blog di Carlo Cuppini

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mercoledì 17 aprile 2024

"Logout", da oggi in libreria

Intelligenza artificiale ovunque, amicizie solo sui social, realtà virtuale per giocare, studiare e lavorare, acquisti on-line con consegna immediata, classifiche con premi e punizioni, sorveglianza e igienismo, comodità e sicurezza...
In Malsazia tutto appare progredito, prevedibile e funzionale. Il signor Zucabezzo, grande imprenditore e vero leader del Paese, con le sue aziende e le sue politiche ha fatto proprio un buon lavoro.
Ma sotto la superficie scintillante qualcosa si agita. E proprio grazie ai meccanismi che stanno alla base del sistema un imprevisto si manifesta nel posto giusto e al momento giusto.
Luca, un ragazzino ancora in bilico tra l'infanzia e l'adolescenza, si troverà di fronte a una scelta drammatica e impensabile. E con lui Linda: l'onnipresente intelligenza artificiale che tutto coordina e tutto controlla.
Esce oggi nelle librerie e nei bookstore on-line “Logout”,
Marcos y Marcos, 408 pagine, 14 €, copertina di Alice Barberini.

mercoledì 10 aprile 2024

“Senza titolo (No)” di Ramona Caia, per Daniela De Lorenzo



In un mondo avviato con slancio, e perfino con entusiasmo progressista, verso l'autodistruzione, il Dada pronunciò il suo No. Se una discussione intorno all'orrore assoluto poteva esistere, non si trattava di entrare nella discussione con questo o quell'argomento, ma di rifiutare in modo totale, incondizionato e irreversibile la possibilità stessa della discussione, l'impianto logico su cui si configuravano le menti umane. Era un No insolente, ironico ed euforico, nella misura in cui si specchiava in un parimenti clamoroso Sì: quello creazionale dell'arte.

Sessant'anni prima era stata pronunciata un’altra eclatante sequela di No, in questo caso solitaria, e sottovoce: quella di Bartleby, lo scrivano protagonista dell’omonimo racconto di Melville. I suoi garbati e insistiti “I would prefer not to”, ripetuti in risposta a ogni sorta di domanda e richiesta, portano sull’orlo del più profondo sbalordimento il suo datore di lavoro, che finisce per formulare richieste appositamente perché lui debba rispondere “sì”. Ma Bartleby continua a preferire di no, fino all’ultimo, fino alle estreme conseguenze. Senza motivo, senza spiegazione: la sua preferenza non è condizionata dalle circostanze o dalle intenzioni altrui. Il No di Bartleby non è un no a questa o a quella cosa; ed è questo fatto che sconvolge il suo datore di lavoro, e i lettori del racconto, ancora oggi.

Dopo, anche il No gridato ed esibizionista del punk ha preteso di essere un No assoluto e indiscutibile. 

Prima, il No di Francesco d’Assisi alla cultura e ai libri è stato un altro rifiuto assoluto, incontrovertibile, del livello convenzionale della discussione; essendo essa stessa – la discussione – plasmata sulle logiche di potere – fosse anche il potere delle argomentazioni: il linguaggio è ragione, ma è altresì potere – e capace di umiliare, prevaricare, giustificare gli orrori della Storia, uccidere. Francesco, semplicemente, rovescia il tavolo, e scommette su un altro possibile livello di esistenza della specie umana, raggiungibile non attraverso la dialettica, ma camminando a lungo, in silenzio, scalzi.

Tornando al nostro tempo, nei borborigmi incomprensibili degli "Idioti” di Lars Von Trier sembra di sentire echi della disperata speranza di Francesco.


Il No di Ramona Caia non è né gridato né sussurrato, né insolente né garbato. È il gesto quieto di un corpo senza connotati e senza condizioni – ridotto a un tronco senza arti e senza capo, in effetti – dal quale fuoriesce una propaggine articolare al solo scopo di dimostrare che il corpo stesso è un messaggio. E che il messaggio è un No. L’azione si ripete in un loop circolare la cui unica variazione sta nell’alternanza del colore (un rosso sullo sfondo che richiama molti drammi, privati e collettivi, e brutalmente scontorna il corpo con il suo aspetto diafano) e del bianco e nero, che – per contro – sposta il senso della visione fuori da ogni possibile attualizzazione. Il No di Ramona Caia non sembra rispondere a una domanda, non sembra riferito a una specifica circostanza. Il silenzio in cui l’azione avviene e si ripete all’infinito rende la visione ancora più conturbante, calando opera e spettatore, insieme, in un’apnea subacquea. Si potrebbe ipotizzare che le circostanze funeste che scandiscono da tempo la nostra quotidianità abbiano a che fare con questa significazione. Tuttavia la forza del gesto – ricomposto in un quadro costituito da un tablet appeso alla parete – lascia prevalere l'enigma, l'inafferrabilità: la richiesta di fermarsi, appunto, sul limite della logica e della discussione, qualora non si sia disposti a rinunciare ai limiti della specie. O almeno a tentare questo salto, pensando ai tentativi di De Dominicis di volare, o formare quadrati invece di cerchi intorno a un sasso lanciato nell'acqua. 

In questa breve rassegna dei No incontrovertibili, ispirata dall'opera di Ramona Caia, va incluso ancora un riferimento, almeno: il Montale di “Non chiederci la parola che squadri da ogni lato”: “Codesto solo oggi possiamo dirti,/ ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.”


L’opera “senza titolo (No)” di Ramona Caia è esposta al Museo d’Inverno di Siena all’interno della mostra dedicata a Daniela De Lorenzo, intitolata “Controluce”. 

Il Museo d’Inverno, diretto da Francesco Carone ed Eugenia Vanni e situato dentro la monumentale architettura della Fonte Nuova, propone da alcuni anni dei focus interessanti su artisti contemporanei, invitandoli a prodursi non attraverso l’esposizione di proprie opere, ma attraverso la presentazione di relazioni: mostrando cioè opere che hanno ricevuto in dono da altri artisti, o intellettuali, o a vario titolo sodali. È già un racconto, ed è un racconto mite e originale, quanto intenso e unico; racconto dove l’ego scompare, e di esso resta solo un’impronta, delimitata e resa visibile dalla presenza degli altri tutto intorno. Dalla presenza dell’altro, della relazione. 

Daniela De Lorenzo, in questo singolare e prezioso autoritratto “Controluce”, ha riunito nell’antica e affascinante struttura sovrastante le fonte opere e contributi (in alcuni casi inediti) di Emanuele Becheri, Lorenzo Bonechi, Ramona Caia, Antonio Catelani, Saretto Cincinelli, Serge Domingie, Paolo Fabiani, Fabio Fuente, Carlo Guaita, Giulio Paolini, Roberto Rizzoli.


"Daniela De Lorenzo. Controluce", Museo d'Inverno, Siena, 6 aprile - 9 giugno 2024


(Il video dell'installazione "Senza titolo (No)" di Ramona Caia si può vedere qui.)

domenica 31 marzo 2024

Pasqua di guerra

Pasqua di guerra, di genocidio, di invasione, di armi che rispondono alle armi, di pezzi di terra contesi come se la terra potesse essere di qualcuno o di qualcun altro, di umani rapiti come se fossero cose, di umani scambiati come se fossero figurine. Pasqua di un'umanità sull'orlo del baratro, di potenti che ci pingono avanti perché a fermarsi avrebbero paura di apparire deboli. Difficile dire "buona", come se niente fosse. Allora dico "buona" come se qualcosa fosse. Come se fosse impossibile ammazzare la gente, per qualsiasi motivo. Come se le guerre fossero state bandite, non solo nei trattati e nelle intenzioni. Come se l'articolo 11 della nostra Costituzione contasse qualcosa. Come se le città e le case non potessero mai essere distrutte, né le scuole, né gli ospedali. Come se nessuno credesse alle linee immaginarie che separano i popoli, le famiglie, i colleghi, gli amici, rendendoli nemici. Come se non esistessero industrie belliche e lobby guerrafondaie che sostengono i candidati, in USA e altrove. Come se la religione fosse una faccenda personale e di comunità, e mai di Stato. Come se fossero state per sempre superate quelle odiose ingiustizie, invisibili a chi non le patisce, che trasferiscono la dignità e la ricchezza di alcune persone nelle tasche di altre, o di interi popoli, e che stanno sempre alla base della violenza delle armi. Perché non c'è pace senza giustizia...


venerdì 15 marzo 2024

"L'estate breve" di Enrico Macioci (Terrarossa Edizioni)

L’estate breve
è una breve storia del talento. Questo infatti è il titolo di un preesistente libro di Enrico (Mondadori, 2015) che attraverso un’insolita operazione di autoriscrittura sta all’origine di questo nuovo romanzo, pubblicato da Terrarossa Edizioni.
È impossibile non soffermarsi subito sulla parola "talento", scomparsa dal titolo, ma non dal racconto. Soprattutto perché, scomparendo, la centralità e la complessità del tema sono divenute, forse, perfino più vistose.
Il talento è il tema portante della narrazione e dello scavo esistenziale (autobiografico?) di Macioci. Talento è un termine enorme, che appena pronunciato si apre come le lame di una forbice proiettandoci contemporaneamente in due dimensioni opposte, lontanissime nel tempo, nel contesto e nel senso.
Da un lato viene in mente l’accezione corrente, capitalistica e spettacolare, perfino squallida, quella che si ritrova nell’espressione “talent show” e che ha a che fare con la dimostrazione, l’esibizione o l’ostentazione di qualche capacità pratica, percepibile, che ci dovrebbe fare eccellere in qualcosa, distinguendoci da tutti gli altri. Questa idea di talento risponde alla domanda: “cosa sai fare meglio di tutti”?
Dall’altra parte, da molto lontano, risuona il senso inattuale del termine, quello neotestamentario, che scaturisce dalla parabola dei talenti. E qui siamo agli antipodi della società dello spettacolo dove la vita è gara di apparenza e di sopravvivenza. La parabola evangelica non chiede cosa sai fare, ma chiede cosa hai dentro di te, e quindi cosa puoi fare; non chiede di fare o di essere più degli altri, ma di essere se stessi, e di esercitare se stessi nel mondo senza risparmio, senza tenersi gelosamente, cautamente, egoisticamente per sé. Non chiede di esibirsi, per ricevere, ma di raccogliersi, per dare. Questo almeno è ciò che quella vecchia parabola suggerisce alle mie orecchie agnostiche.

Il libro di Enrico Macioci si muove tra questi due poli. O forse è l’adolescenza stessa a farlo. Il dodicenne al centro delle vicende (la stessa persona che, divenuta adulta, le narra anni dopo) si dibatte in un campo di forze delimitato dal mistero del sacro invisibile e dall’enigma della vita concreta. In questo campo – sovrapposto idealmente al campo di calcio – cerca se stesso; e assurge improvvisamente alla consapevolezza della vita, che la vita è, sperimentando per la prima volta il limite; e la scoperta del limite arriva quando si trova di fronte all’idea della morte; e questa lo raggiunge insieme alla sconfitta.
Il “grande Michele”, amico leggendario e calciatore prodigioso, quando compare (come dal nulla) mette un paletto nella considerazione illimitata che il giovane protagonista ha avuto di se stesso fino a quel momento. Prima non c’era morte, non c’era possibilità di sconfitta, non c’era neanche vita. C’era l’infanzia, che non necessariamente è felice, ma certamente è incantata ed eterna. E tutto ciò di cui dovesse essere manchevole può sempre apparire in sogno, come un risarcimento, come una promessa di qualcosa che c’è tutta la vita per ottenere – una vita ulteriore, più compiuta, e a sua volta infinita ed eterna, che a un certo punto dovrà per forza cominciare.
Nel confronto con il grande Michele l’idea di talento (che lo scrittore adulto forse proietta sul se ragazzino) muta radicalmente: smette di essere una certezza e diventa un dilemma, smette di essere una (auto)affermazione e diventa un'insistente domanda; non più premio ed elezione, ma condanna e capitolazione; non garanzia di eternità, ma certificazione di finitezza, a cui deve seguire la fine.

Il libro si legge d’un fiato. Breve e densissimo, è privo di una vera narrazione come comunemente intesa, ma è vertiginoso e avvincente nel susseguirsi di quadri che si accatastano nel magazzino del tempo breve di un’estate ideale, arsa, sudata, esistenziale. Un tempo assurdo, impossibile, pericoloso, slegato da ogni legge e da ogni logica: quello appunto, dell’adolescenza, della fame d’aria, degli andirivieni, del sacrificio finale del (dio) bambino. Da quel magazzino-crisalide non potrebbe che uscire un poeta. Un poeta destinato magari a vivere poche ore, come una farfalla; a sbriciolarsi alla luce del sole; a ricalcare la parabola esistenziale lasciata dai passi allucinati del vagabondo-veggente, Rimbaud.

Nella seconda parte del libro il narratore, in crisi coniugale e tormentato dalla sensazione di essere incastrato tra un mancato successo e un mancato fallimento, seguendo un’intuizione disperata, quasi di nascosto da se stesso, torna fisicamente nei luoghi dell’adolescenza. Lì le cose, gli odori, le immagini, le sensazioni e le emozioni escono dal ripostiglio della memoria e cominciano a vivere di vita propria; non più allucinazioni ma elementi naturali che strisciano tra i piedi dell’uomo, si arrampicano sulle sue caviglie, lo mordono, lo pressano, lo assediano. Fino a spremere da lui, in un distillato di commozione, riconoscimento e dolore, una consapevolezza nuova, scioccante: forse il talento è solo essere se stessi. Non nel senso del ragazzino che, abbandonando l’identità indistruttibile del bambino, “vuole" essere se stesso — vuole essere ciò che vuole essere, ciò che spera di poter diventare, ciò che si sente chiamato a rappresentare e a ottenere. Ma nel senso dell’adulto, che nella crisi e nel dolore può ancora abbandonarsi a una felicità languida ma estesa: quella dell’accettazione di ciò che non può non essere.

La straordinaria capacità di Macioci di impastare nella scrittura azione, ricordo, riflessione e illuminazioni, dimostra che la “miseria” fangosa, sanguinante, dell’esperienza fisica infantile sa perforare gli strati del tempo e continua a trafiggere la corazza dell’adulto, richiamandolo a verità e a realtà sepolte, ma ancora vive e vivide.
Questo suo "talento", mentre usciamo dal libro dopo averlo attraversato, evoca una domanda. I ragazzi di oggi, che in larga parte fanno esperienza di se e del mondo nel digitale e attraverso il digitale, come ripenseranno a se stessi tra vent’anni? Quali saranno i fili che potranno intrecciare al ragazzino o alla ragazzina che sono stati? Verso quali luoghi e in quali peregrinazioni li condurranno i disperati e incomprensibili richiami che forse un giorno sentiranno? Dove potranno trovare abissi e risposte?

martedì 12 marzo 2024

Piccolo Nicolas. Cosa aspettiamo per essere felici?

Capita di vedere un sabato pomeriggio, nell’umile cinema parrocchiale del Galluzzo (che è rimasto l’unica sala in tutta la Firenze che si sviluppa a sud dell’Arno), un meraviglioso e inaspettato film francese di animazione: Le avventure del piccolo Nicolas, di Amandine Fredon e Benjamin Massoubre, appena uscito in Italia.

Il film racconta le avventure di Nicolas, monello dolce e irriverente, protagonista di una serie di fumetti celeberrimi in Francia, meno in Italia, creati all'inizio degli anni Sessanta dalla penna di René Goscinny (l’autore di Asterix e Obelix e di Lucky Luke) e dalla matita di Jean-Jaques Sempé. Più che rappresentare sullo schermo le avventure dell’irresistibile bambino (come è stato fatto in passato), il film racconta il carattere dei suoi creatori, l’amicizia tra loro, e soprattutto il rapporto sentimentale di entrambi con i loro personaggi e con la loro opera comune.
È incantevole assistere al piccolo Nicolas che esce dalla macchina da scrivere di Goscinny, parla con lui, lo interroga, lo provoca; e poi, rivestito delle idee dello scrittore, si trasferisce nelle tavole a cui Sempé sta lavorando; e poi accompagna l’artista in malinconiche passeggiate per Parigi per ascoltare i suoi ricordi d’infanzia, che in qualche modo diventeranno un po' anche suoi.
È un film quieto, gentile, riflessivo, esplosivo solo per l’esuberanza di Nicolas e dei suoi amici (e delle sue amiche, formidabili!), senza colpi di scena, senza adrenalina, senza inseguimenti incalzanti, libero dagli schemi narratologici, ritmici e visuali che prevalgono nel cinema contemporaneo (per bambini e non).
È un film che non intrattiene, ma fa di più e di meglio: offre allo spettatore la magia di un incessante travaso tra la realtà biografica degli autori e quella fantastica di Nicolas; travaso reso naturale dal gioco del disegno che si anima all’interno dell’animazione (nel senso di film), con l’inevitabile fusione dei due piani.
Le felici intuizioni grafiche sono puro piacere: come la creazione e la modificazione dei personaggi e degli scenari, a colpi di matita, via via che i due compagni ne discutono; o il modo in cui i personaggi si scolorano ogni volta che si avvicinano ai bordi dell’inquadratura/illustrazione. Sono tutte soluzioni tecniche che, grazie alla finezza del racconto diventano metafore di tante cose.
È più vera la vita dei due uomini in carne e ossa o quella del bambino fatto di pochi tratti di matita, umorismo e grazia irriverente? Sono Goscinny e Sempé a far vivere Nicolas, o è piuttosto vero il contrario? L’immaginazione si nutre della vita, o è la vita a essere fatta di nient'altro che di immaginazione? E soprattutto: “cosa aspettiamo per essere felici?” (questo è il sottotitolo dell’edizione originale, ed è un peccato che si sia persa nell'edizione italiana). Sono domande che sembra porsi anche Sempé, nel film, quando riceve la terribile notizia della morte dell’amico scrittore.
Questo film che parla con tanto garbo di atto creativo, di libertà, di gentilezza e amicizia, mi ha fatto pensare a due cari amici illustratori, Simone Frasca e Francesco Chiacchio. Due artisti molto diversi tra loro, accomunati però dalla capacità di dare vita a un personaggio, a un pensiero profondo, a una battuta pungente, a un ricordo, a un rimedio per l’anima, al seme di un intero mondo, con due o tre tratti di matita. E dal fatto di essere gentili.