blog di Carlo Cuppini

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mercoledì 13 luglio 2011

Fare poesia

Fare poesia è molte cose insieme.
E' immergersi volando nel sottosuolo, come uno sciamano aquila-serpente, piombando nel regno dei morti, i quali detengono il segreto dei significati e del valore di tutte le cose; per ingaggiare con essi un combattimento amorevole, e cercare di riemergerne vivi, scorticati, rischiarati.
E' disporre su un piano orizzontale, su una tavola spoglia, concetti, figure, frammenti, proposizioni, scaglie linguistiche, forme, ritmi, riti, frantumi dell'essere che cogliamo dentro e fuori di noi; è una disposizione che avviene secondo un realismo primitivo, dove tutto convive spazialmente con tutto, e la raffigurazione verbografica è inscindibile dalla forma del concetto della cosa, e dalla sua evocazione magica; senza le gerarchie e senza il criterio di prospettico-illusionistico proprio dell'epoca che inizia con il Rinascimento.
E' articolare l'essere attraverso l'espansione infinita (fino ai limiti del finito) del linguaggio. Articolarlo, non esprimerlo. Lo diceva Antonio Porta, e vale tutt'ora.
E' abitare la polis, tenendo conto di tutti i fantasmi che la abitano e la agitano e che ci sono concittadini, anche se non votano.
E' mettere in discussione il finto naturalismo del linguaggio corrente – orientato verso di noi dalle strutture di potere che sono dislocate ovunque come mine antiuomo in un prato – che ci dice che c'è uno e un solo modo sensato di dire una cosa; per dimostrare invece che non c'è modo alcuno di dire realmente qualcosa: se non interpretando, uno per uno, volta per volta, l'essere al mondo; ignorando del tutto le istruzioni del potere e la soggezione che esso richiede in cambio dell'illusione della comunicazione permanente.
Per quest'ultima ragione, fare poesia significa predisporsi a farsi ammazzare dai funzionari della conservazione; contando però sul fatto, al contempo, che si può concretamente lottare, attraverso la poesia, contro la probabilità di venire ammazzati.

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