“Intanto pensiamo a fermare i contagi, poi si vedrà.”
Questa è stata la linea che ha dominato – indiscussa e indiscutibile – da marzo 2020 a oggi. Prima con lockdown e dintorni, poi con i vaccini. Medesima logica: mettere il virus con le spalle al muro, per potercelo lasciare alle spalle e ricominciare.
È la strategia machiavellica che giustifica qualunque mezzo, e qualunque rischio ignoto, e qualunque annunciato danno collaterale, in nome di un fine prioritario. Il fine prioritario riguarda qualcosa di fronte alla cui eccezionalità ogni altra priorità scompare. E le stesse specificità del fenomeno scompaiono, in una nebulosa di millenarismi incompatibile con ogni possibilità di discernimento, e quindi di progettualità edificante.
È la linea massimalista delle misure coercitive indiscriminate, degli elicotteri, dei droni, del confinamento domestico, inventata dai cinesi; poi consegnata all’amico Conte (“non avete un piano pandemico? non vi preoccupate, non vi servirebbe comunque; perché è così che si deve fare, e basta: voi fate così e nessuno si accorgerà delle vostre magagne”); una linea recepita in toto da Conte, fino ai dettagli inutili e folcloristici delle strade militarizzate, della caccia al runner, del vecchietto che raccoglie asparagi accerchiato, del sub tirato fuori dall’acqua, dei tso inflitti a chi dissente; strategia poi adottata, con vari smussamenti, da mezza Europa, perché quasi nessuno voleva sentirsi da meno, o sembrare meno “duro”; una linea, infine, ereditata da Draghi, che ha traghettato ecumenicamente dentro questa ideologia di governo tutta la parte “presentabile” dell’opposizione, e come prima iniziativa, per non sbagliare, ha richiuso le scuole, che perfino Conte nel frattempo si era convinto a lasciare aperte in un modo o nell’altro.
“Intanto pensiamo a fermare i contagi, poi si vedrà.”
Poi, per “fermare i contagi”, sono arrivati i vaccini, e allo slogan “io resto a casa” è seguito il “ne usciremo soltanto con i vaccini”; poi aggiornato con l’aggiunta “soltanto se ci vacciniamo tutti, compresi i ragazzi e i bambini (appena sarà possibile)”. Una nuova abluzione rituale degli Unanimi.
“Fermare i contagi”. Lo ha detto Draghi annunciando l’imposizione del green pass: una “garanzia di ritrovarsi tra persone che non sono contagiose”; una “misura di libertà”.
Le virgolette sono d’obbligo, perché si tratta di una delle più clamorose e deleterie menzogne pronunciate nell’epoca covid.
E quindi i vaccini non fermano i contagi (ma dieci mesi fa questo non lo si poteva neanche sussurrare: oggi non c’è bisogno di paventarlo: lo si può direttamente misurare, e gli studi più recenti lo hanno fatto). Ma non c’è problema: ci rivaccineremo! Sempre di più, sempre più frequentemente. Costi quel che costi. Si rischi quel che si deve rischiare. Anche chi non rischierebbe niente col covid. Finché non avremo sconfitto il virus. Benvengano anche gli adescamenti, benedetti dal CTS e dalle istituzioni, che sono costati la vita a Camilla Canepa, e forse ad altri ragazzi, sulla cui fine le indagini sono in corso. Si parla già di quarte dosi, sei mesi dopo le terze. Va bene.
L’importante è non nominare mai l’unica opzione alternativa, che esisteva già 20 mesi fa, ma non poteva essere pronunciata: studiare e approntare le modalità che consentano di convivere sostenibilmente con un nuovo virus inestirpabile. Proteggendo in modo mirato e propositivo le persone a rischio (anche con i vaccini, con tutte le incognite del caso in merito a efficacia e sicurezza), e trovando il modo più efficace e corretto per prevenire le forme gravi e per assistere e trattare i malati. Senza distruggere sanitariamente, culturalmente, socialmente, giuridicamente, economicamente la società.
“Intanto pensiamo a fermare i contagi, poi si vedrà.”
Oggi dunque non abbiamo fermato i contagi, né in Italia né altrove, e non abbiamo idea di come poter convivere con il virus che è intenzionato a restare con noi, al pari di tutti gli altri che fanno parte della stessa famiglia. Perché nel frattempo non ci abbiamo voluto pensare.
Intanto abbiamo accettato di godere spensieratamente, come se fosse per sempre, di una libertà che dura solo pochi mesi, poi ritorna nelle mani dello Stato: che potrà decidere se rilasciarla per intero, o in parte, a quali condizioni, sulla base di quali requisiti. Per qualcuno quei mesi stanno già per scadere. Magari qualcuno, alla scadenza del suo periodo di libertà, troverà un nuovo governo a stabilire, tramite decreto, i criteri per continuare a beneficiarne.
Intanto non abbiamo imparato a considerare questa infezione una malattia, a trattare adeguatamente i malati. Non abbiamo imparato a proteggere i fragili. “Tanto ci sono i vaccini e presto saremo fuori dalla pandemia”. "Perché i vaccini sono l'unica arma che abbiamo". Invece siamo nel guado.
L’ex direttore di Ema – uno dei protagonisti della campagna vaccinale - dice in tv che è giusto usare gli antinfiammatori come trattamento precoce dei malati, commentando il secondo studio Remuzzi-Suter che conferma i dati del primo sull’abbattimento dei ricoveri per i malati trattati con quel tipo di farmaci. Antinfiammatori, dice, soprattutto la tachipirina. Sì, dice “la tachipirina”. Considera la tachipirina un valido, preferibile, “antinfiammatorio”. Ho dovuto riascoltare quel passaggio dieci volte, prima di poter credere alle mie orecchie. L’ex direttore dell’agenzia europea del farmaco, consulente del commissario per la campagna vaccinale, pensa che il paracetamolo sia un antinfiammatorio. Abbiamo un grosso problema.
Oggi, dunque, non abbiamo fermato i contagi, e in più è arrivato il momento di fare i conti con il “poi si vedrà”.
Il “si vedrà” ci fa vedere per esempio che tra gli adolescenti il costo psicologico delle misure anticovid ha portato a un aumento del 150% di accessi al pronto soccorso per tentato suicidio. C’è una task force che sta affrontando questa tragedia? Qualcuno si pone il problema di come soccorrere - ORA, a tutti i costi - la generazione dei figli?
Pressione per la vaccinazione, hate speech mediatico e di Stato (sorci, traditori, disertori, egoisti, vigliacchi, “dovere morale”…), green pass, restrizioni alla socialità, negazione dei volti a scuola, ricatti e colpevolizzazioni… credo che tutte queste cose non stiano alleggerendo il peso psicologico che grava sui giovani e spinge talvolta i più fragili a gesti tragici.
Oggi arriva un’altra fucilata. Non proprio una sorpresa, per la verità: la cosa era stata anticipata da notizie analoghe arrivate dalla Nuova Zelanda un anno fa. Il virus sinciziale sta contagiando centinaia di neonati, molti dei quali finiscono in terapia intensiva, e che, in un caso su due, resteranno affetti da asma a vita. "Terapie intensive piene di neonati, popolazione senza più anticorpi" è una notizia che fa molto male. E questo, come riconoscono i commentatori, è un costo del lockdown e di altre misure anticovid finalizzate al raggiungimento del fantomatico “rischio zero”. C’è chi lo scrive. C’è anche chi rovescia il mondo come un calzino e scrive: “Colpa dell’allentamento delle misure anticovid.” Che evidentemente dovrebbero essere eterne, a questo punto, fino alla completa sostituzione del sistema immunitario con regole comportamentali sempre più invasive e serrate. E imprescindibili. Lo dice per esempio Cartabellotta, invocando il mantenimento di distanziamento e mascherine per proteggersi dall’influenza stagionale.
Covid ha ucciso e continua a uccidere molte persone e molte cose. Di certo ha ucciso il concetto stesso di protezione dell’infanzia. E un’idea di libertà.
La questione della libertà non è sciatta come appare nei talk show, ovviamente. Non è la mia libertà contro la tua, o contro quella di tutti. Non è il diritto alla circolazione contro il diritto alla salute. Non è la libertà egoistica contro quella responsabile e altruistica. È l’alternativa tra una libertà che si esercita in un mondo progettato, normato e controllato in ogni parte, millimetricamente, fino alla più piccola unità di misura; e una libertà che si esercita in un mondo naturale, in parte aleatorio e autoregolantesi, in continua osmotica trasformazione.
In tutto questo non c’è una regia. C’è uno scontro tra un’ideologia igienista, che promette la pax augustea di un mondo reso asettico (“fecero un deserto e lo chiamarono pace”), e l’idea dei sistemi complessi e interconnessi, dove per forza è necessario abbandonare l’idea di controllare ogni fenomeno e tracciare tutto, perché le interrelazioni di tutto con tutto il resto si avvicinano alla dimensione dell’infinito. Ci sono ovviamente interessi imponenti che coincidono con la prima ideologia. Questi danno vita a “sub-regie”, pur in assenza di una regia demiurgica e complessiva. Il resto lo fanno il conformismo, il politicamente corretto, la paura e l’inquisizione. Funziona tutto molto bene.
Personalmente ho sempre amato i finestrini aperti, la contaminazione, l’osmosi. Il rischio dell’esistenza, addirittura. L’avvento dell’aria condizionata nelle macchine e nei treni, una ventina d'anni fa, mi ha confortato nella stessa misura in cui mi ha terrorizzato: con gli abitacoli e i vagoni improvvisamente sigillati, non più in continuo scambio aereo, atmosferico, olfattivo, poetico con l’ambiente che attraversavano. Quel momento è stato davvero la morte del viaggio e della poesia.
Oggi viaggiamo isolati e disorientati, monadi guidate e rassicurate da un navigatore senziente che ci piace talvolta chiamare per nome.
Abbiamo esorcizzato la morte e tutti i pericoli della vita. O almeno stiamo puntando a quello. Ci sentiremo soddisfatti soltanto quando avremo raggiunto quel traguardo.
Allora torneremo a vivere una vita uguale a prima, ridotta però a essere un simulacro.
Poi la morte tornerà a presentarsi in forme inattese e terribili, come un’antica divinità accecata dal furore per via della superbia e dell’ingratitudine.
E con essa tornerà la vita, probabilmente come un’eruzione.
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