blog di Carlo Cuppini

blog di Carlo Cuppini



mercoledì 28 dicembre 2011

Sul "poetico" - Primo tentativo di un dialogo d'amore con Foucault


Parliamo, scriviamo, utilizziamo il linguaggio (e quindi, stando a Lacan, ci rapportiamo con l'inconscio e con la realtà) come se non dovessimo morire. Il linguaggio che riceviamo è il linguaggio dell'immortalità. La morte è contemplata solo come eventualità remota, da considerare ottimisticamente come qualcosa che, con la giusta cautela e una dose di fortuna, non ci riguarderà. Questa è l'ideologia che plasma, innanzitutto, il linguaggio che ci è dato, e di conseguenza l'antropologia che ci supporta e ci rende comunità e mondo. Questa è l'origine di ogni mistificazione e di ogni violenza a cui siamo sottoposti. Ed è paradigma dell'asservimento, filosofico prima ancora che fattuale, in cui siamo mantenuti: dove ci pare di poter godere di ogni libertà, mentre ogni libertà ci è negata. Se così non fosse, se il nostro linguaggio avesse notizia del destino di morte, il sistema capitalistico/consumistico perderebbe istantaneamente ogni fondamento e ogni possibilità di perdurare e di consolidarsi e perpetuarsi attraverso i nostri gesti.

Rimettere in questione la nostra volontà di verità; restituire al discorso il suo carattere di evento; togliere infine la sovranità del significante.

Nonostante che le avanguardie storiche siano nate (in Italia con il Futurismo) circa cent'anni fa e che mezzo secolo dopo la Neoavanguardia e altri fenomeni affini abbiano incendiato il linguaggio, riaffermandolo come evento e potenza e liberandolo dall'ambito della proiezione e della rappresentazione dove era relegato, nonostante questo oggi siamo sempre lì: poesia in Italia è ancora sinonimo di "espressione sentimentale". Nel senso comune certamente; ma in larghissima scala anche nell'editoria, nei circuiti librari e perfino nella critica e nel mondo accademico. L'aggettivo "poetico" è usato con le accezioni di "sentimentale, vago, sognante, romantico, delicato, ingenuo, femmineo, nostalgico, spirituale, ispirato". Questi aggettivi sono stati pertinenti alla poesia italiana in una sua fase; la quale, pur essendo stata più breve di quelle che l'hanno preceduta, e più breve anche di quella che la separa dal presente, sembra essersi congelata per riproporsi in eterno come unica possibilità, come fantasma e condanna. Ma dire "poetico" per significare "sognante" equivale a impiegare "pittorico" per intendere "figurativo": si tratta di un'insopportabile leggerezza distruttrice di senso.

Occorre concepire il discorso come una violenza che noi facciamo alle cose; in ogni caso come una pratica che noi imponiamo loro; e proprio in questa pratica gli eventi del discorso trovano il principio della loro regolarità.


la scimmia si masturba forsennatamente     sono un monaco
un piede dentro lo specchio la faccia     dormo sotto il selciato
sfigurata dal recente passato umano     quando sfilano gli elefanti in parata
e dalla conservazione degli scontrini     ricordo l'impronta del destino
sotto la lingua     dei bombardamenti sulle case


E l'istituzione risponde: "Non devi avere timore di cominciare; siamo tutti qui per mostrarti che il discorso è nell'ordine delle leggi; che da tempo si vigila sulla sua apparizione; che un posto gli è stato fatto, che lo onora ma lo disarma; e che, se gli capita di avere un qualche potere, lo detiene in grazia nostra, e nostra soltanto."

E' bene che si sappia che la poesia italiana, in realtà, si è svincolata da tempo dall'idealismo di Croce e Gentile. E se sopravvivono ancora ingiustificate forme di lirismo espressionistico o di crepuscolarismo – se queste accezioni della poesia sono anzi le dominanti oggi in Italia,  per i "non addetti ai lavori", se non addirittura le uniche contemplate – questo dipende dal fatto che gli operatori della cultura continuano a propugnare colpevolmente (per plateale ignoranza o interessata malafede) tale visione distorta e anacronistica: e gli scaffali delle librerie pullulano di cose indubitabilmente morte, prive di qualsivoglia collegamento con il tempo presente, per lo più senza alcun valore nemmeno a livello decorativo o di intrattenimento, che saranno spazzate via dalla storia della cultura in un batter d'occhio (dopo avere svolto il loro ruolo nella catena del "consumo culturale").


La produzione del discorso è insieme controllata, selezionata, organizzata e distribuita tramite un certo numero di procedure che hanno la funzione di scongiurarne i poteri e i pericoli, di padroneggiare l'evento aleatorio, di schivarne la pesante, terribile, materialità.

Si potrebbe parlare all'infinito della poesia contemporanea, cos'è e cosa non è, e sarebbe opportuno farlo, più di quanto oggi non avvenga nelle "nicchie" di riferimento: ma alcuni punti fermi vanno posti senza indugio. La poesia, non è racconto, né descrizione, né denuncia, né, in generale, discorso. La sua differenza dalla prosa, dal discorso colloquiale e dalle dissertazioni specialistiche, non sta nelle particolari proprietà grafiche e musicali del testo, né nell'intenzione di esprimere la soggettività dell'autore in forme inventive.

La verità si è spostata dall'atto ritualizzato, efficace e giusto, d'enunciazione, verso l'enunciato stesso: verso il suo senso, la sua forma, il suo oggetto, il rapporto con la sua referenza.

La poesia è principalmente evento del linguaggio nello spazio della pagina (quando non sia un fatto puramente vocale). La poesia, come scrittura, però esiste e persiste nel tempo, ed è pertanto refrattaria a essere assimilata alla categoria dell'evento impermanente: si potrebbe quindi dire che la poesia è il segno di un evento del linguaggio sulla pagina: testimonianza di un accadimento che ha lasciato sulla pagina tracce visibili, il quale altro non è se non il processo di creazione intercorso; non intendendo con questa espressione la reale modalità di creazione del testo (nella sua verità storica, psicologica e filologica), ma ciò che di immateriale, invisibile e inconservato rimane sospeso sul testo, fondandolo, richiamato continuamente da esso come parte non disponibile ma ugualmente integrante, qualificante e imprescindibile. In questo scambio o negoziato tra ciò che è dato e ciò che non è dato nell'evidenza del testo (scambio che sia attua per tramite del lettore/partecipante all'evento) continua a compiersi e a trovare immanenza il processo grazie al quale il linguaggio si è potuto limitare, ostruire, circoscrivere, selezionare, fino a farsi quella poesia (e la sua sponda non pervenuta ma ugualmente attiva), avendo dato luogo a se stesso come evento.


Ignoriamo in compenso la volontà di verità come prodigioso macchinario destinato a escludere.

Se la poesia è evento reale, l'unico realismo che può contemplare è quello che vede il linguaggio farsi oggetto, ponendosi quindi in continuità assoluta con il reale e rifiutando l'investitura di uno statuto differente; oggetto utile ad iniziarsi alla realtà. Creazione, iniziazione - contro mediazione e rappresentazione. In questo senso, la poesia è il cavallo di troia per accedere alla realtà, e da lì prodursi in una riappropriazione soggettiva dell'estetica: cioè della facoltà di creare e modificare la percezione e la rappresentazione della realtà, secondo criteri e obiettivi individuali, attivi e creativi, non preordinati da strutture di potere e da fattori di manipolazione.


... Procedure interne, perché sono i discorsi stessi che esercitano il loro proprio controllo.

Il fatto che nelle nostre società non siano più rintracciabili forme palesi di censura va inteso come una conquista della libertà e della democrazia o come la vittoria finale della censura? E se la censura operasse oggi dentro il linguaggio (della mente), dentro la possibilità stessa di rappresentazione della realtà, negando la libertà estetica tout court, cancellando cioè la possibilità di una produzione di senso eternamente (e individualmente) rinnovata? Se il passaggio storico dalla censura all'autocensura fosse terminato con l'approdo a un'ulteriore forma di autocensura, interna al linguaggio stesso e non più focalizzata sui contenuti delle singole proposizioni ma sul rapporto tra il linguaggio e i significati? E se così fosse, in che modo andrebbe condotta oggi la battaglia per il progresso della civiltà e per la libertà?


E' come se degli interdetti, degli sbarramenti, delle soglie, dei limiti, fossero stati disposti in modo da padroneggiare, almeno in parte, la grande proliferazione del discorso, in modo da alleggerire la sua ricchezza della parte più dannosa e da organizzare il suo disordine secondo figure che evitano quel che vi è di più incontrollabile.

non ora non qui un po' più in là    al risveglio il letto è scomparso
che premono forte sui confini     sulle pareti è cresciuta una carne
ci estraggono gli organi     rivolta all'interno rosa pulsante
ai maschi alle femmine tagliano il pene     coperta di mucosa irrorata
mi porto il rumore di fondo dell'universo nell'ipod  
suono fossile conchiglia spirale     mi getto sui bordi col cranio
uomo fossile e giaguari ovunque     lecco gli spigoli forsennatamente
con numerosi canini resistenti all'acqua e alla carie     non posso udire il grido dell'uomo uccello
sopra il soffitto il mare     sono solo nella stanza
la conchiglia è l'orecchio     tutto è bianco e ovattato








[In grassetto citazioni da M. Foucault, L'ordine del discorso]

martedì 27 dicembre 2011

"Cinque quadri per Ustica (e una ninnananna)" - Presentazione di Niva Lorenzini

In occasione del Natale l'Associazione Parenti delle Vittime della Strage di Ustica ha dato alle stampe un piccolo libro con il poemetto Cinque quadri per Ustica (e una ninnananna) che ho scritto per il XXXI anniversario della tragedia. Il libretto ha una prefazione di Niva Lorenzini, che ringrazio per avermi invitato a prendere parte alla ricorrenza, e da una nota della Senatrice Daria Bonfietti, presidente dell'Associazione. E' una pubblicazione non commerciale, distribuita gratuitamente a Bologna presso il Museo della Memoria, la Biblioteca Salaborsa e la libreria Coop Ambasciatori. Voglio esprimere un ringraziamento all'Associazione, e in particolare alla presidente, per questa iniziativa che mi onora profondamente, e in un certo mi imbarazza - dello stesso imbarazzo che ho provato il 10 agosto scorso nel leggere il poemetto davanti ai parenti delle vittime; un imbarazzo traducibile in queste domande: che cosa la poesia può dire, attraverso di me, a queste persone che hanno conosciuto tale tragedia? Da dove far giungere una voce sincera, spoglia di ogni artificio e da ogni retorica, scarnificata dalle istanze egoiche di poeta che sarebbero quanto mai fuori luogo? Come far sorgere una parola in grado di sostenere il confronto con una situazione non immaginaria ma reale, che suggerirebbe soltanto silenzio, raccoglimento e preghiera?

Presentazione di Niva Lorenzini
A trentuno anni dalla strage di Ustica il trentunenne Carlo Cuppini, nei Cinque quadri per Ustica (e una ninnananna) che vedono ora la luce, unisce la sua testimonianza a quella dei poeti chiamati quest’anno, la sera del 10 agosto, a dare corpo e voce al ricordo. Provenendo da luoghi e tempi diversi, le parole di Neruda e Alberti, Benn, Montale, Caproni, Ungaretti, Pascoli, Porta, hanno costruito assieme, in quella circostanza, un dialogo più forte del silenzio, dei depistaggi, dell’oblio.
Da altra stagione, immerso nel nostro presente, Cuppini restituisce l’impatto dell’evento tragico in versi dal ritmo segmentato, tra cesure che disarticolano il suono, mentre il tempo, lo spazio, la storia, recipitano, e la sintassi esplode lasciando sulla pagina frammenti di gesti, di oggetti, di sillabe che slittano via inebetite, in catene foniche, in cadenze litanianti (la cosa, la casa, la rosa, la roba, la polpa, la colpa, che cade, non cade…). Tra fragilità e attrito, la parola non perde fermezza, e si dà in situazione: capace, all’occorrenza, di farsi voce della denuncia (“battaglia di mosche nel cielo […] si spacciano per bombe cedimenti”; “dice che si deve chiamare / ogni cosa con il suo nome / i morti morti i vivi vivi / gli assassini per esempio assassini”), o di sciogliersi in levità, in soffio. 
Proprio come capitava all’Antonio Porta dato qui in epigrafe, a suggerire, con la danza di parole ritagliate significativamente dalla raccolta del 1980, Passi passaggi, che la semplice vita continua a darsi, indocile, in un ritmo di rinascita dopo la fine.

Info:
http://www.bibliotecasalaborsa.it/eventi/23018


domenica 25 dicembre 2011

Insoddisfazione

Pare che la crisi abbia fatto crollare i consumi.
Allora come mai guardandomi intorno vedo una folla di persone - ricche o povere, indifferentemente - abbrutite da un osceno e smodato soddisfacimento materiale?

sabato 24 dicembre 2011

Infanzia, merce, Natale

Giorni fa ero nel negozio di giochi e articoli per bambini Imaginarium, cercavo un regalo per la mia nipotina che ha nove mesi. Imaginarium è noto per essere un negozio di qualità: non è il solito tripudio della plastica, si trovano anche materiali più naturali, come la carta e il legno, tematicamente i giochi sono dedicati alla natura e invitano alla conoscenza. Ho girato in cerca dei pezzi sulla cui confezione fosse indicato "9m" o giù di lì. Ho girato a lungo, e via via mi saliva un'inquietudine e mi si annebbiava il cervello: i giocattoli mi apparivano sempre meno rassicuranti, pochissimo innocenti; anzi minacciosi, feroci, ingerenti. Perché?, ho preso a chiedermi, mentre iniziavo a sbandare tra gli scaffali, urtavo pile di libri elettronici facendoli precipitare, irritavo mamme che ostacolavo nelle loro manovre passegginesche e padri intenzionati a fare in fretta. Perché, infine, sono uscito dal negozio a mani vuote e con un incontenibile malessere?

Credo che la spiegazione sia questa: l'imponente sistema industriale e di marketing - in una parola il businnes - che si esprime in quel negozio, mi ha pugnalato alle spalle: cercavo un dono per una bambina che amo, e trovavo solo prodotti che ammiccavano con l'intento fare profitti in larga scala lucrando sui desideri dei bambini. Ma mia nipote ha veramente il bisogno o il desiderio di qualcosa che è offerto in questo negozio?, mi sono domandato. La risposta, incontrovertibile, era no. Nel momento in cui le avessi consegnato il regalo, lei se ne sarebbe appropriata e avrebbe iniziato ad averne bisogno. Ma perché suscitarle dei desideri non sorti da lei stessa? Per il mio desiderio di farle un regalo?
Peraltro, altro fattore di inquietudine, l'immaginario proposto, per quanto diverso da quello mutuato dal cartone animato di turno, mi sembrava sempre di una omologazione insopportabile. E, fondamentalmente, aggressivo e sciocco. Perché dovrei proporre e imporre a mia nipote questo immaginario? Sempre per togliermi lo sfizio di farle un regalo "di qualità"?
Sono scappato quanto ho visto dei bambini in grado di intendere e di volere (soprattutto di volere) che si aggiravano tra gli scomparti trascinando genitori pronti a tutto, indicando i desiderata.
Lì il meccanismo mi si è palesato nella sua brutalità: i bambini, in alcuni casi, sapevano già cosa volevano perché avevano visto la pubblicità, o perché riconoscevano un simbolo o un'immagine nella confezione.
Come può esistere un sistema economico che si rivolge direttamente all'infanzia per fare sì che i bambini convincano i genitori a spendere denaro per loro?
Come può essere ammessa in una società democratica questa forma di violenza e manipolazione?
L'insanabile contraddizione tra Natale e acquisti mi ha sempre lasciato allibito; quest'anno mi ha orripilato, facendomi sentire un alieno.

Ma c'è un altro aspetto: studiando la confezione di un giocattolo per capire le ragioni della mia incapacità di pacificarmi con il luogo e i singoli prodotti, l'occhio mi è caduto sulla scritta "made in China". Dunque, per amore dei nostri bambini avalliamo un sistema di produzione in cui è consentito e largamente attuato lo sfruttamento del lavoro dei bambini?
E' evidentemente che amando i nostri bambini ci prendiamo anche cura del bambino che è in noi. Altrimenti non si spiegherebbe la straordinaria, inattesa e contagiosa voglia di giocare, scherzare, cantare che insorge in noi quanto ci rapportiamo a un bimbo. E che continua anche quando il bimbo si è stufato o si è addormentato da un pezzo. Eppure siamo ben disposti a tollerare (o a fingere di ignorare) la relazione diretta che c'è tra la cura che prestiamo al nostro bambino e la sofferenza e incuria che viene  riservata ad altri bambini.
Nel nostro bambino amiamo il bambino che è in noi; e nel bambino che è in noi amiamo l'idea dell'infanzia. Ma nell'infanzia non riusciamo ad amare gli "altri" bambini, tutti gli altri, per esempio quelli di là dal muro che ci impedisce di sentire, di essere coerenti, e compiutamente umani.

I bambini non sono figli dei loro genitori, sono figli del mondo intero, diceva il vecchio Bakunin. L'adagio è un po' desueto, sì lo ammetto, però mi è tornato in mente, e lo trascrivo.

giovedì 22 dicembre 2011

Poesia - Notizie

La realtà è immemorabile, registriamo notizie da un territorio irriconoscibile, i dispacci non sono archiviabili, fanno la muta tra le nostre mani. Il nostro sudore è una forma di realismo instabile, ogni pretesa documentazione del reale è falsa. Il realismo della creazione contro il realismo della comunicazione. Facciamo resoconti con un linguaggio che si autodisgrega, per scortecciarsi di dosso l'ideologia dominante – linguaggio che non ha espulso dall'orizzonte l'enigma concreto della morte. E i nostri resoconti, esternati, continuano a crescere, a camminarci accanto, come folla di ombre che ci scorta verso destinazione.

domenica 18 dicembre 2011

Dispacci

tonnellate di esplosivo per far saltare
il ponte sullo stretto dei tendini
raid all'ombra del polmone destro
bombardamento del fegato


la città dei nervi è sotto assedio
il pavimento è destinato a crollare
resterà solo una piastrella quadrata 
inscritta nel bagliore


i piedi l'hanno occupata
a questo servono i piedi
composti e assorti come ventose
sognano l'età dei molluschi

giovedì 15 dicembre 2011

andavamo

andavamo di pari passo col nulla
lo stesso identico fluire
né più lenti né più veloci
solo alcuni restavano indietro
o avanzavano troppo in fretta
ma subito venivano falcidiati dalla storia

Stanley Milgram e l'impegno dell'arte - Contro il realismo della stanza accanto


Mezzo secolo fa si svolgeva negli USA l’“esperimento Milgram”, destinato a dare una spiegazione poco rassicurante dei crimini nazisti e a cambiare radicalmente i presupposti dell’etica. Oggi lo studio ci parla ancora di noi e dei rapporti sfumati tra arte, impegno, violenza e linguaggio.

Nel 1961 lo psicologo statunitense Stanley Milgram, allora ventottenne, condusse un esperimento di psicologia sociale destinato a gettare una nuova, inquietante luce sui presupposti dell’etica e del comportamento umano. Il dispositivo di ricerca era semplice: le “cavie” (ignare del funzionamento e degli scopi reali dell’esperimento) erano incaricate da un finto scienziato di infliggere scariche elettriche ad altre cavie (finte), immobilizzate, ogni volta che queste fornivano una risposta sbagliata ai quiz a cui venivano sottoposte. A ogni errore la scarica elettrica era più elevata, fino ad arrivare al quinto livello definito “attenzione: scossa molto pericolosa”. 
L’esperimento mostrò statisticamente che persone normali, selezionate a caso, sono pronte a infliggere alti livelli di sofferenza ad altri esseri umani anche in totale assenza di motivazioni: il 40% dei partecipanti si spinse fino al quarto livello (“scossa molto intensa”), prima di protestare e ritirarsi; il 30% continuò fino al livello più alto (450 V), che portava le (finte) vittime a una simulata perdita di conoscenza, dopo grida di dolore, suppliche e convulsioni. Naturalmente gli “addetti al pulsante” non sapevano di essere il vero oggetto di studio, né che non esisteva alcuna scarica elettrica. 
L’esperimento poi si articolava ulteriormente indagando le variazioni di comportamento a seconda di diverse configurazioni spaziali. Erano previste delle sessioni in cui “torturatori” e “torturati” erano posti molto vicini, quasi a distanza di contatto; altre in cui si frapponeva una maggiore distanza, ma all’interno della stessa stanza; poi il “torturatore” veniva portato in uno spazio contiguo da cui poteva vedere, attraverso un vetro, ma non sentire le reazioni del “torturato”; infine si dava la condizione dell’isolamento fisico tra i due soggetti. A ogni passaggio di distanziazione i partecipanti erano disposti a spingersi un po’ più in là nell’infliggere dolore (e quindi nell’obbedienza al compito ricevuto), fino alle estreme conseguenze. Eppure il grado di informazione era sempre lo stesso: nessuno poteva dire di non sapere, o di non avere capito ciò che stava compiendo.
L’esperimento nasceva sulla scia dello sgomento per le atrocità compiute dai nazisti (Milgram trasse ispirazione dal processo a Eichman che si stava svolgendo in quel periodo a Gerusalemme; lo stesso evento che influenzò Anna Harendt nella stesura di La banalità del male); ma finì per rivelare che chiunque è potenzialmente pronto a ricoprire un analogo ruolo di carnefice, se indotto dalle circostanze. Per di più, i partecipanti all’esperimento non traevano alcun vantaggio dal proprio operato, non odiavano (né conoscevano) le proprie vittime, non avevano un obiettivo, per quanto folle o irrazionale: si comportavano come criminali senza alcun movente; semplicemente si attenevano a quanto richiesto da una figura (il finto scienziato) che si presentava come garante dell’utilità, della legalità e della normalità della situazione.
L’esperimento creò sconcerto. In seguito venne ripetuto e riformulato più volte, anche da altri ricercatori, con la comprensibile aspettativa di vedere smentiti i risultati. Un’ultima versione risale al 2009, attualizzata in relazione al fenomeno dilagante dei reality shows. I risultati di Milgram sono stati sempre confermati.

Perché riparlare di Milgram oggi, a 50 anni dal primo esperimento? Perché parlarne dal punto di vista della letteratura e dell’arte e, in definitiva, del linguaggio? Del suo potere e delle sue insidie?

Il Nobel per la Pace agli Zingari

Gli Zingari sono l'unico popolo che non ha mai fatto una guerra, dice Moni Ovadia. Lo trovo un modo bellissimo modo di vedere la questione. E mi fa venire un'idea: lanciamo la proposta del Nobel per la Pace al Popolo Zingaro.

Follia di razza

Sulla "follia" della tragedia di Firenze ho sentito due analisi interessanti, solo apparentemente opposte.
Primo. Adriano Sofri, su Repubblica del 14/12. Accomunando l'assassino pistoiese a Breivik, sostiene che la dichiarazione di "pazzia" del norvegese rivela una patente ovvietà: in che senso dovrebbe essere "normale" uno che si arma come Rambo e va in giro ad ammazzare persone? Lo stesso vale per l'italiano. Dunque, certo si tratta di due folli. Ma se questa constatazione diventa un'esimente, utile a sollevare la giustizia dalla responsabilità di fare giustizia, allora non ci siamo.
Secondo. Psicoradio, trasmissione gestita da persone con problematiche psichiche su Radio Città del Capo, il 15/12. Uno speaker si dichiara offeso per la definizione di questi assassini come "folli". Cito a memoria le sue parole: "Quelli non sono folli. Ci si dimentica che i folli esistono davvero. Noi, qui, siamo pazzi, matti, folli, psicopatici. Ma non per questo andiamo in giro ad ammazzare la gente".
Se queste persone hanno fatto ciò che hanno fatto, certamente avevano dei problemi psichici; ma ci si dimentica di aggiungere che ben più significativo è il fatto che se hanno fatto ciò che hanno fatto è perché avevano delle idee.
A ben guardare "folle" è una parola senza alcun significato, se non quello di "diverso": serve solo a esorcizzare e ad allontanare. Se certe cose le fanno i "folli", io, che ovviamente sono normale – anzi normalissimo –, certo non le farò mai; e quindi non ho niente da mettere in discussione di ciò che sono, che penso, che sostengo e che faccio.
Così nessuno ha colpa. Neanche l'autore del gesto. (Va be', pazienza. Se questo è il prezzo perché anche nessun altro abbia colpa, vale la pena). Neanche un Ministro della Repubblica che inciti a prendere i fucili, ad affondare le bagnarole dei migranti, a gettarli in mare, a castrarli. Neanche chi, legiferando, fa della clandestinità un reato penale. Neanche chi consente che vengano detenuti in luoghi oscuri, inaccessibili a ogni genere di controllo, per mesi e mesi, senza che abbiano commesso alcun reato.

mercoledì 14 dicembre 2011

Per la gloria

Si spara con calma per la strada
si evadono le tasse con precisione
per la salute della razza italiana
per la virtù della razza italiana.

Si danno alle fiamme campi nomadi

si rigettano i profughi nel mare
nel Paradiso Delle Libertà nostrane
splende il buio del sole padano.

Si imbraccia il crocifisso sulla spalla

si versa a fiumi sangue di maiale
se non basta si passi pure a quello umano
per la gloria della razza italiana.


          per Samb Modou, quarant'anni anni
          per Diop Mor, cinquantaquattro anni

lunedì 12 dicembre 2011

Venerdì 16 - presentazione "Militanza del fiore" - Dea Firenze




Nel corso della serata poetica condotta da Edoardo Olmi al centro culturale DEA a Firenze, ci sarà spazio per una presentazione di Militanza del fiore, curata dallo stesso Edoardo insieme al sottoscritto.

Ecco il programma della serata: 

- 21:00: inaugurazione mostra del Movimento per l’Emancipazione della Poesia (MeP), realtà dell’underground fiorentino  rinomata per i suoi attacchinaggi clandestini, creativi e destabilizzanti.
- a seguire; presentazione di Militanza del fiore, "la prima raccolta di poesie di Carlo Cuppini, giovane poeta urbinate trapiantato a Firenze, una delle voci indipendenti più interessanti del panorama poetico esordiente. Libro la cui prefazione porta la firma di un certo sig. Adriano Sofri." (parola di Edoardo Olmi...)
- 21:45: Edoardo Olmi parla del uso libro di poesie Il porcospino in pegaso con Silvana Grippi (DEApress) e con Hasan Atiya Al Nassar, poeta iracheno esule in Italia dal 1981, considerato fra i massimi poeti d’esilio viventi.
- 22:30 circa: Collettivomensa, ovvero la crème dell’underground fiorentino, delizierò con letture e riviste per grandi e piccini nel massimo spirito natalizio (!)

Durante tutta la serata: vino e mangime con un piccolo contributo spese a sostegno di DEA. E poi musica tra il jazz e il post-persiano.


ASSOCIAZIONE CULTURALE DEA Via Borgo Pinti 42/r 50122 Firenze - 055/2342238

mercoledì 7 dicembre 2011

Intervista su "Militanza del fiore" su VoiceOver

Intervista di Gianfranco Marcucci al sottoscritto sul libro Militanza del fiore, sul numero di dicembre di VoiceOver.
Cliccando qui si può sfogliare il magazine online. L'intervista è a p. 15.
Oppure clicca sull'immagine qui sotto per ingrandirla.


martedì 6 dicembre 2011

La Sup-Posta del dr. Suppinski n.2

Seconda puntata de "La Sup-Posta del dr. Suppinski" su VoiceOver di dicembre.
Clicca sull'immagine per ingrandire.
O clicca qui per sfogliare il magazine online con migliore visualizzazione. La supposta è a p. 24.



giovedì 24 novembre 2011

Politica


Domani ce lo diranno
dove dobbiamo andare…
F. De Gregori

  
non guardarmi negli occhi
non ho occhi ma cavi - elettrici
fili mozzati in direzione 
del prossimo
mio come me stesso
verso te

non posso mostrarti la strada
di casa ma posso
darti la mano
se fuori
fa freddo
se è proprio lì che dobbiamo andare

insieme conosciamo l'inciampo
ci ascriviamo al selciato
ho bruciato il soffritto
non me la faranno passare
mi cavano già gli occhi col cucchiaio

ti amo



mercoledì 23 novembre 2011

Relativismo estetico

da dedicare ad libitum

il brutto
quando è brutto brutto
diventa bello


il bello 
quando è bello bello
diventa brutto


tu non sei bello
sei brutto
sei brutto brutto
però non sei bello:
fai schifo


Poesia estemporanea nata durante l'incontro sul tema "Pubblico" del ciclo "Pensare spazi contemporanei", curato da Marco Brizzi, al SUC delle Murate il 23/11/11

mercoledì 16 novembre 2011

Mani colino


il corpo del cetaceo è stato minato
non lo si può rimuovere potrebbe scoppiare
sul suo dorso gigante banchetti coi pargoli
per tre generazioni


sotto l’orma del buio rinvenuto
un baratro di luce e nient’altro –
poi il semaforo verde l’edificio –
infine l’ora legale


le mani bucate dal filo spinato
colino adatto a ricordare
trattenere
lasciare andare

lunedì 7 novembre 2011

La SupPosta del Dr. Suppinski


Clicca sull'immagine per ingrandire

La SupPosta del Dr. Suppinski esce sul magazine gratuito "VoiceOver".
http://www.voiceovernetwork.it
(Grazie agli amici Frizer e Emiliano!)

sabato 5 novembre 2011

Segway...


Vanno su due ruote, ma non sono ciclisti. Una pedanina su cui star ritti in piedi, due ruotoni da camion, al centro un gambo manovratore. Li incontri nel centro di Firenze, dove pure non è brutto passeggiare. Sono per lo più turisti, ti guardano dall’alto in basso con aria soddisfatta, a volte guidando emettono schiamazzi. Si sentono originaloni, se è lecito interpretare le loro espressioni. L’oggetto, di origine straniera, si chiama “segway”. In italiano è tradotto “segovìa”, o, più semplicemente, “sega”. Gli utenti si chiamano “segwayer”, che in italiano diventa “segoni” o “segaioli”. Nelle istruzioni pare non sia scritto, ma questo mezzo porta sfiga: il proprietario dell’azienda produttrice è morto investito da un aereo, in fase di atterraggio d’emergenza, proprio mentre guidava la segovìa dietro casa. L’altro ieri ne ho visto uno davanti al Duomo: il tizio gridava in un mezzo giappo-inglese: “Non frena!”. Sgommava sempre più veloce tra i turisti, finché non si è schiantato sulla Porta del Paradiso, opera mirabile del Ghiberti, al Battistero.



Pubblicato su "Cultura Commestibile" n.40, con "Il Nuovo Corriere", edizioni toscane, 5-11-11

martedì 1 novembre 2011

Scrivere, sì

Scrivere, sì, è immergersi nel fiume del linguaggio e risalirlo controcorrente. Non per raggiungere la fonte (la fonte del fiume sta nel cielo, e la fonte della pioggia è il mare – non esiste fonte se non sognata dal desiderio di dissetarsi), ma perché questo è il solo modo che abbiamo per andare in salita, andare con intenzione percependo l'esistenza come attrito, sforzo e potenza. E se un senso di umanità esiste – come traccia di quell'anima che ci appare irrintracciabile nell'esilio – di certo essa si trova là, lungo la salita. Se un futuro esiste, ebbene esso si trova certamente a monte e non a valle: non verrà da solo ineluttabilmente, ma verrà soltanto a seconda del nostro opporci alla corrente.

Controcorrente. E bisogna assumersi il rischio dell'insensato, del vaniloquio, della perdita della conforto emotivo e dell'espressione sentimentale, della rinuncia al "poetico" insomma. Sapendo però che nel contravvenire a quella che ci è presentata come legge naturale del linguaggio, potremmo ritrovare qualcosa di quanto scomparso da tempo – la realtà, il desiderio e l'efficacia – riconoscendo il nostro volto nei frammenti scampati. E insieme, ritrovando la voce dei morti lungo i muri, e la promessa delle vite a venire contro i vetri.

Scrivere per dismettere il "realismo di stato" che ci è imposto unilateralmente come unica percezione del mondo possibile, e che invece non è altro che sentimentalismo pilotato attraverso un linguaggio mistificato – quindi scollamento dal reale: follia. Ma senza smettere di credere nel miracoloso, nell'emancipazione, e nella possibilità e necessità dell'impossibile. Facendo concretamente "estetica": cioè filosofia del vedere, del percepire, del conoscere, del posizionarsi tra le cose. Reinventare i fondamentali del mondo (della sua rappresentazione linguistica): ognuno di noi è chiamato a farlo, a suo modo, ogni volta. Creativamente e senza manuali di istruzioni o procedure semplificate. Altroché obbedire.

Non abbiamo altro mezzo che il linguaggio; altro spazio che il linguaggio; altro luogo che il linguaggio; altro destino che il linguaggio. Ce lo dobbiamo fare bastare. E dobbiamo riuscire.

Si scrive per la gioia e per l'aurora. Nient'altro. Anche mentre tutto capitola. Anche mentre, incatenati al fallimento, ci si lancia follemente in corsa in avanti nel buio.

lunedì 31 ottobre 2011

Per Martina

A volte si salta da una cosa all'altra distraendosi continuamente, perché niente sembra abbastanza interessante per soffermarcisi sopra. Martina salta continuamente da una cosa all'altra, considerando tutto ciò che la circonda, perché tutto per lei è troppo interessante. E ogni cosa su cui posa lo sguardo sembra essere più interessante di tutte le precedenti messe insieme. E così un attimo dopo, e quello dopo ancora. Per questo, credo, Martina, nella sua fluttuante attenzione che non assomiglia alla distrazione, appare così seria e intenta. E sorride moltissimo. Il futuro abita in lei. Come una nidiata di gattini nel tronco cavo di un albero sacro.

sabato 29 ottobre 2011

Per Agatino Filia – e gli altri 56

come è dolce il canto degli uccelli
anche dal fondo di una cella
mi prende mi porta a vette
ineguagliate
poi smette
mi sf
rac
el
l
o

sabato 22 ottobre 2011

Semi ottica del tunnel delle Bagnese

Se nel tunnel della Gelmini corrono i neutrini, in quello delle Bagnese scorrazzano ben altri animali. E ’sta volta è toccato a me andare più veloce della luce: non per farmi lustro di sconvolgenti scoperte, ma per salvarmi la pelle. Avevo scavalcato le transenne per indagare sui motivi dell’epocale ritardo nella chiusura del cantiere. Avanzavo nel buio puntando davanti a me la luce fioca del cellulare, quando l’eco di un grugnito mi ha fermato; un’alitata umidiccia mi ha inquietato; la carica di quattro bestioni mi ha messo in fuga. Sbucato sano e salvo alla luce del sole, con le braghe piene di puzzolente spavento, sono andato a chiedere lumi al vicino benzinaio. “O che se’ grullo? Un l’è mi’a pe’ l’automobili, i’tunne: l’è fatto per far correre cignali!”. Un vecchio professore del Galluzzo che passava il pomeriggio ad aspirare i vapori della pompa si è inserito: “Bischerate: il tunnel qui c’è sempre stato, ora l’hanno solo ritirato fuori. Dentro ci stanno divinità etrusche in forma di animali. Si dice che se l’attraversi senza farti infilzare, sbuchi fuori in un mondo migliore”. Tornando a casa ripensavo alla orbite matte di quel vecchio invasato. E ho deciso di dargli retta, e tentare: stanotte torno là, mi lancio attraverso il tunnel, e se la scampo forse sbuco in un mondo senza intrighi pubblici, né cantieri infiniti, né prese per i fondelli di ogni specie. E senza Gelmini.


(Su "Cultura Commestibile" n.38, con "Il Nuovo Corriere", edizioni toscane, 22-10-11)

venerdì 21 ottobre 2011

Omaggio a Mandel'stam 1891-1938

ci tagliano lembi di pelle sul torace
due strisce a forma di bretelle come fanno ai Ceceni
estraggono tasselli di carne per infilarci fagioli
scrivono editti di morte intrecciando i capelli di lei

nel vuoto il silenzio la stanza la salma dell’ornitorinco
il mostro conta i minuti inchiodato a bracci d’attesa
gli ficcano voci lusinghe minacce dentro orecchie pelose
puntellato agli antipodi sembra resistere e per un istante
     ricordare il nome

col mitra si fanno buchi perfetti nel groviera
a riempirli di sangue ci ha già pensato il poeta
che andava per tutta la Russia a gridare io sono il poeta
e la neve continuava a cadere su ciò che non c’era




Pubblicata su
Nazione Indiana
Poetarum Silva



giovedì 13 ottobre 2011

4 pensieri sulla poesia (e l'arte)

La poesia non asseconda l'impulso interiore, lo contrasta. Cerca intenzionalmente (ma anche con un "secondo" abbandono: una lascivia "innaturale") le discontinuità all'interno dell'impulso, per sterzare improvvisamente e spiazzare gli esiti prefigurati. In questo la poesia frustra le pretese, le aspettative, le esigenze dell'io sentimentale. Ma non esprimendo, attua, e attuando potenzia. Aumenta le possibilità. Rende più potente la vita che le si aggira intorno; quella di chi le si aggira intorno. Molto prima della avanguardie, lo diceva anche Leopardi. E Spinoza. E Bruno.

Calarsi nel corpo della poesia è iniziarsi alla realtà. Pur nel lavorio innaturale della voce, c'è un elemento iniziale, aurorale che resta fondamentale. La poesia è un'auroreggiare continuo, o non è; è un'aurora boreale, epocale, personale, civile.

La poesia, bonificata dall'ego-massage, è sfondamento di un muro nel tentativo di riappropriarsi di ciò che ci è stato negato, da cui siamo stati estromessi, e che però rimane la cosa più appagante che ci possa capitare di esperire: la realtà. E, con essa, la storia.

Militanza non significa altro che: volere intensamente il bene; credere che con il proprio agire si possa perseguire (e non solo enunciare) un bene; che lo si possa in qualche modo, concretamente, aumentare. In questo senso la militanza non è legata ai contenuti della politica o del sociale. Tutto può essere militante. Di certo può esserlo la poesia.

Libia 1984

E' un momento storico interessante, bisogna prestare attenzione: sta avvenendo sotto i nostri occhi, in tempo reale, la trasformazione degli "amici" in "nemici". Non mi riferisco a Facebook, sto parlando della Libia, ma è come se parlassi di 1984 di George Orwell.
Gli eroici e buoni "ribelli" che abbiamo appoggiato con raid aerei e forniture di armi stanno cominciano a diventare "estremisti" e perfino, in certi casi, "terroristi". Si comincia a parlare degli abusi e delle torture verso gli "altri" africani presenti in Libia, civili inermi, perché a dire dei "ribelli" sarebbero arrivati in Libia per volontà di Gheddafi. E quindi meritano di essere violentati e bastonati e eventualmente ammazzati. Si comincia a parlare di bombe nelle moschee, repressione della minoranza Sufi, torture, rappresaglie e uccisioni arbitrarie dei soldati dell'esercito libico regolare imprigionati.

Improvvisamente i media nostrani, in sintonia con i politici nostrani, cominciano a incrinare l'immagine pura e romantica dei "ribelli", e nel giro di pochi giorni già ci viene già da guardare con diffidenza a questa banda di "arabi", "tribali", "islamisti", "fondamentalisti","terroristi".
Ma saranno davvero gli stessi di qualche mese fa? O sono stati sostituiti nottetempo dagli alieni? O forse sono stati mutati geneticamente per un'esperimento della CIA?

E perché adesso è necessaria la trasformazione degli "amici" in "nemici"? A quale esigenza geopolitica corrisponde questa operazione mediatica? O non sarà forse che qualcuno è stato troppo frettolosamente dichiarato "amico", mesi fa, pur di avere il pretesto di mettere a ferro e fuoco e colonizzare un paese succulento? Se di guerra civile si è trattato, e si tratta, come abbiamo fatto a decidere tanto in fretta chi erano i "buoni" da difendere e chi i "cattivi" da massacrare? L'appoggio a Gheddafi è stato il discrimine? Quanti "cattivi" abbiamo ammazzato? Quanti "cattivi" stanno ammazzando i nostri "amici"? Un libico che sostiene Gheddafi, è necessariamente "cattivo"? E' necessariamente un "miliziano" o un "soldato"? Il fatto che un torturato apprezzi sostenga Gheddafi costituisce un'esimente o un'attenuante per il torturatore?

In 1984 le tre megapotenze cambiano a turno ruoli e relazioni: l'amicizia e l'inimicizia reciproche si invertono, ribaltando continuamente il fronte e la direzione delle armi. Ma subito la storia passata viene riscritta, si cancella ogni documento che testimonia del precedente assetto, perché tutti sappiano e pensino che il nemico è sempre stato quello, e l'amico sempre quell'altro. Questo grande gioco permette ai potenti di mantenere il potere e di mantenere le persone sotto un'invisibile dittatura dell'irreale, deportando le coscienze di tutti in un piano puramente immaginario e arbitrario, indefinitamente manipolabile.

Se la Libia diventa come l'Iraq, questa sarà la - ennesima - dimostrazione che stiamo soltanto sognando di vivere dentro il romanzo di Orwell. Perché, semplicemente, questo manipolazione criminale che consente di uccidere centinaia di migliaia di persone, con buona pace di tutti (gli altri), non può essere la realtà. Quella in cui nasciamo, quella a cui doniamo la nostra energia migliore, quella in cui moriremo, quella che ci chiederà conto delle nostre azioni, scelte, omissioni.

La sibilla padana

"Duriamo, ma non so quanto"
"Governo fino al 2013? Mi sembra troppo lontano"
"Crolla tutto? Per adesso no"
"Prevedo che domani sera il Governo ci sarà ancora"
"Governo? Può succedere qualunque cosa"

Da quando ha sciaguratamente perso l'uso del linguaggio e del  raziocinio, Bossi è stato assurto dai giornalisti italiani a oracolo nazionale. Il leader della Lega Nord viene interrogato non tanto per conoscere le posizioni del suo partito, quanto per ottenere vaticini, che risultano per lo più oscuri vaghi e poetici, talvolta enigmatici e indecifrabili - come da tradizione aruspicina. In ogni caso la dichiarazioni sono piene di quella poesia che manca tanto al volgare scenario politico nazionale. E questo ci conforta e nutre il nostro spirito.

"Se l'Italia va giù / la Padania va su"
Un mirabile doppio settenario.

Bondi al confronto, con le sue rime approssimate e i suoi metri zoppicanti, sprofonda nell'anonimato.
"Federalismo o brutta morte": in questo lapidario novenario l'ancoraggio della declamazione civile alla lamentazione esistenzialistica è irresistibilmente convincente.

"Prevedo uno scontro rivoluzionario"
E' il vate civile e misterico, che ogni tanto emerge nella storia con esiti alterni – da Rimbaud a D'Annunzio, da Jim Morrison a Pasolini –, che torna a incarnarsi nel nostro Umberto.

Presso la Mondadori è già in preparazione un Meridiano intitolato Previsioni, oracoli e poesie della sibilla padana, che uscirà subito dopo la sua morte. Sulla quale, stranamente, non sembra ancora avere avuto premonizioni.

sabato 8 ottobre 2011

Denaro e Bellezza – e singhiozzo

Teschio, morte, diamanti e denaro – hirst! – Denaro e Bellezza, sì!, elogio dei miliardi sonanti, encomio dei mercati fiorenti, fiorentini, sì!, pìttici e medicei, perché il lusso è un diritto, e i diritti son per pochi, e i pochi comandano, e comandare è un diritto, è sillogico, sì!, illogico, e dopo l’ostensione in Palazzo Vecchio del teschio tempestato di diamienti – hirst! – a Firenze non cessano di mescolarsi sterco di diavolo e pulcritudo – hirst! –, Denaro e Bellezza, Bellezza e Denaro, Bellezza è Denaro e Denaro è Bellezza! – hirst! – e allora ecco in bella mostra a Palazzo Strozzi il ritratto di Francesco Datini, genio pratese che inventò la Cambiale – hirst! – proprio adesso che la finanza s’è rivelata per quel che è: un passatempo criminale – hirst! – e intanto qua si va a picco – come la Grecia! come la Grecia! si dice – hirst! e insomma in Grecia che diavolo accade? che un tizio si dà fuoco per via del mutuo, ci hanno mostrato i fotogrammi, ravvicinati, immagini nitide, belle, cinematografiche – hirst! – per carità, Denaro è Bellezza – hirst! hirst! – anche quando è Denaro che manca, e mancando uccide, manca al poveraccio, non manca affatto, in realtà, al sicuro in cassaforte – hirst! – appena qualche metro più in là – hirst! – così anche le foto dell’uomo combusto potranno diventare artehirst! – a prova di cattivo gusto – hirst! –, semiotichiàmoci un po’ su, dài, non ricorda Persona di Bergman o il finale di un film di Tarkovskij, con il megafono in una mano e la tanica nell’altra, questo povero diavolo in fiamme di cui non sappiamo neanche il nome?! – hirst! –, e non ricorda forse anche Jan Palach e pure il tunisino Bou’azizi, seme di primavera tostato?!, sì!, perché non fare una mostra intitolata “Fili da Torce-re. Crisi, Sacrifici Umani e Bellezza” – hirst! hirst! – che qua noi si va davvero a picco, a picco-li passi nel baratro, nelle fauci di creditori esattori strozzini, e questa strozzi-mostra – hirst! – dal sapore vagamente fuori luogo ce la saremmo anche risparmiata, in questo momento, visti i chiari di luna, però ci andiamo lo stesso al vernissage, giusto per fare un assage – di tramezzini – e ne mangiamo anche troppi, ché lo stomaco è vuoto da troppo – hirst! – tempo, e così ci è venuto il singhiozzo – hirst! – e il conto corrente è sempre più vuoto, e il salvadanaio non ha salvato il danaio – hirst! – e lo stomaco è già vuoto di nuovo, e il mutuo invece è sempre lì, e insomma siamo rimasti col cerino in mano, e ci sforziamo di tenerlo lontano dalla tanica, ché anche il litro di benzina che servirebbe a incendiarsi costa troppo – hirst! – 1 euro e 70 al litro con l’aumento dell’IVA – hirst! hirst! – e stiamo cercando di imparare a campare senza bisogno di Denaro, facendo di necessità virtù – ma alla Bellezza no, a quella non rinunciamo (e il singhiozzo, lo vedi, alla fine è passato).




Pubblicato in "Cultura Commestibile" n.36, con "Il Nuovo Corriere di Firenze" dell'8/10/11
(Per leggere le precedenti "semi ottiche" clicca su "articoli" nella finestra "sezioni" a destra)

venerdì 7 ottobre 2011

Aspiro

dopo una poesia di Novella Torre 
(per via di una svista, come si conviene)

aspiro la polvere
lavo le stoviglie
asciugotutto
disgorgo


non è vero niente
la casa è un disastro
percorsa da correnti
le stanze in balia dei venti


la casa è sana e salva
abitata da rettili
felini nascosti tra i giunchi
non mangio più i mammiferi


intendo essere mangiato
dalle bocche dell'edera in corridoio 
dichiaro che aspiro – non polvere
aspiro – fermamente a