blog di Carlo Cuppini

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domenica 28 ottobre 2012

bollettino #92: hanno (meno)

– hanno finito il sentimento, finito le scorte, e le scorze, le sporte restano vuote, ne avanzano troppe, di plastica, tutte, non più utilizzate, vietate, s'ammuffano, dietro gli sportelli, del sentimento, desueto, scaduto, senza più scorte, di acque, di viveri – vivere, vivere! – vivere a fare, che? – le scorte, è scortese, restare a guardare, schiattare, uno che schiatta ad esempio – Felice Baum, rinsecchito, senza acqua, tutto scorza, scortato a morire – dal papa, dal preside, dal poliziotto, dal capo della, polìzia, da tutto il governo, dal capo, dei capi, da alcide, de gasperi, dal biasimo, collettivo, dal generale, dell’esercito, dai fazzoletti, soffiati, col riso, nuziale, soffiato, al cioccolato, bianco – scortato, scorato, scoraggiato, con scorze d'arancia avanzate, glassate, spedite in medio oriente, a coprire la fame, le fami, in africa nera, piena di sole, nera di sole, e leoni, di scorta, leoni per vivere e viveri, mangiati – ed era, lì lì, per vivere lì, ed era lì lì, per viveri, per i viveri, in mancanza di vivere – Felice Baum va spedito, al capestro, di buon passo, alla gogna, che gatta ci cova, le uova, ci cogna, cogniamo, noi tutti, in cognita, scorte di cognac, di viveri come, scorte o scorie, sporte piene di spore, ammassate, tra scorze d’arance, d'arancia, spremuta spruzzata, sui campi, sui tetti, sganciata da aeroplani, da guerra, su genti, su case, per sciogliere i brufoli, finalmente, con acidi citrici, aràncici, rancidi, acido sprèmulo, su gente innocente, innogente, fotogenica, gentica – gente all’erta, accorta, senza scorza – non come lui, che è scortato al capezzale, di lui stesso, medesimo, me, anche, con lui, di rimpetto – Felice Baum fa la scorta, di scorie, per fare il trapasso, più lieve, più in luce, con fosfori atomici, negli occhi più verdi, che brillano, brillano, al buio, più tossico – e anche, tossisco, per tisico fisico, un fisico, averlo, di scorta, ma non – c'è, non si muore – si va, e si torna, cadendo nel pozzo, dal quinto piano, per le scale, per le scorte, che avanzano, non bastano – nel vano dell'ascensore, riempito di scorte – e non è mai tornato, si torna, con occhiali scuri, o senza scorte, non è stato lui, ma tutti hanno pianto lo stesso, in assenza, con scorze di cuore, sporte vuote, e le scorie, e le scorte, tutte in dispensa, vuote, e il sentimento, senti senti, mento, mentono, meno –

sabato 27 ottobre 2012

bollettino #77: insolvente (infuso)

– insolvente, insolente – ma cosa vuoi solvere? – paga! – è tutto insoluto, insolubile – è la dura realtà – l'insalata insoluta, concreta, rocciosa, non removibile, non si piega, non si spezza, men che meno va giù – è la dura realtà – hai provato l'ammorbi? – prendi ammorbidente – bevi l'ammorbidente! – tutto il flacone, incluso l'infuso, forse ammorbante, un pochino, ti ammorberà, i denti, li scioglie, solùbila, corrode, lo smalto – curali!, previeni! – con denti, fricio – ma quale? – i denti, ci, ci dicono, quale, che identici, denti, frici, ci chiamano, invitano, da identici spalti, cariati, di mercati – super! – con trentatré tipi, diversi, di identici, denti, frici, o ammorbi, denti – sbiancante, purìficant, alito fresco, alito bòno, anticarie, anticalcare, antitàrta, whitening, bianco, più bianco, bianco naturale, bianco natale – trentatré tipi, gli anni di cristo, è natale – bianco super!, antisanguinamenti, antibatteric, antimaldidenti, antimalocchio, antisfiga, antimperialista, antifascista, antietà, antiruggine, anticancro, anticrisi, anticristo, antico, moderno, contemporaneo, brevettato, senza fluoro, con floruro semplice, floruro anteriore, consigliato, approvato, raccomandato, da identici esperti di denti, tutto mordenti mele, identiche, il male, comunque, di denti, verrà – è cosa certa — la dura realtà – fai gli sciacqui! – con l'ammorbidenti – il filo del discorso, interdentale, non tiene, si spezza, al contatto col molare, zigrinato, seghettato, intaccato – biorepair! – la salvezza, il trentatreesimo tipo, esso ci vuole – spalmalo, spargilo, spazzolìnalo – più in fretta che puoi – ma non riparare, previeni!, preventiva!, prevedi!, coi dentifrici – ma quali? – ma chiedi per tempo, i preventivi – è tutto in offerta, non gratis – c'è il trenta per cento in più, di prodotto, anche il trentuno, il trentadue, il trentatré, ma lo paghi al dottore – dica gli anni di cristo – tre per due! – perdio!  è tutto marcio, tutto da rifare, ci vuole la protesi, il floruro di sodio, ma costa, fai il preventivo, usa il preservativo – è una vera occasione, nel mese della prevenzione – ma non è gratis, lo paghi – anche il mal di denti, lo paghi – è la dura realtà – ci sto in mezzo, accanto, di lato, sottosopra! – è la dura realtà – da dove provieni, o previeni, e dove stiamo andando – saperlo – se bevi l'infuso –

bollettino #18: miriadi (giorno)

– miriadi di farfalle minuscole, bianche, hanno preso d'assalto la casa, mosche bianche, di notte, al cambio dell'ora solare, ma il sole non c'entra, a quell'ora non c'era, era buio, pesto, pestato, accecato, e l'ora è cambiata, scattata, scoccata, le bianche farfalle discese, dal nero, profondo, del cosmo, dietro il sole, con zampe minute hanno preso la casa, agganciato tegole, grondaie, davanzali, con minimo sforzo, ognuna un solo battito d'ali, l'edificio staccato dal suolo, strappato alle cantine, rimaste buchi scoperchiati, a riempirsi di pioggia, battente, incolore, la casa divelta senza traumi, strappata alla fondamenta, rimaste infondate, staccata dal rasoterra, dalla crosta, terrestre, mosche cattive, incolori, mosche di morte, bianche di cecità, di notte –                   la casa sospesa a mezz'aria, a dieci metri da terra, oscilla con grazia, lieve mal di mare, generale, dai balconi si vede il paesaggio, oscillare, le mosche battono le ali, con gentilezza, lenti battiti, sono grandi come un frammento, di unghia, tagliata, caduta per terra, rimasta sul pavimento, scampata per puro caso allo sciacquone, appena un millimetro –            se tre o quattro mosche, bianche, distratte, mollano il tetto, si cade, di nuovo nell'ora legale, sulle cantine, si schiaccia il fondamento, del quadrante, l'orologio, le cifre tatuate sul polso, sul polsino, dove si scrive, di tutto, anche "l'amore", anche "legale", e "solare" –              e dicono che si può scrivere, "amore", e "legale" e "solare", lo si può scrivere, e dire, raccontare, a questo serve la parola, che la lingua non è un muscolo, è un utensile, dicono il mestolo, il colabrodo, per dire "ti amo", o "contare"–                 la lingua è una bestia gigante, interrata, sottratta alla vista, morta e sepolta, enorme, vivente, un corpo ancestrale, senza occhi, dietro il sole, tutta pelle, e bocche, arti, e organi oscuri, metamorfici, animale, leviatano, che si scuote nella mente, si agita in fondo alla notte, si divincola alla luce del giorno, che non puoi vedere, a causa dell'ora legale –                Felice Baum suona alla porta, di prima mattina, nel giorno di pioggia, fradicio sullo zerbino, allunga la mano, porge qualcosa, l'ora perduta, l'orologio, smarrito, tempo fa, chissà dove, l'ha trovato – se non sai più leggerlo, affari tuoi – lo rigiri, lo indossi, lo slacci, è tempo di fare la muta, tornare dal pozzo, luminoso, lui gira i tacchi, senza una parola, se ne torna, nel tempo, è una giornata di pioggia, finissima e luminosa –                 oltre la cerchia delle farfalle, oltre l'oceano di pioggia, gli uccelli strillando, il giorno –

giovedì 25 ottobre 2012

bollettino #5: omìni (passare)

– omìni, òmini, omìnidi – òmo zigoto, con zigomi e gote, ad esempio, gli zigomi uguali, agli zigomi, zigoti, con peli di pelvici, sulle gote, òmini lupus, quindi, con gote eguali all'uguale, di gote, ad esempio, sinonimo di uguale, uguagliato, ungulato per lupus, l'eguale, il comune, il massimo comune, possibile, bene comune, multiplo dell'uguale, comùn denomìna, comunàl, comunardo, comminato, minato – ugualmente ineguale, nel comune del minimo comùn, nominato, ineguale, inguinale, equanime – è qua, già, là e qua – squacchero, nominato indicato, massimo, indicizzato – innominato nominabile, inomìnide, a eguali disòmini, imparentato, di specie uòmica, eguali in ispecie – all'indice!, nel fattispecie – e tu: fattispecie, aggrègati, sgrègati, gregoriànati, d'incanto, d'un canto, di gregorio – di samsa, di specie, d'oliva, di olivo, di òmo, di olio, di sansa, di samsa – tu, gregor: disgórgati, desegrègati, tra lepidotteri di specie diverse, eguali, ineguali, nella fattispecie – lepidotteri, lepidottóri, laureati, ad honorem, ad harem, alberghi ad ore – e quindi tu: suòmati, disuòmati, sgrègati, sfattuòmati – nella fattispecie, tu: sfattispecie, lepidòtterati, e pigrècati, pigramente, pigolando aritmetica, e poi diàmetrati, e dilàpidati, circonferendo la cerchia, circonferente la virgola, tre periodico, per, gli eguali, della specie, uòmica, inuòmata – tu disuòmati, ancora, nel periodico, tre, in fattispecie, despèciati
                                 – Felice Baum esce di casa, al confine con la specie, esce in ciabatte, in vestaglia, in tenuta da letto, dalla soglia, vede duecento cavalli, passare, marroni, tutti marroni, dirigersi ognuno verso la piccola porta, aperta nella  muraglia, di pietre, la attraversano piano, lentamente, con ordine, uno alla volta, tutti marroni, lucenti, nella luce dell'alba, dell'alba di sera, nella fattispecie, a metà pomeriggio, prima di rientrare in casa, ognuno col suo cavaliere, un uomo una donna, ragazzi, per lo più giovanotti, bambini e bambine, si girano tutti, non tutti insieme, pochi per volta, prima che arrivi il turno, che si avvicina il momento, di passare, nella fattispecie, la porta, il passaggio, si voltano tutti, salutano alzando una mano, poi passano, nella fattispecie, li guarda passare –

mercoledì 24 ottobre 2012

bollettino # 107: cantico (più)

– cantico quantico, delle comete, nel canto, cantiamo di meno, contenti un po’ meno, di tanto scotenno, scotento, scontento – cotanto d’inverno, del nostro un po’ meno, scotenno, crostato il costato, di tutto il papà – vero? – petalo, petalo – di primovero, primavero, papavero primo, vero, scottanto, quandunque – di tanto fattaccio, cottanto di sanguo, cotto, cotanto, sanguaccio, scottato nel conto, cantiamo quantunque – noi, sì noi, no no, noi, sì, uno – quantupedi noi, tutti dunque?, di quanto?, qual quorum, qui? – il quorum del canto, del cigno, del cagno, cagnóne – bau, di democràzia, bau – le equinoziali, le quattro, stagioni, stragioni, co’ funghi, scapozza le pizze, scapozza-scotenna, le teste, tese, le facce, le cappie, del capo – il capo ficcato nel fuoco, sul fico, con stecchi, col sangue d’equino, che cola, su guance, su guancio – io sguancio, spessissimo – noi anche, in cotanti contesti – peraltri costanti, con testi, costèrnati, piuttosto, costèrna il costato, costernàti tutti, i quanti, i quali, per via del conteggio, i riconteggi, rifatta la conta, del giogo, il gioghino, già perso, no àbbimo vinto – si canta sul conto, di quanta, in quattini, la cena, di pizza, del nascondì, tutta sul gozzo, rimane il contino, il conticino, di scontrino – fisca, le cose, fìscale tutte – tu, col cappio sul cappio, il cappiuccio sul capo, che pende, penzòla, sul corpo, sul canto di cigno – si schiatta di cigni, nel canto, nel quattro cantone – gran canto! – giocando a canóne, a pagà, a montone, con testa di Jago – lo yogurt del male – già andato, a male, malissimo, male, malóne, malore, col verme, batterio, bacilli, proletari, tutto finito, lo jago di jagurt, estinto, nel frigo, non tiene più il freddo, malaccio anche il fritto, cammina nel tempio, maluccio, un po’ peggio – contenti, quel po’ che non canta, di più, che altro – d’altroché – che, per di più, perdi, più, più d'altro, che altro, di più, più, in più, un po’ più – più – più – più – più –

lunedì 22 ottobre 2012

bollettino #79: guarda (va)

– guarda le colonne di fumo, leggero, come si alzano all'orizzonte, verdi, violette, gialline, in fondo alla piana deserta, sullo sfondo della foschia, lunghe matasse annodate, srotolate in verticale, lentamente, densamente, dove si schiantano i moscerini, precipitano i tordi, impazziti, bruciano migliaia di formiche, sotto un cielo grigioazzurro, sempre più scuro, quasi una lastra di piombo, che pesa, inclina l'angolo sopra la testa – e dimènticati di cenare, dimènticati di ricordare, che ora, che ora è, dimènticati di dimenticare, e fai la cena, dimenati, ascoltando il sopraggiungere dei boati, molte ore dopo, per via della velocità del suono, della lentezza del suono, della distanza lineare, della circolarità del globo – che dietro l'angolo, oltre la linea dell'orizzonte, appena oltre il punto dove finisce lo sguardo, ci sono belve assetate, instabili, irrequiete, che non si vedono, dilacerate ciascuna dai denti di un'altra, ma tutto è come sott'acqua, e si intravede appena la sagoma, sfocata, di quel che succede                          – Felice Baum sta seduto, al centro esatto della stanza, sopra un tappeto quadrato, un po' liso, raddrizza la schiena, snoda attentamente la colonna, vertebra dopo vertebra, facendo esplodere bolle d'aria dentro le articolazioni, con scricchiolii abituali, abbassa le palpebre, in un istante lunghissimo, oscura la vista, respira, inspira, con minimo sforzo fuoriesce dal corpo, sgusciando, con fare pneumatico, con un sospiro, il corpo lo lascia seduto, in mezzo alla stanza, il resto si invola, si dirige, verso il luogo del potere, il centro del luogo del potere, la stanza che è al centro del luogo, del potere – si abbassa, tocca terra, non visto, raggiunge la scrivania, afferra lo stiletto, lo infila nel torace del capo, del capo dei comandi, del proprietario delle cose, dei fatti, lievemente, tra due costole, fino al cuore, si accascia senza un sussulto, né un gemito – Felice Baum si alza, il resto di Felice Baum, senza il corpo, di nuovo, dalla finestra, verso la casa della madre, entra dalla finestra, che dorme, anche se il vetro è chiuso, passa e prova un leggero, dolore, attraversando la lastra, dura e trasparente, fa una carezza alla madre, che dorme, ritorna indietro, rientra, nel corpo, nella stanza, va a cena – l'indomani, obbedendo a un comando, centinaia di migliaia di persone, milioni, sbucando da ogni dove, di prima mattina, vestiti di nero, di grigio, intabarrati per bene, vanno alla ricerca, di lui, gli danno la caccia, Felice Baum sta nel mezzo, della stanza, apre gli occhi e li chiude, con calma, poi fa colazione, legge il giornale – perché così fa la gente, non si dà, pensiero, e va –

domenica 21 ottobre 2012

Nota su Felice Baum e i bollettini come oggetto di scrittura

Questa scrittura in progress, che non è un romanzo, non è una raccolta di poesie, non è un poema in prosa, che si produce da se stessa, avanzando di volta in volta il fronte metamorfico di un'identità non precostituita, determinata anche da un principio di osmosi con il mondo, che non va a capo secondo un metro ma di certo fa un uso inconsulto e musicale dei segni di interpunzione, e che fondamentalmente ambisce a restare inetichettata, potrebbe intitolarsi Rapporto sulla morte felice di Felice Baum, oppure Indagini sulla morte felice e annunciata di Felice Baum, oppure Bollettini atmosferici intorno alla morte presunta di Felice Baum. L'ordine dei singoli nuclei di scrittura (bollettini) al momento è casuale e perfettamente intercambiabile.

sabato 20 ottobre 2012

bollettino #51: vagante (paura)

– vagante proiettile intercetta, lo colpisce alla punta del piede, sanguina molto, Felice Baum, appena sceso per strada, risale di corsa le scale, per non morire dissanguato sul marciapiede, si lancia dalla finestra dell’ultimo piano, rimane sospeso per aria, oltre il rettangolo dell’infisso, le gambe le braccia slanciate, non cade, per via dell’assenza di sangue, di peso, l’assenza quasi totale, dal corpo, rimasto lungo le scale, colante, raggrumato, fluente, in pozze, rivoli, laghi, la gravità non attacca, rientra nuotando dentro casa, raccoglie il sangue piano piano, centimetro dopo centimetro, con un cucchiaio, va lungo le piastrelle, poi sulle scale, quando è secco lo reidrata, sotto il getto dell’acqua, nel lavandino, nel bagno, va giù di scalino in scalino, raccoglie, raduna, alla fine si infila quei litri abbondanti, nel corpo, dalla punta del piede, e la cuce, col filo, e scende di nuovo per strada – maledetti proiettili, vaganti, si dice, guarda attentamente a destra e a sinistra, prima di sporgersi oltre il portone, attraversare la strada – proiettili vaganti, di immagini, proiettili vaganti, di parole, faide interne, vendette sociali, espropri capitali, capitalisti, omicidi seriali, proposizioni taglienti, come ingiunzioni – proiettili non se ne vedono, a quest’ora, all’ora di pranzo, tutto tace – si avvia di buon passo, Felice Baum, arriva in ufficio in orario, compie a dovere il suo dovere, cancella la memoria del presente, dal tempo presente – tutto è digerito nella pancia, senza memoria, senza storia, tutto romanzo, tutto dimenticanza, misticanza, condita col sale, delle bustine, del fast food alla stazione – dalla grande vetrata, della stanza a pian terreno, affacciata sull'aperto, sulla campagna, sul prato, sul bosco, sul fiume, vede sfilare i carri armati, sempre alla stessa ora, in fila ordinata, allora abbassa la musica, classica, anche romantica e barocca, e talvolta moderna e contemporanea, Felice Baum, si approssima ai vetri, osserva sfilare quei carri, di carne, di ferro, di carnevale, che sparano coriandoli sui campi di cavolo, su coltivazioni di carciofi, coriandoli bianchi, e neri, come diserbanti, volantini informativi per la popolazione, del paese occupato, osserva il rumore dei cingoli – ritorna a guardare i bonsai, alza la musica, non tanto da coprire il silenzio, dietro i cingoli, nell'aria della stanza, i suoi nove bonsai, ognuno su un piedistallo, di legno lucido, nero, con in cima una vasca, piena d’acqua, con immersa una roccia, muscosa, a cui stanno aggrappate le radici, e dei piccoli pesci, rossi, con code a ventaglio, ogni alberello davanti a una parte, della vetrata, ognuno di specie diversa, di forma diversa, che cura ogni mattina, Felice Baum, pota attentamente con forbicine, da unghie, idrata ed annaffia, protegge, che chiama, gridando forte, per nome, quando ha paura –

venerdì 19 ottobre 2012

bollettino #44: soffione (tollerare)

– soffione, soffocare, per via dei boraciferi, in mezzo al pavimento, del salotto, Felice Baum non si vede, manca sempre agli appuntamenti, che lui stesso ha fissato, mi tolgo la maglietta, mi rotolo per terra, sopra il tappeto, sotto il tappeto, tra i bracci lunghi delle piante, i rami dei rampicanti, la bocche delle carnivore, con l’intestino in subbuglio, l’addome pieno di aria, che dovrebbe stare fuori ed entrare dal naso, ed uscire dalla bocca o dal naso, invece sta tutta dentro, nell’addome, nell’intestino, nello stomaco, e va su e giù per i tubi, non accenna ad uscire, e fuori non ce n’è, fuori è secco, il soffione, ha bruciato ogni molecola, di ossigeno, e continua a bollire, a ribollire, a soffiare, e si soffoca, qui, senza maglietta, la pelle riarsa, rotolando per terra, anche di notte, sotto il tappeto, sopra il tappeto, tra le piante affamate, l’addome pieno d’aria, tutti i respiri lì dentro, dentro la pancia, niente aria di fuori, per respirare, il naso non serve, la bocca non serve, senza aria non si può gridare, Felice Baum non si vede, non si presenta agli appuntamenti, quasi mai, o mai, la sua assenza è un atto d’accusa palese, un chiarissimo atto d’accusa, la sua accusa addita l’impiego, della prima persona singolare, che lui, coi suoi occhi, con tutti i suoi occhi sulla pelle, sparsi nel corpo, anche fuori dal corpo, non sopporta, non può tollerare –

giovedì 18 ottobre 2012

bollettino #101: arriva (nessuno)

– arriva l'infarto, quando si china, a raccogliere il fiore, rubato nel campo, del padre, sparito, lasciando tracce, dietro l'armadio, nell'altra anta del tempo, probabilmente, comunque sottile, traslucido il padre, quantunque deciso, in determinate circostanze, Felice Baum lo sapeva, che prima o poi il colpo arrivava, così ha già trascritto la storia, la cronaca dell'accadimento, precisa, dalla piana del destino, direttamente, sul petto, a parole, vergate con una biro blu, al centro del torace, più o meno sul cuore, dopo la doccia ripassa la scritta ogni volta, quasi sparita, ma si vede una traccia, ripassa sui segni, sempre gli stessi, lo stesso  tracciato, ormai lo faceva a occhi chiusi, anche nel buio, quando va via la corrente, e in certi periodo accadeva spesso, e mai uno sbaffo, un errore, pochi centimetri sotto, sempre, lo stesso, il cuore, che fa il suo lavoro, anche nel sonno, anche nel buio, a prescindere dal respiro, che poi si è spaccato, nel campo, sulla verticale del fiore, e lì resta, chinato, a vedere se passa o se muore, o se resta così, più o meno a metà strada, in un punto comunque da cui non si torna, non si va avanti né indietro, chinato sul fiore, il cuore spaccato, il tempo indeciso, sul da farsi, se finire, o restare bloccato, e una volta una donna gli ha detto, guarda, che fa male scriversi addosso, sulla pelle, l'inchiostro fa male, si sa, non fa bene, tutti i giorni, sei matto, ti viene il tumore, ma poi non si sono più visti, non ha più sentito parlare, lui, di certe cose, non si spogliava volentieri, davanti a nessuno –

bollettino#32: ragno (cuore)

– resta il fatto che ci siamo sbagliati, che non sembra neanche di stare, a guardare, con le gambe per aria, il cuore in subbuglio, lo stomaco al contrario, la mani appoggiate al soffitto, che spingono forte, i piedi sugli occhi, bruciati, in una sola fiammata, essendo meteoriti, piombati nell'atmosfera, idilliaca, di un giorno di festa, coi martini, coi cocktail, caduti, come tutti i denti che arrivano, addosso al bambino, in età di comunione, gli spuntano fuori da ogni dove – perché il ragno è penetrato nel letto, si muove di scatto, schivando le membra, di noi che dormiamo, già adulti, qui siamo in quattordici, tre italiani, due italiane, un cinese, una cinese, quattro algerini, due brasiliane, un cubano, e altri ancora devono venire, e dormiamo, e sogniamo, e ci agitiamo, sommessamente, non vedendo, coprendoci gli occhi a vicenda, coi capelli, col crine, con le unghie lunghissime, con la coda spiegata, questo ragno salvifico, terrifico, che muore di paura, tra tutte le membra, intrecciate, il cuore gli cede, addenta una gamba qualsiasi, alla fine, inietta il veleno di slancio, è il suo ultimo atto, per il cuore rotto di dio –

lunedì 15 ottobre 2012

bollettino #8: fluttua (risale)

– fluttua Felice Baum, per le strade, cammina in verticale nel vano dell’ascensore, precipita dal quinto piano sfogliando le pagine, osserva la ragazza del cartellone pubblicitario, prende il caffè al bar all’angolo, sta in bilico sul bordo del marciapiede, nascosto dietro il platano addosso al muro, si tocca il membro da dentro la tasca, osserva le nuvole grigie addensarsi sulla collina, fa un altro mestiere per ore, rincasa in orari diversi, scrolla lo zerbino davanti alla porta, pulisce le scarpe, anche se inizia a piovere, cucina le pentole, telefona in Australia, accade solo una volta, brevemente, parla spesso con la madre, accende il computer, osserva la strada dai vetri, anche se piove, fa acquisti in internet, la pioggia, guarda le nubi, compra molte cassette d’acqua, molto scure e dense, le porta su per le scale, scende per strada, cammina a ritroso, prende l’autobus, va in centro, va all’agenzia, mangia la carne, ascolta la musica sul divano, nel buio, non sa non ricorda, la nuca poggiata allo schienale, le palpebre abbassate sul viso, si tocca il costato, preme col palmo, infila le dita nei vani intercostali, sente il battito, non sa non risponde, conta le costole, conta mentalmente le vertebre, non sa il numero esatto, si perde, suona il telefono, si conta i denti passando la lingua, crede di conoscerne il numero esatto, ha un dubbio tra trentadue e ventotto, preme il lato della bottiglia sugli occhi, chiusi, uscita dal frigo, fredda, per schiudere il tempo, di dentro, si apre qualcosa di azzurro, o grigio-azzurro, osserva per terra i lepidotteri in fila, avanzare, come in processione, con passo regolare, osserva il meccanismo degli arti, tre alla volta, vanno anche in verticale su per il muro, si alza dal letto, scende per strada, si butta dal balcone, beve d’un fiato, rimuove le cause del decesso, tenta di salvare una vespa accanto al tombino, ne distende il corpo sul bancone del bar, prende un’altra birra, un caffè, una tisana, un piatto freddo, le zampe si piegano e spiegano lentamente, colleziona i tappi delle bottiglie, a migliaia incollati sulla parete, dietro il letto, conduce spedizioni domenicali, da solo, sulla circonvallazione, sedendo sull’autobus, in fondo, osserva, conosce le cose oltre il vetro, ritorna, precipita dal quinto piano, muovendo le dita sul costato, roteando gli occhi e le braccia, sentendo i vuoti intercostali, distoglie lo sguardo dal suolo, dagli insetti, dimentica le persone, osserva gli aerei, centinaia sopra le nuvole, molto dense e nere, a settentrione, al margine dello spazio, è stato più volte nello spazio, una volta su un altro pianeta, ha staccato le stelle dal nero, torna a casa, ritrova le piante sul pianerottolo, dove erano state rubate, le annaffia, nel cuore della notte, gli insetti, vestito da tigre, si spacca un ginocchio, lo batte sul marmo, picchietta la penna sull’unghia, dimentica tutto, non sa non racconta, raccoglie le pigne, le succhia, cade nell’ascensore, Felice Baum –risale –

domenica 14 ottobre 2012

bollettino #67: questo (conta)

– questo senso, in questo senso, e nell'altro, in tutti i sensi, nel senso, del tempo, un controsenso – non c'è la notte, neanche nel buio, neanche di notte – il latrare di cani, ad esempio, i grilli, il silenzio, il peso dell'aria, leggera – qua in alto, in mezzo alle cose, nel traffico, sempre, non resta che il giorno, cha ha da passa', avrebbe, e non passa, la notte che viene, non viene, non scende, non cala, non dorme, non veglia, la notte non prende alla gola, alle membra, non mette paura, terrore, né attesa – spiare gli oggetti, i soprammobili, le piante, il computer, che dormono, tutti che dormono, sognano, fuori dal tempo, il tempo che dorme, ritratto, ritratto nelle cose, che dormono, nel tempo dei lupi, dei cani, di fuori, lontano da casa, vicino, ma fuori di casa – non dorme nessuno, al contrario, le cose, gli oggetti, le piante, il computer, niente che dorme, nessuno, la notte non c'è, pochissima umidità, non si rabbrividisce, domani è già qui, non serve aspettare, spiare, guardare, sperare, cadere, morire, arriva si innesta, nel giorno del prima, e siamo già qui, dove eravamo, nella stessa certezza, dipinta – non c'è, e non c'è – non vado più a capo, l'epoca non lo consente, la virgola basta, o i trattini, i due punti, ma basta con l'a capo, tutto d'un fiato, che il resto non conta, senza spazi o interstizi, e chi ci conta –

sabato 13 ottobre 2012

bollettino #46: nonostante (cambia)

– nonostante, introdotto dal "ma", con la certezza dell'avverbio, in barba alle preposizioni – ogni "a" cela un "per" – a discapito del verbo, che in principio era qualcosa, di grosso, era o almeno, c'era, eravamo – e gozzovigliano a stento, a fatica, con sforzo, dandosi il cambio quando è troppo, tutti insieme all'unisono, senza alternanza, soffiandosi il naso, prescindendo dall'esito della partita, a costo di scottarsi le dita, scorticarsi per applaudire, la portata, pronunciando esametri alessandrini, a casaccio, dal naso, stentando, starnutendo, barcollando, vivendo di stenti, seduti sul seggio, sul trono, sul desco, la pancia a tutto tondo, per la portata dei fatti, riguardo allo stomaco, al ventre, prominente, sporgente, compattato tra i panni, costretto, tenuto da elastici, costipato, a tutto discapito del verbo "liberare", riflessivo, "liberarsi", con valore intrinseco, interiore – escrementizio, "evacuare", in caso di incendio doloso, evacuare gli interni, l'interno, il ministero, il sottosegretario, dall'intestino, de gennaro – ancora un delitto – bambino rapito da scuola, faccia fracassata ad un vecchio, diciannovenne autistico arrestato – ancora un delitto, di polizia, uno al giorno, di che colore, del sangue nell'intestino, fuori dall'intestino, a rivoli, sulla faccia, per san gennaro, di un manganello napoletano, di avellino, ancora le scuse del capo, l'ex capo, non se ne può più delle scuse, gli ex voto – mi scusi, ci scusi, si scusino, grazie – del voto d scambio, il vuoto a rendere – e mangiano ancora, l'8 dicembre, buon compleanno, immacolata, nessuna macchia, non lavare, concezione, questo sangue – oppure il 14 agosto, buon compleanno, quasi ferragosto, quasi assunzione – calabrese – tutti assunti, nessun licenziato, quantunque omicida – comunque ridendo, poliziotti, politici, rischiando l'infarto, poliuretano, in assenza di preposizioni principali, sempre cantando, girando intorno alla cosa, col gerundio, col maltempo, anche controvoglia, per mestiere, con un certo fastidio, per amore di patria, ingrassando con molto dolore, col lucido delle scarpe, un unico lungo discorso, pieno di coordinate, introdotto dal "ma" – rispetto all'avverbio in questione, senza rispetto, il verbo, il verbale, che era in principio, che c'era ora è sempre, e il senso non cambia –

giovedì 11 ottobre 2012

bollettino #21: prepararsi (altro)

prepararsi alla morte del figlio, predisporre tutti i particolari, ordinare abbondanti corone di fiori, collocare la bara in fondo al vialetto, bene in vista, un po' rialzata, dove possa prendere in pieno la luce del sole – il figlio ha fatto il suo tempo, il figlio è passato, nel tempo del tutto per sempre, non c'è più bisogno del figlio, il figlio non serve, è un ingombro, un imbarazzo, un grave imbarazzo, è d'intralcio – accompagnarlo al dunque, tenendolo stretto per mano, affettuosamente, sorridendogli sinceramente, gioiosamente, lodando le doti, facendo le feste, come si conviene, in modo opportuno, non celando il buon umore, chiacchierando anche d'altro, lasciandosi di buon grado distrarre, coinvolgere in altri discorsi, interessandosi a faccende di poco interesse, per conversare con tutti i presenti, in virtù del bel tempo, non curandosi troppo del figlio, ormai grande, anche se dovesse piangere, sorridere allegri, svagarsi, ma non piangerà – giunti sul posto lasciarlo, accanto a tutti quegli altri, i figli degli altri, gli altri figli, quella dozzina di ragazzi e ragazze, abbandonarlo al suo tempo, al suo poco tempo, agli spiccioli di tempo, davanti all'evento, alla fine, al destino, di cui si incarica un militare, in una stanza minuscola, seminterrata, dove viene portato, lui solo, un po' buia, anche se lui non è pronto, non si sente pronto, non ha avuto tempo di pensarlo, di farsi una ragione, pensare un pensiero finale, e questo lo rende triste, in modo infinito, non essere pronto, avere sprecato la sera, precedente, l'ultima di tutte, caduto nel sonno all'improvviso, per la grande stanchezza ordinaria, del giorno, per la fatica del fare, le cose, le solite cose, le cose diverse, tutte le cose, addormentato senza un pensiero, al potere finire, così, l'indomani, un destino, nella piccola stanza, a cui potrebbe sottrarlo soltanto, un tiro di sorte, inatteso, un volto di donna, sortilegio, con voce potente, inattesa, che non riguarda nessun altro

domenica 7 ottobre 2012

bollettino #89: labbra (dire)

– labbra, le labbra, sebbene l’analisi, del sangue, nei dintorni della vena ferita, la ferita che hai inferto, su labbra, che stuzzichi ancora, quel lembo di labbra, di pelle, che stacchi, quel limbo, epitelio, che levi, sollevi, richiudi, rischiacci, avendo al di sotto nascosto, oscurato, negato il foglietto, piegato in quattro con cura, passando le unghie sulla piega, ogni volta, per quattro, riposto, con su scritte le cose, quelle cose, che non si sentivano dire, da un pezzo, nessuno ricorda, per sbaglio – ti guardo l’ascesso, infezione, il rossore, l’aureola giallastra, purulenta, appena un alone che smargina il rosso – ci vado intorno coi denti, ringhiando, sbavando, mordendo, a smembrare l’icona, circolare, frontale, aurorale, a slacciare slacciare il cucito, il nero del filo, cotone, la cerniera alla meglio, fatta in fretta, che tiene chiusi quei lembi, rammendati di fretta, per non farti notare, sperando sparisse alla svelta, alla vista, in quattro e quattr’otto – prima che uno, prima che tutti, o nessuno, prima che prima, che tu, o che io, o che prima ancora comunque, che sparisse ogni traccia, del foglietto sepolto, interrato, nel vivo – che brucia, che espelle, rigetta, si gonfia, di certo, che ustiona, lo leggo con l’occhio del dito, passando il polpastrello sul vetro, gli occhi coperti, di voci, lontane, di vetri, liquidati in un baleno – e i bambini si rincorrono sulle bici, e manca un’ora al tramonto, cadendo sui sassi, strusciando, scrostando, riaprendo la ferita, ridendo, stuzzicando il rammendo, il prurito, l'aperto impossibile, divaricato – finché la mano è in cancrena, sussulta una volta ogni dito, scompare tra i sassi, nel ghiaino, sotto le altalene, dove il bambino si invola, più in alto, più in alto, all’indietro nel tempo, sempre più indietro, finché si ferma, sospeso – il bambino che eri, il volto lo stesso, lo sguardo di lampo, si volta, più in alto, più indietro, si volta a guardarti, ti sfiora – con grande schiaffone, non senti più niente, gli insetti nel braccio – ghiaino, non lo puoi dire –

sabato 6 ottobre 2012

Proclama della vittoria nel parco (I parte-sette ottave)


1.
rimbalza sempre sui piedi
non vede al di là del suo naso
tuttavia ritiene opportuno
dichiarare guerra agli spigoli
bombardare i granelli di polvere
lanciare aeroplanini senza pilota
produrre boati schiacciando
un bicchiere di plastica tra le dita

2.
una pioggia mortale da ogni lato
ma si sfida l’attesa restando
attaccati all’origine allo zampillo
acqua fresca da sotto il marciapiede
pulire gli occhi dalla cenere
ogni volta che non si riesce a vedere
altro che la palazzina e l’esplosivo
in cinque secondi si sbriciola

3.
camminano mano nella mano
lui a testa alta anche se non ci vede
lei molto curva molto china lo guida
avanti e indietro tra platani e siepi
intorno il frastuono degli autobus
ai quattro lati sempre lo stesso
passa una vita
camminano mano nella mano

4.
dentro l’orecchio il labirinto
la cornetta maledette campane
forse l’ultima volta che sento la sua voce
ripiegato a conchiglia sulla panchina
quelle non la smettono di rintoccare
vedo persone sul bordo della strada
schierate fronteggiano ciascuna un animale
tutto è rimandato a domani

5.
guarda quel fiore
sembra la vita
lo ritrai con la punta dell’anulare
sopra il dorso della mano destra
poi entri piano nel lago
cammini fino a sparire nell’acqua
secondo gli ordini del mastino
e tua madre ti tiene per mano

6.
sono stelle a cadere
non missili non incisivi
non desideri
stelle finite lampadine a incandescenza
svitate svuotate
precipitano nel chiarore del neon
propagato dai densi liquami
con cui ci baciano i piedi

7.
in disparte
persevera per propiziare
si tira le guance
con bacchette d’acciaio
senza battere ciglio
scorrono lacrime
rigano guance mentre guarda lontano
e non ha un solo motivo per gridare

venerdì 5 ottobre 2012

piccola intervista sulla poesia

piccola intervista sulla poesia a cura di Sara Monetta
http://gocciamondo.blogspot.it/2012/10/il-mito-della-caverna.html

Conoscete il mito della caverna di Platone? In soldoni racconta di alcuni uomini prigionieri che si trovavano fin dalla nascita in una caverna legati ad un ceppo col viso rivolto alla parete e vedevano riflesse delle ombre. Fuori dalla caverna passavano degli uomini con dei vasi in testa e loro erano convinti che si trattasse di mostri. Che cosa accadrebbe se uno di loro fosse liberato dalle sue catene?

Ho riportato con qualche ritocco questo bellissimo mito per dare una vaga idea dell'immagine che mi si è delineata in mente mentre intervistavo un giovane uomo, Carlo Cuppini, che in cinque minuti di chiacchierata mi pare mi abbia insegnato molto più di quanto non abbiano fatto in cinquanta ore di lezione i professori all'università. Ho sempre pensato ciò che Carlo ha affermato, ma sentirselo dire con tale schiettezza è stata come una doccia fresca in una giornata d'estate. Carlo Cuppini è un poeta, autore di una raccolta intitolata: Militanza del fiore.

Come si evince anche dalla tua opera, a te piace sperimentare e rompere gli schemi. Qual è stata la prima catena che hai spezzato nella tua vita?

giovedì 4 ottobre 2012

bollettino #127: emorragico (niente)


– emorragico, sì – quasi mai, spiacevole, sì – ma conta più il quasi del mai – e dove stiamo, o stanziano (devi dire straziano, stazionano, e dire sparecchia, regìstrati), se resisti in esso c’è, colui il quale, di nuovo, iniettato io stesso, emorragico, a sua volta al capitale, altrui dietro, auscultato, con ali – scrollarsi di dosso il labirinto (dispiacente, sì, spiacente), verboso disponibile assiso sul morto, in tavola, acquattato a spolpare – li sparecchiano sì, in resistenza – sì che stava sparendo gratis, disparato, dis – astro, del ciel, ce l’ho lì, tutto, in gola – in gelo su spore a quintali, di dis (gelo identico al, in corsivo di tra) – di sparo, o spero, a più non posso, né egli può, ematico, d’un io, tutto preso – sì sì reso noto, a un non so, o qualunque altra cosa, al dunque ritorno (di apostrofo, elle apostrofo, po con l’accento) – indistolto, allitteratosi, dissepolto all’osso sacro, al dunque nelle piaghe, col verbare are ere – ire avulso dal dire, in fare, in re, che fare, farsene o farse (le spie luminose, che mi amavano), sì, in resi, stenza, ora in re, sidente si duole, sì, derale, de astro, dis, piacevole, (dispiacevolmente, dissepoltamente), devi dire dis (corso di corso per, un coso di coso di corso), incorso è, fu, ei fui – è stato incorso, incorsato, contro l’oggetto cilindrico, nero, ergonomico, proteiforme i quali, quegli altri, abili arruolati tutt’uno, (tutt’altro, di ali – mai, ali all’oscuro d’informe, mangano, di uniforme), mangiano, manganelli – sì, uniformavi al nome di capo di nome, la rosa di rosa di mano in mano dei venti – di mano, di polìzia – oppure, su come pisciare da in piedi, oppure femmina, di quando in (più agevolmente) quando, d’appoggio di mangano, in fregola, di manganelli – per inciso (su come a un ragazzo, sparecchiatamente garbato, sfondato – neanche fosse un torace – sottilmente), in modo viminale, sul serio, a una ragazza, per cavie da dire, gime, disin – disgorgatevi a stento, voi presi nel vento – o rima! – voi tutti intrapresi – o prestanome! o impresario! – reprimenda in crosta di carta – o promossi! o premiati! – di sottosegretati commissariati graduati, tu hai detto procella, o pecorella! – d’in tra i monti, oppure sbrodola, se colpito alla nuca con tonfo, che senso di colpo, (ahi – difatti di che, fatti, o fatti) non foste per viver, ahi, come semplici, fatti ad esempio, come, mangiare guardare scopare, arrosto, in qualunque altro modo, dei viaggi all’estero per i morti, organizzati, comprare spolpare campare, o d’altri fatti ordinari, che se, in quasi tutti i casi, col mal, di malaccio, nelle mani, non c’è, d’arresto, cardiaco – comunque nel mai – di sicuro di questua, in questura, spiacenti sì, con gli scusi, di molto scuse – promossi, e moltissimi altri, squisiti – colpevoli no, di quesiti, sempre, i fatti tutti, diversamente alibi, e inquisiti – cancellato il finale degli occhi, con ancora in servizio, non somigliamo più a niente –