blog di Carlo Cuppini

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mercoledì 17 aprile 2024

"Logout", da oggi in libreria

Intelligenza artificiale ovunque, amicizie solo sui social, realtà virtuale per giocare, studiare e lavorare, acquisti on-line con consegna immediata, classifiche con premi e punizioni, sorveglianza e igienismo, comodità e sicurezza...
In Malsazia tutto appare progredito, prevedibile e funzionale. Il signor Zucabezzo, grande imprenditore e vero leader del Paese, con le sue aziende e le sue politiche ha fatto proprio un buon lavoro.
Ma sotto la superficie scintillante qualcosa si agita. E proprio grazie ai meccanismi che stanno alla base del sistema un imprevisto si manifesta nel posto giusto e al momento giusto.
Luca, un ragazzino ancora in bilico tra l'infanzia e l'adolescenza, si troverà di fronte a una scelta drammatica e impensabile. E con lui Linda: l'onnipresente intelligenza artificiale che tutto coordina e tutto controlla.
Esce oggi nelle librerie e nei bookstore on-line “Logout”,
Marcos y Marcos, 408 pagine, 14 €, copertina di Alice Barberini.

mercoledì 10 aprile 2024

“Senza titolo (No)” di Ramona Caia, per Daniela De Lorenzo



In un mondo avviato con slancio, e perfino con entusiasmo progressista, verso l'autodistruzione, il Dada pronunciò il suo No. Se una discussione intorno all'orrore assoluto poteva esistere, non si trattava di entrare nella discussione con questo o quell'argomento, ma di rifiutare in modo totale, incondizionato e irreversibile la possibilità stessa della discussione, l'impianto logico su cui si configuravano le menti umane. Era un No insolente, ironico ed euforico, nella misura in cui si specchiava in un parimenti clamoroso Sì: quello creazionale dell'arte.

Sessant'anni prima era stata pronunciata un’altra eclatante sequela di No, in questo caso solitaria, e sottovoce: quella di Bartleby, lo scrivano protagonista dell’omonimo racconto di Melville. I suoi garbati e insistiti “I would prefer not to”, ripetuti in risposta a ogni sorta di domanda e richiesta, portano sull’orlo del più profondo sbalordimento il suo datore di lavoro, che finisce per formulare richieste appositamente perché lui debba rispondere “sì”. Ma Bartleby continua a preferire di no, fino all’ultimo, fino alle estreme conseguenze. Senza motivo, senza spiegazione: la sua preferenza non è condizionata dalle circostanze o dalle intenzioni altrui. Il No di Bartleby non è un no a questa o a quella cosa; ed è questo fatto che sconvolge il suo datore di lavoro, e i lettori del racconto, ancora oggi.

Dopo, anche il No gridato ed esibizionista del punk ha preteso di essere un No assoluto e indiscutibile. 

Prima, il No di Francesco d’Assisi alla cultura e ai libri è stato un altro rifiuto assoluto, incontrovertibile, del livello convenzionale della discussione; essendo essa stessa – la discussione – plasmata sulle logiche di potere – fosse anche il potere delle argomentazioni: il linguaggio è ragione, ma è altresì potere – e capace di umiliare, prevaricare, giustificare gli orrori della Storia, uccidere. Francesco, semplicemente, rovescia il tavolo, e scommette su un altro possibile livello di esistenza della specie umana, raggiungibile non attraverso la dialettica, ma camminando a lungo, in silenzio, scalzi.

Tornando al nostro tempo, nei borborigmi incomprensibili degli "Idioti” di Lars Von Trier sembra di sentire echi della disperata speranza di Francesco.


Il No di Ramona Caia non è né gridato né sussurrato, né insolente né garbato. È il gesto quieto di un corpo senza connotati e senza condizioni – ridotto a un tronco senza arti e senza capo, in effetti – dal quale fuoriesce una propaggine articolare al solo scopo di dimostrare che il corpo stesso è un messaggio. E che il messaggio è un No. L’azione si ripete in un loop circolare la cui unica variazione sta nell’alternanza del colore (un rosso sullo sfondo che richiama molti drammi, privati e collettivi, e brutalmente scontorna il corpo con il suo aspetto diafano) e del bianco e nero, che – per contro – sposta il senso della visione fuori da ogni possibile attualizzazione. Il No di Ramona Caia non sembra rispondere a una domanda, non sembra riferito a una specifica circostanza. Il silenzio in cui l’azione avviene e si ripete all’infinito rende la visione ancora più conturbante, calando opera e spettatore, insieme, in un’apnea subacquea. Si potrebbe ipotizzare che le circostanze funeste che scandiscono da tempo la nostra quotidianità abbiano a che fare con questa significazione. Tuttavia la forza del gesto – ricomposto in un quadro costituito da un tablet appeso alla parete – lascia prevalere l'enigma, l'inafferrabilità: la richiesta di fermarsi, appunto, sul limite della logica e della discussione, qualora non si sia disposti a rinunciare ai limiti della specie. O almeno a tentare questo salto, pensando ai tentativi di De Dominicis di volare, o formare quadrati invece di cerchi intorno a un sasso lanciato nell'acqua. 

In questa breve rassegna dei No incontrovertibili, ispirata dall'opera di Ramona Caia, va incluso ancora un riferimento, almeno: il Montale di “Non chiederci la parola che squadri da ogni lato”: “Codesto solo oggi possiamo dirti,/ ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.”


L’opera “senza titolo (No)” di Ramona Caia è esposta al Museo d’Inverno di Siena all’interno della mostra dedicata a Daniela De Lorenzo, intitolata “Controluce”. 

Il Museo d’Inverno, diretto da Francesco Carone ed Eugenia Vanni e situato dentro la monumentale architettura della Fonte Nuova, propone da alcuni anni dei focus interessanti su artisti contemporanei, invitandoli a prodursi non attraverso l’esposizione di proprie opere, ma attraverso la presentazione di relazioni: mostrando cioè opere che hanno ricevuto in dono da altri artisti, o intellettuali, o a vario titolo sodali. È già un racconto, ed è un racconto mite e originale, quanto intenso e unico; racconto dove l’ego scompare, e di esso resta solo un’impronta, delimitata e resa visibile dalla presenza degli altri tutto intorno. Dalla presenza dell’altro, della relazione. 

Daniela De Lorenzo, in questo singolare e prezioso autoritratto “Controluce”, ha riunito nell’antica e affascinante struttura sovrastante le fonte opere e contributi (in alcuni casi inediti) di Emanuele Becheri, Lorenzo Bonechi, Ramona Caia, Antonio Catelani, Saretto Cincinelli, Serge Domingie, Paolo Fabiani, Fabio Fuente, Carlo Guaita, Giulio Paolini, Roberto Rizzoli.


"Daniela De Lorenzo. Controluce", Museo d'Inverno, Siena, 6 aprile - 9 giugno 2024


(Il video dell'installazione "Senza titolo (No)" di Ramona Caia si può vedere qui.)

domenica 31 marzo 2024

Pasqua di guerra

Pasqua di guerra, di genocidio, di invasione, di armi che rispondono alle armi, di pezzi di terra contesi come se la terra potesse essere di qualcuno o di qualcun altro, di umani rapiti come se fossero cose, di umani scambiati come se fossero figurine. Pasqua di un'umanità sull'orlo del baratro, di potenti che ci pingono avanti perché a fermarsi avrebbero paura di apparire deboli. Difficile dire "buona", come se niente fosse. Allora dico "buona" come se qualcosa fosse. Come se fosse impossibile ammazzare la gente, per qualsiasi motivo. Come se le guerre fossero state bandite, non solo nei trattati e nelle intenzioni. Come se l'articolo 11 della nostra Costituzione contasse qualcosa. Come se le città e le case non potessero mai essere distrutte, né le scuole, né gli ospedali. Come se nessuno credesse alle linee immaginarie che separano i popoli, le famiglie, i colleghi, gli amici, rendendoli nemici. Come se non esistessero industrie belliche e lobby guerrafondaie che sostengono i candidati, in USA e altrove. Come se la religione fosse una faccenda personale e di comunità, e mai di Stato. Come se fossero state per sempre superate quelle odiose ingiustizie, invisibili a chi non le patisce, che trasferiscono la dignità e la ricchezza di alcune persone nelle tasche di altre, o di interi popoli, e che stanno sempre alla base della violenza delle armi. Perché non c'è pace senza giustizia...


venerdì 15 marzo 2024

"L'estate breve" di Enrico Macioci (Terrarossa Edizioni)

L’estate breve
è una breve storia del talento. Questo infatti è il titolo di un preesistente libro di Enrico (Mondadori, 2015) che attraverso un’insolita operazione di autoriscrittura sta all’origine di questo nuovo romanzo, pubblicato da Terrarossa Edizioni.
È impossibile non soffermarsi subito sulla parola "talento", scomparsa dal titolo, ma non dal racconto. Soprattutto perché, scomparendo, la centralità e la complessità del tema sono divenute, forse, perfino più vistose.
Il talento è il tema portante della narrazione e dello scavo esistenziale (autobiografico?) di Macioci. Talento è un termine enorme, che appena pronunciato si apre come le lame di una forbice proiettandoci contemporaneamente in due dimensioni opposte, lontanissime nel tempo, nel contesto e nel senso.
Da un lato viene in mente l’accezione corrente, capitalistica e spettacolare, perfino squallida, quella che si ritrova nell’espressione “talent show” e che ha a che fare con la dimostrazione, l’esibizione o l’ostentazione di qualche capacità pratica, percepibile, che ci dovrebbe fare eccellere in qualcosa, distinguendoci da tutti gli altri. Questa idea di talento risponde alla domanda: “cosa sai fare meglio di tutti”?
Dall’altra parte, da molto lontano, risuona il senso inattuale del termine, quello neotestamentario, che scaturisce dalla parabola dei talenti. E qui siamo agli antipodi della società dello spettacolo dove la vita è gara di apparenza e di sopravvivenza. La parabola evangelica non chiede cosa sai fare, ma chiede cosa hai dentro di te, e quindi cosa puoi fare; non chiede di fare o di essere più degli altri, ma di essere se stessi, e di esercitare se stessi nel mondo senza risparmio, senza tenersi gelosamente, cautamente, egoisticamente per sé. Non chiede di esibirsi, per ricevere, ma di raccogliersi, per dare. Questo almeno è ciò che quella vecchia parabola suggerisce alle mie orecchie agnostiche.

Il libro di Enrico Macioci si muove tra questi due poli. O forse è l’adolescenza stessa a farlo. Il dodicenne al centro delle vicende (la stessa persona che, divenuta adulta, le narra anni dopo) si dibatte in un campo di forze delimitato dal mistero del sacro invisibile e dall’enigma della vita concreta. In questo campo – sovrapposto idealmente al campo di calcio – cerca se stesso; e assurge improvvisamente alla consapevolezza della vita, che la vita è, sperimentando per la prima volta il limite; e la scoperta del limite arriva quando si trova di fronte all’idea della morte; e questa lo raggiunge insieme alla sconfitta.
Il “grande Michele”, amico leggendario e calciatore prodigioso, quando compare (come dal nulla) mette un paletto nella considerazione illimitata che il giovane protagonista ha avuto di se stesso fino a quel momento. Prima non c’era morte, non c’era possibilità di sconfitta, non c’era neanche vita. C’era l’infanzia, che non necessariamente è felice, ma certamente è incantata ed eterna. E tutto ciò di cui dovesse essere manchevole può sempre apparire in sogno, come un risarcimento, come una promessa di qualcosa che c’è tutta la vita per ottenere – una vita ulteriore, più compiuta, e a sua volta infinita ed eterna, che a un certo punto dovrà per forza cominciare.
Nel confronto con il grande Michele l’idea di talento (che lo scrittore adulto forse proietta sul se ragazzino) muta radicalmente: smette di essere una certezza e diventa un dilemma, smette di essere una (auto)affermazione e diventa un'insistente domanda; non più premio ed elezione, ma condanna e capitolazione; non garanzia di eternità, ma certificazione di finitezza, a cui deve seguire la fine.

Il libro si legge d’un fiato. Breve e densissimo, è privo di una vera narrazione come comunemente intesa, ma è vertiginoso e avvincente nel susseguirsi di quadri che si accatastano nel magazzino del tempo breve di un’estate ideale, arsa, sudata, esistenziale. Un tempo assurdo, impossibile, pericoloso, slegato da ogni legge e da ogni logica: quello appunto, dell’adolescenza, della fame d’aria, degli andirivieni, del sacrificio finale del (dio) bambino. Da quel magazzino-crisalide non potrebbe che uscire un poeta. Un poeta destinato magari a vivere poche ore, come una farfalla; a sbriciolarsi alla luce del sole; a ricalcare la parabola esistenziale lasciata dai passi allucinati del vagabondo-veggente, Rimbaud.

Nella seconda parte del libro il narratore, in crisi coniugale e tormentato dalla sensazione di essere incastrato tra un mancato successo e un mancato fallimento, seguendo un’intuizione disperata, quasi di nascosto da se stesso, torna fisicamente nei luoghi dell’adolescenza. Lì le cose, gli odori, le immagini, le sensazioni e le emozioni escono dal ripostiglio della memoria e cominciano a vivere di vita propria; non più allucinazioni ma elementi naturali che strisciano tra i piedi dell’uomo, si arrampicano sulle sue caviglie, lo mordono, lo pressano, lo assediano. Fino a spremere da lui, in un distillato di commozione, riconoscimento e dolore, una consapevolezza nuova, scioccante: forse il talento è solo essere se stessi. Non nel senso del ragazzino che, abbandonando l’identità indistruttibile del bambino, “vuole" essere se stesso — vuole essere ciò che vuole essere, ciò che spera di poter diventare, ciò che si sente chiamato a rappresentare e a ottenere. Ma nel senso dell’adulto, che nella crisi e nel dolore può ancora abbandonarsi a una felicità languida ma estesa: quella dell’accettazione di ciò che non può non essere.

La straordinaria capacità di Macioci di impastare nella scrittura azione, ricordo, riflessione e illuminazioni, dimostra che la “miseria” fangosa, sanguinante, dell’esperienza fisica infantile sa perforare gli strati del tempo e continua a trafiggere la corazza dell’adulto, richiamandolo a verità e a realtà sepolte, ma ancora vive e vivide.
Questo suo "talento", mentre usciamo dal libro dopo averlo attraversato, evoca una domanda. I ragazzi di oggi, che in larga parte fanno esperienza di se e del mondo nel digitale e attraverso il digitale, come ripenseranno a se stessi tra vent’anni? Quali saranno i fili che potranno intrecciare al ragazzino o alla ragazzina che sono stati? Verso quali luoghi e in quali peregrinazioni li condurranno i disperati e incomprensibili richiami che forse un giorno sentiranno? Dove potranno trovare abissi e risposte?

martedì 12 marzo 2024

Piccolo Nicolas. Cosa aspettiamo per essere felici?

Capita di vedere un sabato pomeriggio, nell’umile cinema parrocchiale del Galluzzo (che è rimasto l’unica sala in tutta la Firenze che si sviluppa a sud dell’Arno), un meraviglioso e inaspettato film francese di animazione: Le avventure del piccolo Nicolas, di Amandine Fredon e Benjamin Massoubre, appena uscito in Italia.

Il film racconta le avventure di Nicolas, monello dolce e irriverente, protagonista di una serie di fumetti celeberrimi in Francia, meno in Italia, creati all'inizio degli anni Sessanta dalla penna di René Goscinny (l’autore di Asterix e Obelix e di Lucky Luke) e dalla matita di Jean-Jaques Sempé. Più che rappresentare sullo schermo le avventure dell’irresistibile bambino (come è stato fatto in passato), il film racconta il carattere dei suoi creatori, l’amicizia tra loro, e soprattutto il rapporto sentimentale di entrambi con i loro personaggi e con la loro opera comune.
È incantevole assistere al piccolo Nicolas che esce dalla macchina da scrivere di Goscinny, parla con lui, lo interroga, lo provoca; e poi, rivestito delle idee dello scrittore, si trasferisce nelle tavole a cui Sempé sta lavorando; e poi accompagna l’artista in malinconiche passeggiate per Parigi per ascoltare i suoi ricordi d’infanzia, che in qualche modo diventeranno un po' anche suoi.
È un film quieto, gentile, riflessivo, esplosivo solo per l’esuberanza di Nicolas e dei suoi amici (e delle sue amiche, formidabili!), senza colpi di scena, senza adrenalina, senza inseguimenti incalzanti, libero dagli schemi narratologici, ritmici e visuali che prevalgono nel cinema contemporaneo (per bambini e non).
È un film che non intrattiene, ma fa di più e di meglio: offre allo spettatore la magia di un incessante travaso tra la realtà biografica degli autori e quella fantastica di Nicolas; travaso reso naturale dal gioco del disegno che si anima all’interno dell’animazione (nel senso di film), con l’inevitabile fusione dei due piani.
Le felici intuizioni grafiche sono puro piacere: come la creazione e la modificazione dei personaggi e degli scenari, a colpi di matita, via via che i due compagni ne discutono; o il modo in cui i personaggi si scolorano ogni volta che si avvicinano ai bordi dell’inquadratura/illustrazione. Sono tutte soluzioni tecniche che, grazie alla finezza del racconto diventano metafore di tante cose.
È più vera la vita dei due uomini in carne e ossa o quella del bambino fatto di pochi tratti di matita, umorismo e grazia irriverente? Sono Goscinny e Sempé a far vivere Nicolas, o è piuttosto vero il contrario? L’immaginazione si nutre della vita, o è la vita a essere fatta di nient'altro che di immaginazione? E soprattutto: “cosa aspettiamo per essere felici?” (questo è il sottotitolo dell’edizione originale, ed è un peccato che si sia persa nell'edizione italiana). Sono domande che sembra porsi anche Sempé, nel film, quando riceve la terribile notizia della morte dell’amico scrittore.
Questo film che parla con tanto garbo di atto creativo, di libertà, di gentilezza e amicizia, mi ha fatto pensare a due cari amici illustratori, Simone Frasca e Francesco Chiacchio. Due artisti molto diversi tra loro, accomunati però dalla capacità di dare vita a un personaggio, a un pensiero profondo, a una battuta pungente, a un ricordo, a un rimedio per l’anima, al seme di un intero mondo, con due o tre tratti di matita. E dal fatto di essere gentili.

sabato 21 ottobre 2023

Quello che avverrà

"Abbiamo subito il più grave attacco della nostra storia. Centinaia di persone innocenti sono state uccise, torturate, rapite. Migliaia di persone sono state minacciate, terrorizzate, umiliate.

Abbiamo risposto con durezza.
Abbiamo ucciso migliaia di persone, centinaia di bambini, colpito chiese, ospedali, bloccato ambulanze, terrorizzato un intero popolo.
Ed è stato soltanto un preliminare gettato dal cielo.

Questa notte scatterà l’invasione di terra, con carri armati e soldati istruiti per sparare a qualunque cosa si muova. Come è avvenuto in passato.
Migliaia e migliaia di persone cesseranno di vivere. Donne, donne incinte, donne anziane, bambine. E uomini, anziani, ragazzi, bambini.
Famiglie saranno distrutte.
Tutto sarà distrutto, e il fuoco laverà l’offesa, il dolore sopravanzerà di molto il dolore.

Invece no: non ci sarà l’invasione.
Adesso, davanti alle telecamere, davanti al popolo a cui appartengo, davanti ai nostri aggressori, davanti al mondo intero, io ordino di bloccare ogni operazione.
Quello che avverrà questa notte sarà la demolizione di un muro: quello che abbiamo eretto tra noi e i nostri nemici, tra un popolo e noi che siamo i suoi nemici.
Domani mattina chi oltrepasserà quel confine non più materiale non troverà la morte: troverà nel deserto un tavolo, e noi seduti da un lato, disarmati, con la fronte distesa, le mani vuote; e altrettante sedie che attendono di essere occupate. E cibo. E doni.

Ci hanno chiesto di scendere a un piano dove non c’è traccia dell’umano.
Ci hanno chiamati a essere non uomini ma demoni, rispondendo all’uccisione con l’uccisione, all’odio con l’odio, all’inferno con l’inferno. E per due settimane ci siamo lasciati trascinare. Siamo andati in un luogo dove, guardandosi allo specchio, non vediamo più i nostri volti, ma teschi dalle orbite vuote, pieni di fiamme che non smettono di consumare.
Noi non spareremo più un colpo. Noi non uccideremo un bambino, un uomo, una donna. Non uccideremo un terrorista, un soldato.
Noi non uccideremo.

Ci hanno chiesto di insegnare ai nostri figli la furia che segue l’orrore.
Noi insegneremo ai figli un’altra cosa.
Davanti agli occhi spalancati dei figli, noi risponderemo alla violenza con più democrazia.
Risponderemo alla ferocia con più giustizia.
Risponderemo al crimine con più legalità.
Risponderemo all'oltraggio con più dignità.

Risponderemo all’odio con il perdono.
Non un perdono che offriamo, ma un perdono che chiediamo.
Lo chiediamo a milioni di bambini che abbiamo costretto a una vita indegna di essere vissuta; a milioni di donne e uomini a cui abbiamo inflitto sofferenze ingiuste, se mai potesse esistere una sofferenza giustificata; a un popolo che abbiamo vessato, segregato, depredato, sfruttando la nostra posizione di maggior potere, sicuri di restare impuniti e di poter impedire qualunque reazione.
Noi chiediamo perdono ai nostri cuori, per averli pietrificati.
Noi rispondiamo alla guerra con la pace, e dismettiamo la guerra dai nostri cuori.

È un rischio, sarà pericoloso, come è pericoloso vivere.
Ma, mentre ogni altra opzione sarebbe paura, debolezza e miseria, questa è la sola opportunità di conoscere la forza, di farci espressione della grandezza umana. E non vale la pena vivere nella miseria. Non costringeremo un popolo, il nostro, a vivere di questa miseria.
Domani cercate la guerra nei nostri cuori, provate a suscitarla con ogni mezzo a disposizione: non ne troverete i sentimenti, le forme, gli intenti, le azioni, le munizioni. Non ne troverete le parole.

A chi dice che il nostro Dio vuole la guerra, a chi si appella al Dio degli Eserciti e delle Nazioni, noi diremo che quel Dio ha fatto il suo tempo: la sabbia ha ricoperto per intero il suo corpo ingombrante, il suo nome è scomparso dal nostro orizzonte.
E se quel Dio manderà i suoi Angeli in tuta mimetica e mitra a popolare i nostri sogni, per redarguirci, noi grideremo forte per svegliarci da quei sogni. E frastornati andremo nel deserto, di nuovo nella terra di nessuno, e aspetteremo lì, senza cibo e senza acqua, finché Dio non ci rivolgerà una parola nuova.

Ho concluso."

sabato 30 settembre 2023

"Poco mossi gli altri mari" di Alessandro Della Santunione, Marcos y Marcos

 

Nel corso del 2023 la casa editrice Marcos y Marcos ha dato casa (e carta), tra le altre cose, a due case molto strane, accogliendo nella serie principale il romanzo "Poco mossi gli altri mari” di Alessandro Della Santunione e nella collana Gli Scarabocchi (quattordicesima uscita) il racconto per ragazzi “Le mucche di Chernobyl” di Fulvio Ervas.


La casa al centro del romanzo “Poco mossi” è un grande appartamento nei pressi di Campogalliano, Modena, dove un’intera famiglia, con tutte le sua estensioni e propaggini, si è riunita per volontà di uno dei membri, il padre del protagonista, in una riproposizione della famiglia allargata tipica delle case di campagna di un paio di epoche fa. La conseguenza di questa scelta di vita in comune – tutti assiepati a costo di ricavare nicchie e giacigli negli anfratti più improbabili – è che nessuno più smette di vivere. Non è chiaro, per la verità, se ci sia un nesso causale tra i due fatti. Il risultato comunque è che nessuno muore più, e pertanto si accumulano parenti, generazioni, e anche idiomi, immaginari, mondi simbolici, rispecchiamenti. In questa proliferazione senza fine il tempo risulta gravemente manomesso rispetto alla credenza che lo vede procedere in modo lineare, irreversibile e uguale per tutti: rivelando strani andirivieni e inattese sacche di decompressione, accessibili a qualcuno e non ad altri, e viceversa. Accade anche che qualcuno invece muoia: non qualcuno della famiglia, in effetti, ma Dio. Succede così, da un giorno all’altro. In qualche modo tutti ne ne hanno cognizione, come di un dato di fatto.

Il romanzo, vincitore del premio Berto, ha una grazia sopraffina, e tiene insieme l’umorismo stralunato tipico di certa narrativa emiliana e la durezza della scrittura che decide di prendere di petto le questioni cruciali e crudeli dell’esistenza: il tempo, la verità, il dolore, la morte, l’oblio, l’amore, i fallimenti, Dio.

A volte – spesso – nella stessa frase si passa più volte da un registro all’altro, e le giravolte del narratore tra il ruolo del filosofo e quello dell’“idiota” (dostoevskiano) sono irresistibili:

“In questo meccanismo perfetto e necessario un Dio uomo è la vera bestemmia: una scheggia impazzita. Salta tutto, perché l’uomo diventa un enorme volano che accresce la misura del dolore di Dio, la sua violenza, creando inutili sofferenze: come i cani randagi, le villette a schiera, gli allevamenti intensivi, i centri commerciali, Hiroshima, il neoliberismo o le pantere nei circhi.”

In fondo Poco mossi gli altri mari è un romanzo sulla fine dell’innocenza, una riflessione sul “prima" che a un certo punto scompare, un tentativo di rimettere insieme le tracce che l’origine di tutto e di ciascuno deve pur lasciare da qualche parte. (Forse tutta la letteratura moderna, in fondo, non è altro che questo. Non lo so.) 

Ma la morte di Dio – “un tipo strano” – è in realtà una sparizione, perché non è possibile rintracciare la salma, una morte decretata per prassi burocratica, quindi, e forse indica più che altro una sua diluizione in tutte le cose. E analogamente l’innocenza non è finita, e non è soltanto oggetto di nostalgia e di memoria: a ben guardare l’innocenza è esplosa, e come una radiazione ha modificato alcuni particolari: quelli di una scrittura che conserva a livello stilistico, sillabico, di tono della voce rappresentato, il rumore di fondo del primo incanto. Dove alle griglie interpretative non è ancora concesso il potere di escludere dall’esistenza e perfino dalla percezione tutto ciò che è destinato a restare senza nome e senza spiegazione.


A proposito di esplosioni e di radiazioni. La seconda casa, quella in cui è ambientato il racconto di Ervas, si trova all’interno della zona contaminata di Chernobyl ed è popolata da un’accolita di animali sopravvissuti al disastro, ma usciti da esso un po’ mutati.

Ma di questo libro parlerò in un altro post…

domenica 10 settembre 2023

"L'irrilevanza del vero" di Pieralberto Valli (Stampa Alternativa)

Ricorderete le immagini dei bunker di Mariupol mostrate a Porta a Porta, Piazza Pulita e Controcorrente, che in realtà erano quelle di un gioco da tavolo. Questo clamoroso falso non dimostrava che l’invasione russa fosse un’invenzione, ma rivelava una cosa forse ancora più rilevante riguardo ai destini dell’umanità: che il vero è diventato del tutto irrilevante rispetto al verosimile, quando è coerente con il discorso che deve essere fatto.

Agamben lo ha detto in modo mirabile all’inizio del 2020, riferendosi al contesto delle discussioni sulla pandemia: “L’umanità sta entrando in una fase della sua storia in cui la verità viene ridotta a un momento nel movimento del falso. Vero è quel discorso falso che deve essere tenuto per vero anche quando la sua non verità viene dimostrata. Ma in questo modo è il linguaggio stesso come luogo della manifestazione della verità che viene confiscato agli esseri umani. Essi possono ora soltanto osservare muti il movimento – vero perché reale – della menzogna.”
Questo tipo di riflessioni innerva il nuovo libro di Pieralberto Valli “L’irrilevanza del vero”: un racconto che sviluppa ulteriormente la ricerca avviata con “Trilogia della distanza” e proseguita con “Il nodo”. Tutte opere intensamente poetiche, piene di affondi esistenziali, insistentemente dubbiose e interrogative, cioè filosofiche. La grazia specifica della scrittura di Pieralberto (rintracciabile anche nella sua musica) comporta – per i suoi personaggi e per il lettore – una continua apertura disarmata davanti all’incanto prezioso delle cose minime, come anche davanti al presagio apocalittico e all’orrore. La critica sociale che si legge tra le righe non si gonfia in verve polemica, essendo soverchiata dalla portata esistenziale delle tematiche: l’interrogazione del dolore, la coscienza della morte, la percezione del mistero, i confini della coscienza, ciò che si riceve, che si trasmette, che rimane.
In questa nuova creazione lo svolgimento lineare delle precedenti opere lascia il posto a una struttura intrecciata, con due piani che si alternano mettendo in discussione la solidità delle gerarchie percettive, estetiche e cognitive.
"L'irrilevanza del vero", come gli altri di Pieralberto, è un libro attualissimo che parla di e a ognuno di noi, e ci aiuta a comprendere il nostro tempo, e a prepararci ai tempi a venire.
Edizioni Le Strade Bianche di Stampa Alternativa.
Illustrazioni di Claudio Scaia.
Sulla quarta di copertina si legge: "almeno 7 euro - no Amazon - no copyright".
PS: So che Pieralberto sta preparando il tour di una performance con letture, musiche e coreografie nate da questo libro. Non vedo l'ora di assistere.

domenica 6 agosto 2023

6 agosto 2021, il giorno in cui l'Italia perse la ragione

 Il 6 agosto, due anni fa, iniziava l'epoca del greenpass.

Pochi giorni prima il Presidente del Consiglio Mario Draghi aveva spiegato che sarebbe servito agli italiani per "divertirsi, andare al ristorante, partecipare a spettacoli all'aperto e al chiuso con la garanzia di ritrovarsi con persone che non sono contagiose."
Un mio conoscente, scrittore e artista, scrisse su fb: "Non è la libertà, è il tempo libero".
Invece era proprio la libertà. Lo si sarebbe scoperto a settembre, con l'applicazione nelle scuole (con già più del 90% del personale vaccinato, tasso tra i più alti d'Europa) e nelle università; poi, più drammaticamente, a ottobre, con il green pass per lavorare (nonostante il parere nettamente contrario dell'Associazione Nazionale dei Medici Aziendali; ma la menzogna fondativa di Draghi, lasciata passare da tutti gli esperti convocati a corte, e nelle redazioni, risultava evidentemente più autorevole del parere di chi, più di ogni altro, dovrebbe intendersi di sicurezza sul posto di lavoro); poi, tragicamente, tra dicembre e gennaio, con la più grande follia della storia della Repubblica: il super greenpass, che nemmeno con un tampone negativo consentiva a un dodicenne di salire sull'autobus o sul treno, o di entrare in un museo.
C'è stato un momento in cui i contagi correvano proprio nei luoghi del greenpass, con gli autobus (mai potenziati: tanto c'era il greenpasss) stipati di persone vaccinate che si pigiavano l'una contro l'altra, beatamente illuse dalla menzogna draghiana. (Tra queste, letteralmente appicciata a giovanotti "garantiti", anche la minuta vecchina, ultranovantenne, che incontravo ogni giorno sull'11.)
Nel gennaio 2022, dopo sei mesi di green pass, i contagi in Italia superavano per la prima volta i 200.000 al giorno, con il record di 20.000 contagi mensili registrati dall'INAIL nei luoghi di lavoro (garantiti covid-free da Draghi e dagli esperti compiacenti).
Nel Regno Unito, dove il parlamento aveva impedito l'istituzione di un vero green pass, con il risultato di un mini greenpass, veramente risibile, solo per discoteche e grandi eventi (durato un mese e tolto quando noi da noi iniziava il SGP), l'uscita dalla pandemia non è stata tanto diversa da quella che abbiamo vissuto noi, con una parte della popolazione privata del lavoro e della retribuzione, e segregata, minorenni compresi. Con la differenza che là, la solida tradizione liberale non è stata intaccata dal virus; da noi, già vacillante, ne è stata travolta.
Oggi qualunque cosa è possibile - qualunque; purché tra la popolazione ci sia panico, o ansia (e se non c'è, la creano in quattro e quattr'otto tre o quattro testate giornalistiche: l'eco-ansia, per esempio; e non c'è niente di più diverso dalla consapevolezza politica e dall'impegno dell'ansia, dal momento che questa non è altro che una reazione a sollecitazioni estemporanee; l'occasionale altra faccia della medaglia dell'ignoranza e del menefreghismo). Oggi in Italia qualunque cosa è possibile, purché venga evocata (più o meno fondatamente) l'emergenza, e la fine del mondo, e l'autorità scienza. Oggi in Italia è possibile anche discutere di un disegno di legge per istituire un reato di opinione (negazionismo del cambiamento climatico), anche se questa novità punirebbe e silenzierebbe personalità come Antonino Zichichi, Franco Prodi, Carlo Rubbia, e qualche centinaio di scienziati e accademici: come i 500 firmatari della lettera sul clima che circolava nel 2019.
(Per chiarezza: io ho sempre pensato che l'attività antropica sconvolga il clima - con i gas serra -, oltre a devastare gli ecosistemi e il pianeta - con le sostanze inquinanti. Ma non ho paura di ascoltare qualunque opinione, anche quelle che vanno in qualche direzione contraria. Al contrario, ho paura di non avere più l'opportunità di ascoltarle.)
Per tornare al 6 agosto, non posso ogni anno ripetere tutte le mie argomentazioni contro il greenpass (totalmente indipendenti da qualunque considerazione sui vaccini, preciso). Tanto stanno scritte nero su bianco da varie parti, su fb e altrove, e chiunque le può ritrovare, e per quello che mi riguarda sono sempre valide.
Ma quello che non posso evitare di fare, ogni anno, è ribadire la mia posizione, per quanto possa essere ancora oggi impopolare, incompresa, sconcertante e, per qualcuno, imbarazzante: MAI PIU'.

domenica 30 luglio 2023

20 libri che ho letto nella prima metà del 2023

Nota: dove sta scritto “per ragazzi” significa che nelle librerie si trova in quel reparto; per me, non starei a fare differenze.
Neil Gaiman, Coraline (per ragazzi)
Gaiman è un mostro sacro della letteratura fantastica e Coraline è forse la sua fiaba più iconica e, oserei dire, riuscita. Non si può non averla letta, o almeno non avere visto il film, perbacco! La storia è bellissima, ha una forza onirica e quasi archetipica, senza rinunciare a una certa qual leggerezza dark simile a quella di Tim Burton. Il fatto che sia raccontata in volata (è un racconto, piuttosto asciutto in effetti, e il film è molto più ampio e dettagliato del libro) non la penalizza, anzi ne aumenta il fascino e il mistero. Molto è affidato all’immaginazione; ma l’immaginazione è sapientemente guidata.
Davide Morosinotto, Il rinomato catalogo Walker&Down (per ragazzi)
C’è molto mestiere, molta abilità affabulatoria. C'è anche molta "maniera", per così dire. Non è per forza un male, ma per tutta la prima parte mi sono chiesto perché mai leggere un libro alla Tom Sayer se si può leggere Tom Sawyer. Poi comunque mi sono goduto la lettura, l’avventura, l'accuratezza del linguaggio, il carattere del personaggio femminile, soprattutto.
Sally Nicholls, Il grande caos dei telefoni (per ragazzi)
Delizioso. Una fiaba moderna ispirata a un fatto realmente accaduto che con grazia e levità tocca i nervi tesi del nostro tempo balordo. Illustrazioni splendidamente “inattuali” di Naida Mazzenga. (Ho la presunzione di pensare che abbia qualche grado di parentela con il mio “Il mistero delle meraviglie scomparse”; o almeno che, se si conoscessero, avrebbero delle cose da dirsi e si starebbero simpatici.)
Marianna Balducci, L’ammiraglio si è preso il cielo (per ragazzi)
Capolavoro in versi, illustrazioni e “pezzi di cielo” della strabiliante Marianna Balducci. Dovrebbe essercene una copia in ogni casa, in ogni classe, in ogni biblioteca, in ogni ospedale, in ogni sala d’aspetto. E anche a Palazzo Chigi e al Quirinale, dieci copie.
Fabrizio Silei e Ariela Rizzi, Hikikomori (per ragazzi)
Fabrizio Silei è ineguagliabile, che scriva per bambini, per ragazzi, per adulti, o che disegni, o che inventi e costruisca. La sua voce è una colonna robusta. La voce di Ariela Rizzi è nuova, fresca, coraggiosa e penetrante. Non so dove inizi una e dove finisca l’altra, per la verità. Forse non c’è propriamente un confine. La storia è potente, dolente, terribile ma anche normale, come è normale la terribilità. Ci si casca dentro. Si interrompe a fatica la lettura, la sera. Parla di quello che indica il titolo. E anche del suo contrario.
Veronica Tomassini, L’inganno
Difficile da leggere (per me), difficile parlarne. La storia si sviluppa, o meglio si avviluppa, tornando sempre su se stessa, sprofondando nelle spire della psiche, con sofferenza, maniacalità, ineluttabilità. La storia rimbalza tra gli estremi dell’estasi e della dannazione, del solipsismo e del (mancante) amore. L’io si appiccica dappertutto, alla parole, ai ricordi, ai luoghi. L’anti-io, che siano gli altri o che sia Dio, sfugge da tutte la parti, lasciando sprofondi e vuoti che risucchiano. Tutto buio, tutta luce. Non è la storia che si avviluppa in realtà (quella è quasi inesistente): ma il sentire, che si strappa a se stesso per farsi pensiero ricorsivo; e il pensiero, che si salva dalla propria disperata ricorsività facendosi stile.
Michael McDowell, Blackwater I e II
Già prima di aprire il primo libro ero un fan sfegatato della saga. Andavo in giro con le pins attaccate alla camicia e avevo appeso il poster in camera. Ne parlavo. Prodigi di un marketing perfetto (a partire dall’indicazione dell’autore di smembrare in sei volumetti da 10 € un unico romanzone che potrebbe costare 28 €). Mi sono fermato al secondo libro. Sicuramente gli altri quattro saranno straordinari. Mi fido. Hi messo le pins in un cassetto.
Astrid Lindgren, Ronja. La figlia del brigante (per ragazzi)
Una fiaba potente, in certe parti strampalata, della mamma di Pippi Calzelunghe. Una bellissima celebrazione della natura, della libertà, dell’indipendenza, dell’amore come forza selvatica e salvifica, dell’avventatezza necessaria a liberarsi dalle catene materiali e immateriali. Mi ha fatto versare qualche lacrima. Oppure era la pioggia, che in molte pagine scroscia sul vivido bosco dei briganti.
J.K. Rowling, Il maialino di Natale (per ragazzi)
Quanto alla Rowling, su Harry Potter io e Maia ci troviamo abbastanza d’accordo; su questo libro ci siamo divisi: a lei è piaciuto moltissimo, a me per niente, o quasi. Non è detto, comunque, che il suo parere di decenne non valga molto più del mio.
C.S. Lewis, Il leone, la strega, l’armadio - Libro secondo delle Cronache di Narnia (per ragazzi)
È un classico, ha la forza dei classici, i limiti preziosi e irrinunciabili di certi classici, quando gli autori non erano granché condizionati dalle ragioni del marketing: va letto. Possibilmente prima di vedere il film (o anche evitando proprio di vederlo).
Alice Keller, Fuori è quasi buio (per ragazzi, ma per modo di dire)
Che bello. Che brava, Alice. Così verosimile, così straniante, così toccante, questa storia… Si colloca con assoluta semplicità nel punto di incontro tra il fiabesco e il verosimile, con una perfetta coerenza tra lo stile e la storia. Due fratelli, in giro per il mondo da soli, il piccolo un po’ strano, parecchio strano. Il grande lo protegge, ma come può proteggere un ragazzino. Si trovano continuamente sul bordo del mondo, sul filo della fine del mondo, e nessuno se ne accorge, neanche loro. Perché tutto sta nell’andare avanti, ancora un giorno. Ogni giorno.
Marco Sensi, Per forza di cose
Ho benedetto l’editore Luigi Balsamini che me lo ha inviato, perché è un romanzo tanto semplice quanto prezioso: prezioso perché semplice. Quella semplicità è il coperchio di una scatola: lo sollevi e trovi il mondo prima del boom economico, quello dei nostri (almeno dei miei) nonni, le cui propaggini sono arrivate fino alla nostra (almeno la mia) infanzia; e che forse, in qualche sperduta campagna, non sono mai del tutto scomparse. Quei demoni, quelle credenze, quelle feste, quegli odori, quei rituali, quel genere di fatica, di bestemmie, di amori, di destini, di terrori… Non siamo niente senza conoscere le nostre radici; e queste radici - quelle che affondano nella storia piccola, terrosa, umidiccia, odorosa, che non è scritta nei libri - sono forse le più importanti. Ti fanno essere di più, e meglio, quello che sei.
Sara Marconi, Le tre case (per ragazzi)
È una bella storia, è una bella protagonista, ha una bella voce (narrante), ci sono delle belle pagine. Lascia delle belle e buone impressioni, frizzanti, con qualche venatura di malinconia. C’è l’intensità di vicende autobiografiche - verrebbe da pensare - trasfigurate. Però, se devo dirla tutta, ho avuto l’impressione che non tutto funzioni come dovrebbe.
Nadia Terranova, Nel cortile della fate (per ragazzi)
Un piccolo racconto che ridà vita a una piccola leggenda antica, sulle fate, le streghe, l’inquisizione. Il messaggio potrebbe essere letto come molto attuale. La scrittura sapiente vale il viaggio (a Palermo). E il libro, come oggetto materiale, con le belle illustrazioni di Simona Mulazzani, è una chicca da tenere esposto sullo scaffale, perché quel gatto nero ci guardi.
Pieralberto Valli, L’irrilevanza del vero
Un racconto poetico, filosofico e politico, che mentre ci culla con l’impressionismo musicale e la ricercatezza dello stile, ci tira anche una coltellata. Valli va sempre al cuore delle questioni (del nostro tempo) in modo molto netto: qui, la post-verità (esistenziale), la digitalizzazione (dell’anima), la deportazione universale (nel regno dell’insensato), lo smarrimento (finale), la scelta (ancora, e sempre, possibile).
Dino Buzzati, 60 racconti
Dovrei dire due parole su ciascuno di essi? Nell’impossibilità di farlo, dirò solo che avevo deciso di passare il resto dell’anno a rileggere tutto Buzzati, e nient’altro. Poi mi sono dato una calmata. “Sette piani” va letto per forza, nell’epoca postpandemica. L’avesse scritto oggi, quel racconto, lo avrebbero linciato che neanche Agamben.
Ada D’Adamo, Come d’aria
Ne ho già scritto. È un libro bellissimo e necessario, tenue, potente, ma soprattutto vero. Non perché racconti una storia vera – la tragica storia dell’autrice, deceduta -, ma perché, davanti a lettore, chiama in causa la verità: il coraggio di dirla a noi stessi, ai nostri cari, agli altri. Quella raccontata è la verità del dolore, ma anche dell’amore, della rabbia, della speranza, quella vera, che sta in fondo alla disperazione, e provoca lacrime, non sorrisi. Ma il richiamo vale per qualunque genere di verità che dia forma alla vita. Non c’è buono e cattivo, non c’è meglio o peggio: c’è la vita, fino all’ultimo, e oltre.
Non so se il testo, in sé, meritasse di vincere il Premio Strega, rispetto alle altre opere finaliste (che non ho ancora letto). Di sicuro merita di essere letto. Per me è stato una lezione.
Bernardo Zannoni, I nostri stupidi intenti (non per ragazzi)
Formidabile questa faina che racconta la sua formazione crudele. La prima parte forse è più convincente rispetto alla seconda; ma è un esordio eccezionale, meno male che il giovanissimo Zannoni lo ha scritto, ci ha fatto un gran regalo; e non c’è da fare tanto i criticoni. Il nonno di questo libro è il bellissimo e crudelissimo “Bambi. Una vita nel bosco” di Felix Salten (che a sua volta non era un libro per ragazzi); il suo zio è “Volpe 8” di George Saunders, fiaba folle e geniale, anch’essa pessimista e crudele.
Sally Rooney, Persone normali (audiolibro)
Un’altra bravissima scrittrice irlandese. (Ma che danno da mangiare ai bambini, a quelle latitudini)? Per la verità, all’inizio continuavo a chiedermi se fosse un bel romanzo di formazione, o un Harmony scritto bene, o una versione proletaria di “Cinquanta sfumature di grigio”, o un pronipote del giovane Holden. Poi (per fortuna invecchiando il mio senso critico non ha più la tenuta di una volta), mi sono semplicemente fatto portare e ho goduto di questo romanzo, di questo stile, di questa storia, di questi personaggi, dei loro dialoghi, delle loro turbe psichiche, delle loro scopate. Mi sono anche fatto qualche pianterello, non so perché. Al di là di tutto, il libro chiama in causa l’autenticità dei sentimenti. La necessità di tornare costantemente in contatto con quell’autenticità, e con la sua fonte. Che a ben guardare è una cosa niente affatto ovvia, anzi abbastanza sconvolgente e paurosa – quella fonte, solitamente oscura –, e portatrice di probabili sconvolgimenti psichici e materiali.
R.J. Palacio, Wonder (per ragazzi e non per ragazzi) (audiolibro)
L’autrice voleva fare un miracolo, e secondo me ci è riuscita: raccontare la vicenda di un bambino con una gravissima deformazione facciale che esce dall’abbraccio protettivo della famiglia per avventurarsi nel mondo, accettando di iniziare a frequentare la scuola media. Il miracolo è riuscire a raccontare questa storia piena di sofferenza, traumi, bullismo e frustrazione - ma anche incrollabile voglia di vivere e forza interiore - con gli occhi del protagonista (e delle persone che gli stanno attorno, che a turno prendono la parola) rivolgendosi a lettori (anche) bambini e ragazzini. Senza respingerli, senza traumatizzarli, e senza ingannarli con una retorica omissiva e zuccherosa. Il romanzo è a tratti scabroso, brutale, dice le cose come stanno, ma mai rischia di perdere il lettore, fosse anche un ragazzino o un bambino, o di “offenderlo”. Si può criticare tutto di questo libro, a partire dallo stile molto “americano” (del resto l’autrice è statunitense), da alcune formule da scuola di scrittura creativa, o dalla retorica che affiora nel finale (ma solo lì): ebbene, pur sempre di un miracolo si tratta. E non è che i miracoli si trovino al mercato. Anche qui mi sono fatto dei bei pianti (poiché ascoltavo l’audiolibro, i pianti me li sono fatti - a tradimento - proprio mentre pranzavo, e per poco non mi sono strozzato con l’insalata. Tanto per dire).
E voi? Che avete letto, di bello, di brutto, di così così?
PS. Non posso mostrarvi la copertina dell’Ammiraglio…, perché l’ho prestato, ed è un gran peccato. Né quella dell’Irrilevanza… perché l’ho letto in digitale; ma a breve sarà a casa mia anche in forma cartacea, comme il faut.
PPS. A voler fare bene dovrei indicare anche gli editori. Ma... se vi interessati, quelli cercateli voi.

giovedì 18 maggio 2023

La propria storia

Quando incontro i bambini nelle scuole, loro mi fanno domande e io rispondo; poi io faccio domande, e loro rispondono. A un certo punto viene fuori la questione di come mai il mio libro comincia con le meraviglie di Firenze che spariscono. La risposta la faccio scoprire a loro attraverso un semplice gioco di immaginazione: pensate alla cosa che rende veramente unico e speciale il posto in cui vivete - e sono certo che una cosa del genere c’è. Ci siamo? Bene. Adesso immaginate che una mattina vi alzate e quella cosa è sparita. “No!” Poi ognuno racconta quello che ha immaginato, e insieme ci accorgiamo che sono tutti inizi di bellissime, preziose storie. Ognuna di esse potrebbe continuare in mille modi, prendendo una piega umoristica, drammatica, realistica, fantastica… Ognuna di quelle storie tira in ballo tante cose.
Stamattina le bambine e i bambini della 5 C della scuola Anna Frank di Calenzano – accompagnati nei territori della conoscenza dalla brava, appassionata e attenta maestra Paola – non hanno soltanto risposto alla mia domanda, ma con molta serietà e spontaneità hanno iniziato a “scrivere” a voce gli inizi di tanti racconti. Come dei veri scrittori. Hanno fatto tutto loro.
“Tutte le mattina quando esco di casa per andare a scuola vedo sul pianerottolo il gatto dei miei vicini, e lui vede me. Ci guardiamo. Lui c’è, io ci sono: vuol dire che va tutto bene. Ieri mattina mi sono svegliata e il gatto non c’era.”
“Da piccola, quando tornavo da scuola facevo il gioco dei tombini. Dovevo saltare da un tombino a un altro. Il gioco l’avevo inventato io, e mi ero inventata anche le regole. C’era un’unica regola, veramente: che potevo fare al massimo due passi per raggiungere il tombino successivo. A volte potevo fare anche più di due passi, veramente. Dipendeva più che altro dalla distanza del tombino. Avevo fatto delle regole un po’ elastiche. Mi ero inventata anche un’amica con cui giocare. Un’avversaria, più che altro. Ci sfidavamo tutti i giorni, e io vincevo sempre, e lei si infuriava. È una che non accetta di perdere. Forse la conoscete: si chiama Elsa, è la regina di Arendel. Sta nel cartone di Frozen, ma anche in parecchie magliette, e in altre cose. Ha molti poteri magici, ma contro il mio talento nel saltare sui tombini non poteva fare niente. Da piccola facevo sempre questo gioco. Per la verità lo faccio anche adesso. Insomma, l’altro giorno mi incammino verso casa e arrivata al solito punto i tombini non c’erano. Non c’erano neanche i buchi che i tombini coprono. Era tutto asfalto. Ovvio che era stata Elsa, per vendicarsi delle sconfitte! Mi è salito il sangue alla testa e con i pugni chiusi mi sono messa a correre verso Arendel. O almeno mi sono diretta nella direzione dove penso si trovi. Sono abbastanza certa di portarci arrivare. Camminavo a testa bassa e pensavo: Rivoglio i miei tombini! Ridatemi i miei tombini!”
In questa trascrizione ci ho messo un po’ del mio, si capisce… Ma del resto funziona così. Uno inizia a raccontare, condivide la sua immaginazione, qualcuno ci aggiunge qualcosa… La storia diventa di tutti. Tant’è che la Elsa-ladra-di-tombini poi è ricomparsa in un altro racconto, quello del bambino trasformato in rana da un nano che voleva rubare il sassolino che aveva piantato…
È stato incantevole e illuminante comprendere, insieme a questi giovani studenti, quanto sia importante riuscire a raccontare la propria storia, la propria fragile architettura, i fantasmi e le creature invisibili che la popolano, fosse anche attraverso un racconto fantastico e strampalato (citofonare a Kurt Vonnegut, “Mattatoio n. 5”…).
Il punto è che chi non sa raccontare la propria storia non ha gambe su cui camminare, non ha mani per afferrare le cose; è destinato a inseguire le ombre, lasciando impronte che subito spariscono al sole.
Per poter raccontare la tue storia devi accettare il fatto che non sei tu a inventarla, ma ti trovi dentro a una storia già iniziata. Dove tu non sei quello che vorresti essere, e anche questo lo devi accettare. Però, accettandolo, puoi imparare a voler essere ciò che sei. Volendo al contempo che gli altri siano quello che sono, con tutte le loro magnifiche differenze e sfaccettature - e incrinature che a volte tagliano, anche, ma il male passa in un attimo, abbiamo potenti lenitivi: le carezze, i sorrisi, le parole gentili.
Siamo stati bene insieme. Non so se questo “bene” sia scritto in qualche programma del Ministero dell’Istruzione e del Merito (che a me fa pensare a tutte le volte che da bambino ho pensato mestamente “non me lo merito”…), con il suo buffo logo da cartone animato. Ma siamo stati bene, davvero. E i due grandi gelsi, carichi di more quasi mature, erano proprio adatti a incorniciare la foto allegra che ci siamo fatti tutti insieme.

mercoledì 17 maggio 2023

"Fuori è quasi buio" di Alice Keller (Risma ed)

Ho scelto questo libro non so perché. L’ho pescato da un tavolo della libreria La Casa Sull'Albero, ad Arezzo, dove era esposto tra tanti invitanti libri per ragazzi. Non sono stato attratto in modo particolare né dal titolo né dalla copertina, dico la verità. E in casa ho una montagna di libri non ancora letti che non chiede certo di essere accresciuta. Tuttavia, per qualche motivo, ho dovuto prendere questo libro. E adesso che l’ho finito mi dico che ho fatto bene: perché è un libro bellissimo.
Parlo di “Fuori è quasi buio” di Alice Keller, Risma Edizioni.
Risma pubblica libri per bambini e libri per ragazzi; questo, nei bookstore online, è proposto a partire dagli 11 anni. Ma “Fuori è quasi buio” secondo me non è un “libro per ragazzi”. È una storia raccontata da un ragazzino, sì, e nel suo sguardo, nella sua voce, si mescolano la sensibilità sua, di Simone, e quella dell’adulta che gli dà vita attraverso le parole, di Alice. Per questo direi che è un libro per ragazzini e per adulti. Sono pochi, e preziosi, i libri che parlano a età anagrafiche diverse, che si trovano separate da passaggi iniziatici: perché con la loro stessa esistenza fanno esistere un ideale spazio di incontro e di confronto. Un ragazzino, un adulto, un anziano, che ascoltano la stessa storia, e davanti alla storia sono tutti uguali, perché la storia ne ha per ciascuno di loro. Come quando il marketing non c’era…
Della trama dirò soltanto che la voce narrante appartiene a un ragazzino di circa tredici anni. Simone è scappato, insieme al fratellino Mattia che ha un grave handicap mentale non meglio precisato, e si nasconde. I due fratelli vivono come clandestini, perché sono rimasti orfani e Simone non vuole avere niente a che fare con ciò che il mondo offre loro, obbligandoli ad accettarlo.
In queste pagine, nel susseguirsi di brevi capitoli, c’è un realismo psicologico molto coinvolgente, che ci fa attraversare la vicenda interamente calati nei panni del giovane protagonista. E sopra questo fitto e lieve tessuto di pensieri, riflessioni, decisioni, pianificazioni, c’è la poesia: molta poesia, molte metafore, molto bianco intorno alle parole. Che poi forse questo è un fare più adulto; e pure qui la poesia sorge con naturalezza dalla rete dei pensieri di Simone, a volte in modo inaspettato. Tutto quel bianco sembra volersi mangiare le parole, le opprime, come il buio sembra volersi mangiare il destino dei due fratelli; ma le parole non collassano sotto quella pressione, perché hanno una loro forza interna, una densità capace di opporre resistenza, un moto espansivo sufficiente a contrastare l’azione del vuoto. Proprio come nella poesia.
C’è la crudezza, anche; perché questa è anche una storia di sofferenza; di sofferenze che si incontrano e si intrecciano. Ma Alice Keller non indugia nella crudezza, non se ne compiace, e non la manovra astutamente. Anche essa appare e scompare, con continuità, alternandosi e sovrapponendosi alla poesia. E c’è la filosofia: quella terra-cielo che appartiene ai bambini, agli adolescenti, e a chi sperimenta il dolore. Ma la narrazione non diventa mai pesante o cerebrale. E c’è l’impressionismo delle sensazioni, negli occhi e sulla pelle, ma senza concessioni al manierismo delle trovate spumeggiante e delle frasi a effetto. C’è soprattutto la grazia, che fonde tutte queste componenti nella voce semplice e pulita di un ragazzino che si è sganciato dal destino che solitamente attende i ragazzini; e va avanti nel buio perché è necessario, con la speranza di farcela, con la paura di non farcela, per sé e per il fratellino, dove il confine tra i due non è chiaro nemmeno a lui. Senza aspettative che vadano oltre l’azione che sta compiendo: un presente sprofondato e precario che richiede di muoversi con la massima cautela, senza il beneficio delle distrazioni.
Alice Keller è capace di sorprendere il lettore ogni poche righe; ma sorprende in modo tenue, senza che la sua scrittura diventi sensazionalistica o risulti virtuosistica. Con questo libro ci ha fatto un bel dono.

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