blog di Carlo Cuppini

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sabato 10 aprile 2021

La dismisura presente in un libro di Pier Alberto Valli

Qualcuno lo ha fatto: scrivere ciò che stavamo vivendo proprio nel momento in cui esso, quel “ciò”, cominciava a viverci. Non con l’esercizio spasmodico dell’analisi e della critica, intendo, come hanno fatto molti, spinti dalla necessità imprescindibile di capire; ma con veggente sensibilità e impulso narrativo, fabulatorio, rispondendo forse all’esigenza insopprimibile di restituire un senso di realtà e una forma antropomorfa a un presente irriconoscibile, annunciazione dell'era del disumano.

Questo alcuno è Pieralberto Valli, scrittore e musicista. Il suo libro visionario e ispirato, Trilogia della distanza, “finito di scrivere a marzo 2020”, fotografa e misura meglio di qualsiasi cronaca lo spartiacque che si è inscritto nei nostri corpi in quella data. Nei tre racconti non si parla di virus. Non esplicitamente. Il primo racconto si svolge sullo sfondo di quella che forse è una moderna pestilenza. Non importa. Quello di cui si parla è tutto il resto. Questa è la forza della sua credibilità, sottile e dolorosa. E non importa che questi testi siano nati prima degli avvenimenti storici in cui ci dibattiamo, e siano quindi profetici, o che siano stati scritti o revisionati ai primi clamori della guerra psichica in mezzo alla quale un giorno di marzo 2020 ci siamo svegliati. Conta lo sguardo abbacinato dell’uomo vivo, la sensibilità del puer aeternus che ci pugnala in ogni frase: perché quello sguardo è il nostro sguardo; è il nostro anche se abbiamo smesso di esercitarlo. 

La scrittura di Pieralberto Valli è colta e raffinata, aderisce ai dettagli materiali, visualizza gli oggetti, si sposta da un particolare a un altro facendosi cinematografica, per poi cambiare pelle e sprofondare di dettaglio in dettaglio nelle pieghe dell’intimo e del pensiero, dove non si vedono figure. Tra le righe di questo libro compaiono, citati esplicitamente, Shakespeare e Dante, Orwell e Huxley, Dick e Foucault; e poi una serie di film. E dietro i segni neri della scrittura c’è molto altro: di letterario, poetico, filosofico, psicologico. 

Dirò qualcosa soltanto del primo racconto, Panopticon, che è una preziosa testimonianza del nostro tempo dilacerato e impensabile.

A colpire non è tanto la descrizione della paura senza nome che assedia, della paura dell’altro che spinge gli umani in altrettanti bunker, della risposta poliziesca data a una minaccia invisibile, della distruzione psicologica di persone ridotte a robot con il solo ordine di sopravvivere fisicamente: è invece il tentativo strenuo, che non viene meno neanche per un istante, di riappropriarsi, in questi scenario desolato, dell’esistenza intera attraverso la memoria, la lentezza, il cammino, la rivolta come imitazione della natura. Il racconto è la storia di una dissociazione da un mondo partito per la tangente, con la speranza di tornare romanticamente e disperatamente a coincidere con se stesso, fino a “ricordare il proprio vero nome" (direbbe un personaggio magico dei film di Myazaki). Emoziona e turba, leggere la cronaca di un insopprimibile “no”, di una fuga, con abbacinanti tracimazioni, attraverso la vitalità vibrante del paesaggio, della memoria dell’infanzia, che condanna davanti agli altri esseri umani, e salva nella relazione con se stesso, con il segreto delle proprie antiche promesse, con il cosmo. Qui scopriamo che il senso dell’integrità panica e assoluta del bambino chiama ancora oggi fuori dalla disintegrazione del panico sociale, del conformismo di fronte al potere, per ancorare in terra i piedi del protagonista: noi, con lui, veniamo connessi con gli antenati, da una parte, e con quel futuro a cui un tempo ci siamo concessi di credere, dall’altra. Panopticon è una storia d’amore dal punto di vista di uno solo dei due personaggi – l’altro presente in absentia; è la storia di una scelta irrimandabile e irreversibile, che più volte in questi mesi, ci si è proposta, ci ha chiesto di essere fatta. La scelta del bosco, della solitudine, della separazione dal consesso degli umani. 

La grandezza di questa opera breve è la sua natura compiutamente letteraria. Lo sguardo sgomento sulle condizioni politiche e sulla mutazione antropologica non indurisce la sensibilità e il cuore per affilare gli strumenti critici, come dicevo sopra: al contrario, qui la verità poetica e letteraria dell’esistenza, la fedeltà radicale a essa, è il vero antidoto a un esercizio del potere politico che imprime un certificato di serena e rassicurata falsificazione alle nostre vite.


Un'ultima nota: se seguirete il mio consiglio di leggere Trilogia della distanza di Pieralberto Valli, fatelo ascoltando qualche suo brano che trovate facilmente nel web. Il languore indie, ispirato e disperato, della sua scrittura sembra provenire dal cuore della sua musica. O viceversa. Scrittura e musica, per Valli, sono forse fili di un'unica tela di ragno che ritrae e accarezza i pieni e i vuoti della nostra esistenza.

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