinione, e quindi avvalorare una determinata teoria generale su qualcosa.
In questo modo, della vicenda di Alfredo Rampi, nel libro di Macioci rimane un fantasma silenzioso, sfuggente e inquietante, che non coincide con gli strepiti che sentiamo uscire dagli altoparlanti dei teleschermi, e se ne sta rimpiattato in un angolo in ombra della casa; dietro una porta in una stanza buia; in fondo a un pozzo insondabile. E da lì ci osserva. E quello sguardo è una interrogazione.
Le parole ricercate, le frasi dense, tanto asciutte quanto poetiche, che compongono questo piccolo libro perfetto (se mai potesse esistere una perfezione nella e della crisi), sviscerano il lascito culturale degli accadimenti di Vermicino, senza profanarlo o strumentalizzarli; attuano una forma di lungimiranza a posteriori, illuminando le traiettorie di una mutazione antropologica strisciante, già allora in corso, che in quel terribile fatto di cronaca ha trovato un perno ideale su cui ruotare e trovare una direzione definitiva – quella che conduce fino al tempo incomprensibile, compiutamente esondato, che viviamo. Un tempo in cui qualunque movimento interpretativo, esegetico, ermeneutico, dei fenomeni, dei fatti, della propria stessa esperienza, è un movimento verso i media e dai media. E dove forse noi non sappiamo nemmeno più cosa siamo, se non un susseguirsi di reazioni suscitate, proprie e altrui.
https://www.terrarossaedizioni.it/negozio/sfondate-la-porta-ed-entrate-nella-stanza-buia/
Il mistero delle meraviglie scomparse è una storia pacifista. Ed è anche antifascista. Per il 25 aprile ho letto un brano dedicato ai partigiani e alla resistenza, che racconta del salvataggio di Ponte Vecchio, unico ponte fiorentino scampato alla distruzione nazista, grazie al coraggio di due giorni fiorentini.
Accettando l’invito di Davide Tutino e delle compagne e compagni di Resistenza Radicale, ho scritto un testo che racconta la mia scelta dello sciopero della fame, le motivazioni e le aspettative che l’hanno sostenuta, ed esprime le mie posizioni sulla fase politica, sociale, culturale e civile che stiamo attraversando.
Riporto di seguito alcuni estratti. Il testo integrale si può leggere qui:
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Il 14 febbraio ho intrapreso uno sciopero della fame integrale, della durata di otto giorni, per protestare contro il sistema di discriminazione e segregazione rappresentato da green pass e super green pass.
Con Sergio Porta prima, e poi anche con altre donne e uomini che si sono ritrovati intorno a questa necessità fisica e morale di dare un segno di completo e definitivo dissenso, ho percorso questa strada; una strada che in forme diverse continua: tutti i lunedì, io e altre persone digiuniamo; e lo faremo fino a completa, reale rimozione di ogni forma di discriminazione e vessazione; cogliendo questa occasione ricorrente per svolgere riflessioni e tornare a indicare lo scandalo di un Paese che ha abbandonato la tradizione del liberalismo, di un governo che non esita ad aizzare la parte maggioritaria della popolazione contro una minoranza, minorenni compresi.
(…)
Il 9 aprile siamo andati a Roma per manifestare il nostro totale dissenso e la nostra più grave preoccupazione per le modalità in cui è stata impostata la progressiva uscita dall’eccezionalità normativa dello stato di emergenza. Crediamo che questo sia il modo peggiore e più pericoloso per mettere fine (forse, parzialmente, provvisoriamente, soltanto finché “i dati lo consentono”?) a una deriva che ci ha allontanati drammaticamente dallo Stato di Diritto: perché il ritorno a una normalità – sottolineo parziale, pro tempore e a oggi non per tutti – appare come l’ennesima elargizione di cui essere grati, e non come il ripristino ovvio, inevitabile, imperdonabilmente tardivo, di una condizione giuridica e sociale preesistente. Crediamo che l’abolizione del green pass dovrebbe essere accompagnata da un moto di coscienza esteso, da una critica collettiva di quanto è successo, attraverso un dialogo interno alla Comunità che costringa anche i decisori alla dignità di una sobria e seria autocritica.
(…)
Ospite della trasmissione Contro/Verso di Domenico Guarino su Tvr, ho parlato del ruolo della cultura nel contesto delle crisi del presente e (dal minuto 3:15) ho presentato “Da luoghi lontani”: un libro che esplora e “salva” momenti dell’esistenza che sfuggono a ogni possibile inquadramento e riduzionismo, invitando ad assumere nuove prospettive, a porsi domande inaudite, a cercare sentieri non tracciati, fuori e dentro se stessi.