blog di Carlo Cuppini

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mercoledì 15 maggio 2024

“Un titolo in inglese? Vade retro!”

“Logout” significa “scollegamento da un sistema informatico” e chi leggerà il libro capirà quanto questo concetto sia cruciale nello svolgimento della storia. Quando ho capito che il titolo doveva essere questo, ero pronto a scommettere un euro e trenta centesimi che qualcuno avrebbe storto il naso e fatto polemiche. Così è stato. Dunque, qualche parola su questo.
Non amo l’abuso degli anglicismi dove ci siano alternative nostrane equivalenti, tant’è che nel libro ne ho fatto un uso perfino inferiore rispetto a quello che si farebbe discorrendo comunemente di certi temi. Per dare alla storia un’aura di atemporalità un po’ fiabesca e, per esempio, i miei personaggi dicono “Segnale” invece di “Internet”, e “a distanza” invece di “on-line”. Però dicono “computer”, “influencer” e “social”. Al posto dei “like”, tuttavia, in Malsazia ci sono i “baciot”, e i “tablet” vengono chiamati “tavolette”. La stessa società malsaziana è sensibile alle questioni linguistiche e all’etimologia: al punto che il nome della capitale, Sbafo, proviene da un termine dell’antica lingua birbana, “sbaaf”, e a scuola, tra le varie materie, si studia “Storia dei codici linguistici”. Insomma, ho fatto un po’ come mi pareva, o meglio, ho assecondato le esigenze del racconto, della sua coerenza interna. E, come sempre, ho giocato con le parole, divertendomi a volte a usarle per fare il gioco delle tre carte sotto gli occhi del lettore.
Tornando al titolo "Logout", dopo avere visto la copertina di Alice Barberini che lo inscrive graficamente nell’ombra del piede di Luca, proiettato in avanti verso le conseguenze ignote della sua ribellione, e trasforma le "o" nel tasto acceso/spento (per non dire "power"...), sono stato ancora più convinto di avere scelto bene.

Aggiungo – a beneficio di chi avesse una particolare e insopprimibile insofferenza verso l'uso di termini inglesi – la risposta che ho dato a un amico (appena un po’ rimaneggiata):

Pensa che nel cassetto ho racconti intitolati:
- “Paccottiglia"
- “Il walzer dell’hashish”
- “Lo zar sul water"
- “La guerriglia del karaoke“
- ”Il mio camion marrone”
- “La cosca della matriosca”
- “Pigiama flop"
- "Guano nel barbecue"
- “Due bunker per un detective”
- "Baraonda blues”
- "Il ghota degli emoji”
- "Microchip flambé"
- "Internet gulag"
- “L’album dei killer"
- “Horror senza suspance"
- "Cin cin!"

Le uniche parole “italiane” che compongono questi titoli (immaginari, evidentemente) sono gli articoli e le preposizioni. Le altre, “crude” o adattate, sono parole slave, russe, arabe, inglesi, francesi, spagnole, latine, dei popoli nativi americani Quechua e Tainos, giapponesi, cinesi, tedesche, persiane, siciliane.
Per concludere, confesso di essere affiliato alla Società di tutte le lingue – vive, morte, moribonde, nasciture, terrestri, aliene, reali e immaginarie – che mi permettono di esprimermi come mi va, senza paura di perdere l’identità.
Prosit!

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