Come in un thriller convenzionale, arrivati al termine di
Il figlio peggiore – il romanzo di Peter D’Angelo e Fabio Valle uscito per Fandango Libri – tutte le domande che la storia ha aperto trovano una risposta. In questo caso, però, sono le stesse risposte a far nascere un ulteriore e più grave interrogativo: dove finisce l’opera di fantasia e dove comincia la ricostruzione storica?
Entrambi gli autori sono giornalisti d’inchiesta. Di Valle, per mia ignoranza, non so dire niente di più. Di D’Angelo, avendo seguito il suo lavoro su "Il Fatto quotidiano” negli ultimi anni, posso dire che è un giornalista rigoroso, coraggioso e interessato alle verità, specie quelle non palesi. Questi dovrebbero essere attributi base del giornalista, requisiti minimi, per così dire, e pertanto non andrebbero neanche citati. Ma non è così in un Paese - l’Italia - che ristagna in una zona grigia della classifica sulla libertà di stampa, non solo a causa delle tendenze illiberali dei governi di destra e delle costanti intimidazioni malavitose, ma anche per via dell’autocensura che i giornalisti s’impongono per non scontentare il padrone, o per non mettersi contro il sentire comune (il quale, a sua volta, si determina compatto e intollerante quando c’è sostanziale unanimità sui media). Lavorando su temi sanitari negli anni della pandemia, Peter D’Angelo ha svolto un lavoro egregio, tenendosi alla larga tanto dalla retorica e dai tabù dell’area filogovernativa, quanto dalle parole d’ordine e dalla controretorica degli antigovernativi. In altre parole, ha fatto seriamente il lavoro di giornalista, non dimenticando che questo costituisce il quarto potere della democrazia.
Il figlio peggiore racconta le indagini del giornalista romano Carlo, personaggio di fantasia, sulla diffusione delle droghe in Italia. L’esito dell’inchiesta si può rivelare qui senza paura di rovinare la lettura, perché non è su questo che è costruita la tensione narrativa. Anzi, la risposta è scritta già nell’epigrafe: attraverso l’operazione Blue Moon, all’inizio degli anni Settanta, lo Stato Italiano ha avviato e gestito, inizialmente in modo pressoché monopolistico, la diffusione della morfina e dell’eroina nel territorio, immettendone quantità imponenti a prezzi stracciati, allo scopo di contaminare e portare all’autodistruzione le diverse anime della contestazione.
Dicendo “lo Stato Italiano”, secondo la ricostruzione fornita da questo romanzo che sappiamo essere basato sulla lettura di carte processuali, va inteso lo Stato nella sua forma più ufficiale – con riunioni svoltesi nelle sedi ministeriali, e non in oscuri scantinati, con il coinvolgimento di parlamentari, segretari di partito, generali, membri dell’intelligence USA, servizi segreti, manovalanza neofascista, caporedattori di testate nazionali – e non una serie di mele marce, i cosiddetti “pezzi dello Stato”, o i cosiddetti “servizi deviati”, parole magiche con cui solitamente si libera da ogni responsabilità lo Stato nel suo insieme, e ogni sua singola istituzione.
La trama del libro sarebbe coinvolgente anche se si trattasse solo di un romanzo di fantasia; ci si affezionerebbe ugualmente ai personaggi – si compatirebbe, in particolare, la parabola tragica del protagonista. Ma la portata cruciale delle verità storiche che vengono toccate spinge in secondo piano le riflessioni che si potrebbero fare sul piano puramente narrativo dell’opera.
In questo senso, la lettura lascia dietro di sé un’altra domanda, forse ancora più scomoda della precedente: i due autori ci stanno forse parlando anche di qualcos’altro? Ci sono argomenti che afferiscono alla storia italiana più recente che non possono essere trattati, se non parlando d’altro? Brecht, parlando di Galileo, ha parlato di molte altre cose, comprese quelle per lui più pressanti e attuali. E lo stesso vale per altre sue opere, e per opere di molti altri autori, che hanno avuto a che fare con regimi dittatoriali, o totalitari, o repressivi, o intolleranti, o illiberali.
Di certo ad alcuni lettori il libro ricorderà altri episodi che, analogamente all’operazione Blue Moon, hanno avuto il compito, o comunque l’effetto, di imprimere un netto cambio di direzione nella storia nazionale e non solo.
A me viene in mente il G8 di Genova del 2001, con l’oscuro ruolo dello Stato che solo in parte è stato acclarato dalle inchieste giudiziarie che hanno portato alla decapitazione dei vertici della polizia. Quell’inaudita, prolungata e pianificata carneficina – che i più sul momento, e per anni, hanno in qualche modo giustificato dando credito alla versione ufficiale dei manifestanti violenti – con il suo significato di tortura collettiva ha traumatizzato un’intera generazione e segnato l’inizio della fine dell’esperienza del Social Forum Mondiale, il più radicale, solido e creativo movimento di contestazione che avesse preso piede dalla fine degli anni Settanta. Come è possibile, viene da chiedersi, che tutti i governi che si sono succeduti dopo quell’evento esiziale – tutti, di qualsiasi colore – hanno ritenuto opportuno e appropriato promuovere l’allora Capo della Polizia Gianni De Gennaro, fino a farne il presidente di Finmeccanica / Leonardo?
E, ancora, mi vengono in mente gli anni della pandemia, dove ancora tutto è oscuro e molto è tabù. Ma quello che è incontrovertibile è che il rapporto tra le istituzioni dello Stato e i cittadini - in Italia e non solo – è stato irreversibilmente modificato: nel senso di una consegna di diritti e libertà fondamentali nelle disponibilità politiche del governo. Il cui volto e la cui retorica - indipendentemente dai colori politici della compagine del momento – hanno preso a ricordare quelli paternalistici e autoritari dello “Stato etico”.