blog di Carlo Cuppini

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giovedì 24 novembre 2011

Politica


Domani ce lo diranno
dove dobbiamo andare…
F. De Gregori

  
non guardarmi negli occhi
non ho occhi ma cavi - elettrici
fili mozzati in direzione 
del prossimo
mio come me stesso
verso te

non posso mostrarti la strada
di casa ma posso
darti la mano
se fuori
fa freddo
se è proprio lì che dobbiamo andare

insieme conosciamo l'inciampo
ci ascriviamo al selciato
ho bruciato il soffritto
non me la faranno passare
mi cavano già gli occhi col cucchiaio

ti amo



mercoledì 23 novembre 2011

Relativismo estetico

da dedicare ad libitum

il brutto
quando è brutto brutto
diventa bello


il bello 
quando è bello bello
diventa brutto


tu non sei bello
sei brutto
sei brutto brutto
però non sei bello:
fai schifo


Poesia estemporanea nata durante l'incontro sul tema "Pubblico" del ciclo "Pensare spazi contemporanei", curato da Marco Brizzi, al SUC delle Murate il 23/11/11

mercoledì 16 novembre 2011

Mani colino


il corpo del cetaceo è stato minato
non lo si può rimuovere potrebbe scoppiare
sul suo dorso gigante banchetti coi pargoli
per tre generazioni


sotto l’orma del buio rinvenuto
un baratro di luce e nient’altro –
poi il semaforo verde l’edificio –
infine l’ora legale


le mani bucate dal filo spinato
colino adatto a ricordare
trattenere
lasciare andare

lunedì 7 novembre 2011

La SupPosta del Dr. Suppinski


Clicca sull'immagine per ingrandire

La SupPosta del Dr. Suppinski esce sul magazine gratuito "VoiceOver".
http://www.voiceovernetwork.it
(Grazie agli amici Frizer e Emiliano!)

sabato 5 novembre 2011

Segway...


Vanno su due ruote, ma non sono ciclisti. Una pedanina su cui star ritti in piedi, due ruotoni da camion, al centro un gambo manovratore. Li incontri nel centro di Firenze, dove pure non è brutto passeggiare. Sono per lo più turisti, ti guardano dall’alto in basso con aria soddisfatta, a volte guidando emettono schiamazzi. Si sentono originaloni, se è lecito interpretare le loro espressioni. L’oggetto, di origine straniera, si chiama “segway”. In italiano è tradotto “segovìa”, o, più semplicemente, “sega”. Gli utenti si chiamano “segwayer”, che in italiano diventa “segoni” o “segaioli”. Nelle istruzioni pare non sia scritto, ma questo mezzo porta sfiga: il proprietario dell’azienda produttrice è morto investito da un aereo, in fase di atterraggio d’emergenza, proprio mentre guidava la segovìa dietro casa. L’altro ieri ne ho visto uno davanti al Duomo: il tizio gridava in un mezzo giappo-inglese: “Non frena!”. Sgommava sempre più veloce tra i turisti, finché non si è schiantato sulla Porta del Paradiso, opera mirabile del Ghiberti, al Battistero.



Pubblicato su "Cultura Commestibile" n.40, con "Il Nuovo Corriere", edizioni toscane, 5-11-11

martedì 1 novembre 2011

Scrivere, sì

Scrivere, sì, è immergersi nel fiume del linguaggio e risalirlo controcorrente. Non per raggiungere la fonte (la fonte del fiume sta nel cielo, e la fonte della pioggia è il mare – non esiste fonte se non sognata dal desiderio di dissetarsi), ma perché questo è il solo modo che abbiamo per andare in salita, andare con intenzione percependo l'esistenza come attrito, sforzo e potenza. E se un senso di umanità esiste – come traccia di quell'anima che ci appare irrintracciabile nell'esilio – di certo essa si trova là, lungo la salita. Se un futuro esiste, ebbene esso si trova certamente a monte e non a valle: non verrà da solo ineluttabilmente, ma verrà soltanto a seconda del nostro opporci alla corrente.

Controcorrente. E bisogna assumersi il rischio dell'insensato, del vaniloquio, della perdita della conforto emotivo e dell'espressione sentimentale, della rinuncia al "poetico" insomma. Sapendo però che nel contravvenire a quella che ci è presentata come legge naturale del linguaggio, potremmo ritrovare qualcosa di quanto scomparso da tempo – la realtà, il desiderio e l'efficacia – riconoscendo il nostro volto nei frammenti scampati. E insieme, ritrovando la voce dei morti lungo i muri, e la promessa delle vite a venire contro i vetri.

Scrivere per dismettere il "realismo di stato" che ci è imposto unilateralmente come unica percezione del mondo possibile, e che invece non è altro che sentimentalismo pilotato attraverso un linguaggio mistificato – quindi scollamento dal reale: follia. Ma senza smettere di credere nel miracoloso, nell'emancipazione, e nella possibilità e necessità dell'impossibile. Facendo concretamente "estetica": cioè filosofia del vedere, del percepire, del conoscere, del posizionarsi tra le cose. Reinventare i fondamentali del mondo (della sua rappresentazione linguistica): ognuno di noi è chiamato a farlo, a suo modo, ogni volta. Creativamente e senza manuali di istruzioni o procedure semplificate. Altroché obbedire.

Non abbiamo altro mezzo che il linguaggio; altro spazio che il linguaggio; altro luogo che il linguaggio; altro destino che il linguaggio. Ce lo dobbiamo fare bastare. E dobbiamo riuscire.

Si scrive per la gioia e per l'aurora. Nient'altro. Anche mentre tutto capitola. Anche mentre, incatenati al fallimento, ci si lancia follemente in corsa in avanti nel buio.