blog di Carlo Cuppini

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venerdì 28 gennaio 2022

L’imbarazzante ferocia degli improvvisati della responsabilità

Molti che come me si sono formati politicamente negli anni, nei dibattiti, nei sogni, nei progetti, nelle pratiche del Social Forum, una volta smorzatasi a colpi di manganellate e scuole Diaz la fiducia in “un altro mondo possibile” (che in realtà voleva dire “necessario”), hanno continuato a farsi carico personalmente di una riduzione della propria “impronta tossica” (in senso letterale e figurato) sulla società e sul Pianeta: attraverso consumo critico, riduzione dei consumi, scelte energetiche, scelte alimentari, mobilità, turismo, pratiche di tolleranza, uguaglianza e accoglienza, educazione dei figli… Scelte e comportamenti che comportano qualche sacrificio, qualche limitazione e qualche costo, per sé e per la propria famiglia, indubbiamente. 

E perché qualcuno si è fatto e si fa carico a cuor leggero di simili scelte - che, rispetto al modello edonista di “è tutto intorno a te” sono da intendersi sicuramente come privazioni “non dovute”? 

Sia per dare un microscopico, impercettibile frammento di contributo pratico al bene comune; sia, soprattutto, per farsi manifesti viventi, nel modo più semplice, vero e non pedante, di istanze etiche e politiche, da portarsi addosso come un abito, anzi una pelle. Anche questa è una forma di impegno e di militanza a bassissima ma persistente intensità. 


Ebbene, fino a ieri nessuno che abbia fatto scelte etiche improntate alla responsabilità sociale, alla sostenibilità, alla tutela della salute collettiva, rispondendo in primis alla propria coscienza e probabilmente inseguendo un proprio intimo concetto di felicità, intesa come sana connessione diretta e indiretta con tutte le cose - una felicità che rinuncia a beneficiare di devastazioni e crimini compiuti da terzi - chi ha fatto queste scelte, dico, non ha mai preteso di essere trattato meglio degli altri, di avere più opportunità e libertà, o corsie preferenziali.


Perché? 

Semplicemente perché questo sarebbe mostruoso. E perché siamo tutti uguali di fronte alla legge, e alle pari opportunità: simpatici e antipatici, responsabili e irresponsabili. L’unico discrimine è l’infrazione delle leggi. E certo è legittimo impegnarsi perché le leggi siano buone, secondo i propri criteri. 


Cosa è successo oggi, che improvvisamente chi è, o si sente, responsabile in una sola determinata accezione, e rispetto a un unico determinato problema (e magari non lo è mai stato in modo particolare fino a ieri), pretende o approva un sistema di premi e punizioni, sostanzialmente una riorganizzazione della società in caste che si collocano nella griglia disegnata da uno stato etico, un’esenzione del liberismo dalla sua base liberale, una legittimazione del potere come soggetto soverchiante, arbitrario, minaccioso, vendicativo?


Il concetto è talmente goffo e rozzo che viene da pensare che queste persone siano dei totali “improvvisati della responsabilità”: novellini che non si sono mai confrontati prima, veramente, con il peso e la bellezza di scelte etiche. E forse oggi lo fanno perché spinti dal ricatto, dal conformismo o dalla paura; e non da un moto interiore. Sentendo quindi il bisogno di farla pagare a qualcuno.

È una cosa davvero imbarazzante. 


L’Italia è investita in pieno da questa pandemia di bigotta e obbediente ferocia, di ir/responsabilità a comando e a corrente alternata - qualcosa di ancora più spaventoso, se possibile, del menefreghismo a tempo pieno. Qualcosa contro cui non sembrano esistere cure né efficaci strategie di contenimento. 


Non resta che sperare che, come è accaduto per tutte le precedenti pandemie, e come a quanto pare sta accadendo anche con il covid, Madre Natura a un certo punto dica “basta”.

giovedì 13 gennaio 2022

“Il nodo”, romanzo di Pieralberto Valli: un viaggio verso il mondo

Ho avuto il piacere di scrivere la postfazione dell’ultimo libro di Pieralberto Valli, che propongo qui come recensione e consiglio di lettura. 


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Un viaggio verso il mondo

Di Carlo Cuppini


La scrittura di Pieralberto Valli attira per lo scintillio delle parole; cattura con la raffinata tessitura della sua tela; poi sprofonda in luoghi oscuri e impervi, dove ci si trova a contatto con inquietanti elementi umidi, palpitanti e ingombranti. Sono i temi sommersi del nostro tempo: animali mostruosi che, inosservati, dormono nel fondo di una caverna e sognano di svilupparsi nella dimensione del tempo; un domino di mutazioni sempre più indipendenti dalla realtà, capace di dipanarsi contemporaneamente verso il futuro e verso il passato, rendendo entrambi immaginari.

I romanzi e i racconti di Valli sono la porta di accesso a questo luogo di visioni e rispecchiamenti.

I futuri di cui ci parlano le sue storie sono frutto di un’immaginazione che cresce sui bordi della realtà come una muffa pigmentata, oppure sono il ritratto di una realtà che ha già sopravanzato qualunque possibilità di immaginazione? Una realtà, in questo caso, vista senza il filtro normalizzante delle sovrastrutture ideologiche che avvolgono la nostra vita quotidiana come una rete agganciata agli oggetti comuni.

Di “oggetti” comuni è pieno l’appartamento di Hermann e Johann: il divano, i muri, la porta del bagno, i neon, il lavandino, i gradini di legno, la maniglia della finestra, due brioche, uno sbuffo di fumo. Sono le cose che compongono “l’universo abituale”, dove “i confini dei muri e delle stanze erano i medesimi di sempre.”

Pur concentrandosi sui minimi dettagli materiali e sensoriali, Pieralberto Valli non ha un fare scientifico o analitico, ma poetico e filosofico: non indugia sulle caratteristiche degli oggetti perché è interessato alle relazioni tra le cose, in un mondo fatto di cose; ma perché intuisce che gli oggetti sono l’estremità visibile di qualcosa che è in grado di rivelare i valori simbolici prima di affondare nella dimensione dell’ulteriore.

Così la porta socchiusa del bagno diventa una “frattura verticale”; e “i nostri corpi” diventano “la sindone di un passato scomparso”; le ombre “si congiungevano ritmicamente, a intervalli regolari, creando figure astratte” che “rimandavano ad altri mondi, ad altri tempi.”

Il racconto di Valli è minuzioso, concentrato sugli oggetti come sui corpi. Le mani e i tratti dei volti vengono osservati insistentemente. L’attenzione sulle reazioni corporee è sempre accesa: i gesti, gli arrossamenti, i tremiti, la propriocezione espressa per similitudini; come nelle pennellate emozionali della pittura manierista – quella tenue e sensuale di Barocci, quella sanguigna e parossistica di Rosso Fiorentino – il corpo è parte di un dialogo, reagisce agli stimoli e cambia stato.

Poi c’è la musica. Pieralberto Valli, oltre che insegnante è musicista. I suoi brani attingono alla tradizione della musica indipendente e underground italiana: hanno un andamento ipnotico, un mood filosoficamente ribelle e quietamente malinconico, una cura del dettaglio sonoro e lessicale nel deflagrare lento di cataste di visioni. Musica e letteratura si rispecchiano perfettamente l’una nell’altra, in Valli; e come la sua musica è piena di letteratura, così la sua scrittura è piena di musica, ed è essa stessa musica.

 

“L’acqua, intanto, aveva iniziato a sgorgare accompagnata dal motivetto di una pubblicità che stava canticchiando pur senza ricordarne il testo. Le canzoni prive di parole ci riportano spesso all’infanzia, a una fase della vita che preesiste il linguaggio e in cui il semplice suono definisce i contorni della comunicazione, che non per questo risulta meno efficace. La mia mancata risposta non aveva modificato la realtà circostante e l’universo non si era arrestato in attesa che formulassi una risposta alla sua offerta. Lo schianto dell’acqua, le note della reclame, il sordo silenzio delle strade mi avvolgevano tanto quanto il divano su cui avevo disteso le ossa.”

 

Nel mondo di Valli, se una mancata risposta non ha modificato la realtà circostante e non ha fatto arrestare l’universo, è bene specificarlo: perché non è affatto scontato.

La dimensione auditiva, quella visiva, quella propriocettiva e quella autoriflessiva hanno la stessa importanza: l’accordo tra questi elementi ha il potere di rilevare gli attimi in cui i fatti della quotidianità si avvicinano “pericolosamente” all’orbita filosofica dell’esistenza. Sono i momenti in cui, pur presi nella rete, possiamo gettare uno sguardo al di fuori di essa, e sentire il richiamo di una libertà a cui non possiamo dare nessun significato concreto che non sia la scelta di mettersi in viaggio, facendoci carico di un rischio: il rischio della ricerca, che può anche significare fallimento e perdizione. Oppure risveglio, riappropriazione.

 

Viaggio, ricerca, rischio. Questi temi accomunano Il nodo al libro precedente, la Trilogia della distanza.

Il protagonista del Nodo, come quello del racconto più esteso della Trilogia, compiono un lungo viaggio: in entrambi i casi, si tratta di un viaggio che porta poco lontano da casa; ma il movimento rappresenta una quest che conduce lontano dal punto dell’esistenza in cui si trovavano; disancorando il destino da un percorso che sembrava segnato.

Non si può parlare del Nodo senza fare un cenno alla Trilogia, dal momento che entrambi sembrerebbero far parte di un progetto nato, forse involontariamente, per accompagnare il nostro ingresso nell’epoca pandemica, curandoci e scorticandoci allo stesso tempo, come sempre fa la buona letteratura.

Se la Trilogia è dunque la scoperta della distanza – delle nuove distanze che sono state istituite, o forse delle vecchie distanze che si sono improvvisamente rivelate – ed è una navigazione raggelata e disperata attraverso di essa, Il nodo è la riconquista della prossimità: valore perduto in un oblio anestetizzato, che vale qualunque gesto illecito. Perfino mettersi in viaggio per salvare un bambino senza diritto di cittadinanza, una giovane “non persona”, emblema di un corso delle cose che, mentre scrivo queste righe, si sta approssimando qui, nel “mondo reale”.

 

“Questo, si può chiamare mondo?”

 

Tanto nella Trilogia della distanza quanto nel Nodo c’è la percezione di un mondo nuovo già iniziato, un “Neustarten” che neanche tanto velatamente richiama quel concetto di "Great Reset” con cui certa élite finanziaria assegna apertamente una prospettiva distopica al tempo di crisi che viviamo. Ma c’è anche il senso di un “mondo ritrovato”: come in Brave new world di Aldous Huxley, in 1984 di George Orwell, in The man in the high castle di Philip K. Dick, e come in molti altri esempi di letteratura fantascientifica, fino alla recente quadrilogia di Giovanni Agnoloni Internet. Cronache della fine, a un mondo nuovo aberrante – ancorché inclusivo e pacificato all’apparenza – si contrappone la sensazione che da qualche parte, in qualche modo, debba esistere ancora il mondo. Ovviamente non si tratta di paura di ciò che è avveniristico o sconosciuto; non è desiderio di regressione e conservazione; non è la ricerca di un rifugio nel “piccolo mondo antico”: è la volontà di mondo, la rivendicazione del mondo; giacché l’altro, quello “nuovo”, non è mondo, ma è la sua sostituzione; non è “nuovo”, ma è altro; non è “pace” ma è deportazione: nel regno dell’irreale, dei significati separati dai significanti, e quindi indefinitamente intercambiabili.

 

“Stavo fuggendo dal reale o verso il reale?”

 

Le ombre delle nostre paure, nuove e ancestrali, delle nostre domande, eterne e rinnovate, sulla libertà, sul rapporto con il potere, sul posizionamento dell’individualità rispetto all’unanimismo, sui destini collettivi, vengono proiettate in queste narrazioni necessarie e sconcertanti. È tale la loro nitidezza che le possiamo finalmente vedere, staccate da noi; possiamo studiarne le movenze; in alcuni istanti crediamo perfino di poterle seguirle fino al punto di congiunzione con la nostra persona, dove la materia del corpo confina con quella del buio.

Ma arrivati a quel punto, un suono o una musica ci distolgono.

 

“Credo si chiami vita, Hermann.”



https://www.gagarin-magazine.it/prodotto/pieralberto-valli-il-nodo/




domenica 9 gennaio 2022

Senza Vitaliano Trevisan

Il suicidio di Vitaliano Trevisan mi ha turbato profondamente.

Sento forte la sua assenza. Cerco di capire il motivo. 

Non l’ho mai incontrato. Ci siamo sfiorati ripetutamente in alcune recenti occasioni. Nel 2020 Ramona avrebbe dovuto collaborare con lui per un suo lavoro teatrale su Dante. Poi la cosa è saltata causa covid. In seguito ho scoperto le sue posizioni critiche contro la gestione del covid, il suo rigetto assoluto del lasciapassare, e ogni tanto occhieggiavo nella sua bacheca fb per rinfrancarmi con le sue caustiche asserzioni. 

In agosto gli scrissi una email per proporgli di apparire tra i primi firmatari della petizione contro il green pass promosso da Olga Milanese e dal sottoscritto. Mi rispose di aggiungere senz’altro il suo nome, e così è stato fatto; e di tenerlo informato su ulteriori iniziative, come l’idea di convegno / costituente del dissenso che all’epoca, insieme ad altri, vagheggiavo: avrebbe partecipato. 

L’ho risentito vicino scoprendolo come me coautore del libro “Noi siamo l’opposizione che non si sente” a cura di Giulio Milani, il volume che per primo ha raccolto i contributi di scrittori e poeti contrari alla gestione della pandemia. Tra Ginevra Bompiani, Lello Voce, Franco Berardi Bifo, Emanuela Nava, Gabriele Frasca, Marco Guzzi, Aldo Nove, Antonio Rezza, Flavia Mastrella, Enrico Macioci, Giovanni Agnoloni e altri importanti protagonisti della cultura italiana, spiccava anche il suo nome. Avevo aspettative, in larga parte fondate, sul volume in generale; e fremevo dalla curiosità di leggere il contributo di quello che forse è - era - il meno addomesticato scrittore italiano. È stato impossibile: a ridosso della pubblicazione, con una telefonata al curatore/editore Giulio Milani, Trevisan ha ritirato il suo contributo. “Per non nuocervi e per non nuocermi”. 

Di lì a poco c’è stato il famoso episodio del suo internamento in psichiatria, per un prolungato Accertamento Sanitario Obbligatorio, che Trevisan ha raccontato su Repubblica come un’esperienza devastante. 

Non è più tornato nei miei pensieri fino a ieri. Adesso li occupa ininterrottamente con prepotente assenza. 

Questa mattina prima di andare al lavoro ho fatto il giro delle librerie per prendere tutti i suoi libri. Non ne ho trovato nemmeno uno. Alla fine, da Todo Modo, un libro di racconti: “Grotteschi e Arabeschi”. Volevo alcuni testi teatrali, come quello sull’ultimo giorno di vita di Beckett, e i romanzi “Quindicimila passi” e “Works”. Storcendo il naso mi sono detto: “Va bene, li prendo su Amazon”. 

Attualmente non disponibile. 

Attualmente non disponibile. 

Attualmente non disponibile. 


Mi sono detto che da oggi siamo senza Vitaliano Trevisan; ma probabilmente il mondo stava già da tempo senza Vitaliano Trevisan. E senza quelli come lui. 


Il 19 novembre annotava su fb: “scaffale degli autori veneti e vicentini della libreria della stazione (mondadori) - ovviamente Trevisan non c’è - non ci sono nemmeno Piovene e Parise, a dire la verità; ma c’è Pennacchi e il suo pojana ahahah. ps: non c’è un libro di T in tutta la fottuta libreria”

Alla damnatio memoriae in vita seguirà l’ipocrita beatificazione in morte?


In estate, sempre su fb, aveva scritto che non sarebbe mai entrato in un teatro per cui fosse richiesto il green pass a lui o al pubblico. Tra i commenti avevo letto qualcuno che lo ammoniva, pensando forse di pungerlo acidamente nel vivo come per solito si fa sui social: “Continuando su questa linea perderai tutto il tuo pubblico”. O qualcosa del genere, non ricordo le parole precise.

La risposta di Trevisan la ricordo perfettamente: “Mai avuto un pubblico”. Ricordo di avere sorriso per una buona mezz'ora.


Non vorrei mai strumentalizzare la sua morte per portare acqua al mulino delle mie riflessioni e convinzioni; ma non posso fare a meno di pormi una domanda: se e quanto il clima di terrore, odio, persecuzione e segregazione in cui siamo immersi da mesi abbia inciso nel crollo di un’anima sofferente. Se di crollo si è trattato; e non piuttosto di una lucida e spietata decisione, come quella di Mishima, che disse un momento prima di fare seppuku: “Ora testimonieremo l'esistenza di un valore superiore all'attaccamento alla vita.”


Anche Trevisan ha parlato di testimonianza in un post recente, che avevo letto e che ha ricordato anche Giulio Milani: “La libertà non si definisce, si testimonia.”


Chissà. Le mie sono illazioni, che sulla morte non si dovrebbero fare.

Ma non le faccio per avere un’occasione in più per lanciare un’invettiva contro uno Stato e una società che ci hanno trascinato nel baratro e portato alla disperazione milioni di persone, adolescenti compresi.

Le faccio perché da ieri non mi abbandona la domanda: che potere avrà tutta questa sofferenza, questa angoscia, sulla nostre vite, sulle nostre menti? Se mai ne usciremo, come ne usciremo? Parlo di noi che abbiamo osato dissentire. Che abbiamo osato metterci dalla parte del dodicenne che non può salire sull'autobus.

Ho finito; e non so se questo è un modo in cui Trevisan avrebbe voluto essere ricordato. 

In fondo, lui che non ha mai avuto un pubblico, se ne sarebbe altamente fregato.

Quello che credo sia il modo giusto per noi di ricordare Trevisan, è fare in modo che la sua morte non sia – per noi – senza profonde conseguenze.

martedì 4 gennaio 2022

Il migliore raccolto del 2021, due obiettivi per il 2022

Quest'anno – oltre a un libro di racconti con Giovanni Agnoloni e Sandra Salvato che uscirà in aprile – voglio mandare in porto due libri per bambini, che affrontano in modi diversi il tema della libertà: uno poetico che parla di libertà interiore; uno dissacrante e ironico che parla di libertà dalle prevaricazioni (e di tutt’altro). Ci tengo moltissimo.

Prima di dedicarmi a questi progetti, getto uno sguardo indietro, per vedere che ne è stato di quel Mistero delle meraviglie scomparse che, prima di incontrare il favore di Marcos y Marcos e le cure imprescindibili di Claudia Tarolo, e venire quindi pubblicato nel maggio 2021, ha collezionato tanti prestigiosi rifiuti.
Scorro le recensioni apparse sui media in questi mesi, i commenti pubblici di scrittrici e scrittori, i riscontri di blogger e lettori sconosciuti.
Penso che tutto sommato insistere tanto, e tanto a lungo, senza perdermi d'animo, per riuscire a pubblicare questo racconto è stata una buona idea, oltre che una necessità insopprimibile.
Raccolgo qualche estratto e traghetto l'energia che ne ricavo verso le sfide di questo 2022.
Ringraziando tutti coloro che hanno letto il mio libro e hanno voluto spendere qualche parola per raccontarlo.
Che il 2022 sia un anno buono per tutti. E anche un anno di buone letture: non risolvono tutti i problemi, ma aiutano. Non poco.

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“Carlo Cuppini ha trovato il modo perfetto per raggiungere tutti, grandi e piccini, farli parte di una riflessione che nella forma ha la leggerezza della fiaba.” (Sandra Salvato, Cultura Commestibile)
“Il mistero delle meraviglie scomparse realizza una storia che possiede la principale qualità dei migliori libri: una densità filosofica che fa tutt’uno con la semplicità e la scorrevolezza delle forme.” (Giovanni Agnoloni, La poesia e lo spirito)
“Ci vuole coraggio: questo è uno degli insegnamenti più preziosi che Filippo e Francesca, protagonisti di Il mistero delle meraviglie scomparse di Carlo Cuppini, si porteranno nel cuore.” (Giovanna Canzi, Repubblica Milano)
“Si legge tutto d’un fiato.” (Laura Antonini, Corriere Fiorentino)
“Cuppini riesce nell’intento di divertire con intelligenza, con coraggio, lasciando trapelare valori di umanità, di integrazione, di inclusione che sono tanto preziosi oggi.” (Serena Bedini, Leggere: tutti)
"Il testo scorre tra sorprese e piccole tensioni intervallate da interessanti spunti di riflessione. La forma tradizionale di fiaba lo rende molto accessibile e si presta per l’uso in contesti educativi e scolastici.” (Martina Vincenzoni, Lungarno Firenze)
“Una storia necessaria sull’importanza dell’arte e della bellezza nella nostra vita.” (Francesca Capelli, Il Messaggero dei Ragazzi)
“Sono tante anche quest'anno le proposte da scartare sotto l'albero che gli editori hanno in serbo per i lettori più piccoli. (…) Con Marcos y Marcos esce infine "Il mistero delle meraviglie scomparse" di Carlo Cuppini: il racconto del fiume Arno che, un bel mattino, fa scomparire tutte le bellezze di Firenze.” (ANSA Libri)
“Carlo ha scritto una riuscitissima avventura fluviale e, come tutto ciò che è liquido, sono sicura che entrerà agilmente nelle case di molti lettori e molte lettrici." (Lilith Moscon)
“Una bellissima fiaba in cui l’Arno è un bambino dispettoso che si diverte a rubare i monumenti di Firenze (…) una storia che fa bene agli adulti e ai bambini.” (Simone Frasca)
“Una storia tenera e densa di significati, un’avventura come quelle bellissime di Huck Finn e Tom Sawyer sul fiume Mississippi, quella raccontata da Carlo Cuppini nel suo libro per bambini. (…) Un bellissimo esordio nella narrativa per bambini.” (Paola Zannoner)
“Un libro bellissimo che parla di meraviglie scomparse ma anche della meraviglia dei piccoli protagonisti. È un libro profetico, come profetici sono spesso i bambini.” (Emanuela Nava)
“Il racconto delizioso e divertente, dalle pensate piacevolmente incredibili, è arricchito con descrizioni originali. Sorretto dalla trama chiara di un mistero coinvolgente, scorre come un ruscello di montagna.” (Milena Scaramucci)
“Ve lo consiglio, una storia di bambini, di avventure, di tutta la bellezza di Firenze.” (Francesca Sivieri)
“È un bellissimo racconto, consigliato dagli otto anni, che offre spunti di riflessione profonda ed ha molto da insegnare anche agli adulti. Un testo tenero, sensibile, commovente e fantasmagorico. E con scene molto divertenti che mi hanno fatto ridere di gusto.” (Cristina Fusi)
“Un bellissimo libro, lieve e profondo al tempo stesso, ricco di significati che risuonano nel lettore e si rivelano gradualmente.” (Pier Paolo Gobbi)
“Una bella fiaba contemporanea di Carlo Cuppini, letta tutta d’un fiato.” (Clara Minin)
“Poiché Carlo Cuppini è uno che nei post scrive bene (e pensa bene) vi condivido a scatola chiusa questo suo libro di narrativa per bambini.” (Licia Coppo)
“Sapevo che mi avrebbe fatto bene leggere questa straordinaria storia che vede due fratelli impegnati in una avventura incredibile per salvare le meraviglie di Firenze e non solo.” (Prashant Cattaneo)
"Tanti sono gli insegnamenti e gli spunti di riflessione che questo incantevole racconto può dare, a noi adulti come ai bambini. E ciascuno troverà allora l’insegnamento che più gli si addice.” (Paola Tonini)
“La storia si presenta come un giallo, ma possiede anche elementi magici e fantastici che rendono ancora più straordinario l'evento che viene raccontato.” (The book lawyer)
"Una lettura divertente, piacevole, piena di suspence che riuscirà ad appassionare senza sforzo alcuno, i lettori più pigri.” (On printed paper)
“Libro meraviglioso per ragazzi ma anche per adulti.” (Recensione Amazon)
“Una lettura per tutta la famiglia, in cui finalmente sono i bambini che hanno da insegnare ai grandi come risolvere una grave questione: di certo non stando incollati al televisore!” (Recensione Amazon)