Ieri non era proprio il giorno giusto per stare lontani dai social, con la decisione di Netanyahu di occupare Gaza che rimbalzava su tutti i media fin dalla prima mattina…
DOVEVO dire qualcosa. DOVEVO sapere cosa ne stavano dicendo i miei contatti.
Per questo, forse, è stata proprio la giornata ideale per stare alla larga da Fb: digiunare quando non si ha fame è troppo facile, e troppo inutile.
Per qualche minuto sono stato frustrato per non poter sfogare la mia costernazione con un post. Poi me ne sono fatto una ragione.
Ho continuato a pensare a Gaza per tutto il giorno, a tratti, in sottofondo. Come mi è capitato diverse volte negli ultimi mesi. Ho pensato a che fare, perché qualcosa bisogna fare. Ho pensato che devo tornare a informarmi seriamente sulla campagna di boicottaggio commerciale di Israele. Informarmi su iniziative territoriali per entrare fisicamente in contatto con associazioni attive e militanti che fanno qualcosa di concreto.
L’energia mentale suscitata dall’ennesima terrificante notizia, non sfogandosi in un post, si è trasformata nel desiderio di muovermi per agire in qualche modo nel mondo reale. Come accadeva prima dei social, insomma.
Così ho pensato che oggi siamo pentole a pressione con la valvola mezza rotta, che sfiata di continuo. Che emettono continuamente un filo di fumo, ma mai un fischio robusto. E non cuociono neanche una carota. Figuriamoci se potrebbero mai fare un bel getto di vapore incandescente, quando servisse.
Al tempo dicevano che le primavere arabe sono nate sui social, grazie ai social. Forse era vero. Ma io ho sempre sospettato che le istanze rivoluzionarie, o anche le semplici spinte al cambiamento, si spengano anche, rapidamente, “grazie” ai social.
Ieri per me è stato bello, motivante, perfino eccitante, sapere che altre persone si trovavano per loro scelta - per una scelta comune - nella mia stessa condizione. Che avevano a che fare con gli stessi stati d’animo e le stesse contraddizioni interiori.
Da questo punto di vista, la giornata è passata molto bene. Dopo un disorientamento e un disagio iniziali, ho provato una sensazione di libertà un po’ euforica. Libertà da meccanismo mentali malsani.
Ho passato veramente un buon tempo. Sono andato a letto con la mente più fresca del solito; consapevole di avere passato più tempo a leggere, a pensare, a chiacchierare con familiari, amici, colleghi e baristi, a scrivere. Mi sono venute delle idee, e - non “dovendole” buttare subito fuori, sui social – mi sono preso il tempo per tenermele in bocca, scartarne alcune, elaborarne e fissarne altre. Ho scritto degli appunti per il nuovo romanzo. Ho fatto delle foto naturalistiche senza che allo scatto si sovrapponesse il pensiero di una possibile condivisione in tempo reale o quasi.
Ho pensato al tema dell’urgenza: scriviamo sui social solitamente per rispondere a un’urgenza. Trattenendo l’impulso, scopriamo che quell’urgenza era fasulla. Non era, cioè, un’urgenza. Appariva tale soltanto perché abbiamo interiorizzato alcune dinamiche strutturali dei social, che non fanno bene a noi, ma fanno benissimo alle tasche e agli scettri dei giga-miliardari (pronti a “baciare il culo” al presidente Usa di turno - Trump non è stato il primo né sarà l’ultimo). Detto ciò, non intendo dire che sia sbagliato stare sui social, postare, commentare, likare ecc. Ma è giusto, è necessario, essere coscienti di quello che CI accade lì dentro, di quanto il medium sia il messaggio, e di quanto noi diventiamo simili a quel medium, snaturandoci alquanto, per diventare noi stessi veicoli e funzione di “quel” messaggio.
Dunque, voglio rilanciare:
TUTTI I LUNEDì SENZA I SOCIAL
Domenica sera si disattivano tutte le notifiche, magari si tolgono anche le icone dalla homepage per evitare la tentazione di cliccarci sopra per una sbirciatina, e se ne riparla martedì mattina.
Non voglio abbandonare i social: voglio sottrarmi alla presa che esercitano sulla nostra mente, alle dinamiche relazionali che essi fomentano, all’enorme sperpero di energie buone che causano.
Perché il lunedì?
Un giorno predeterminato ci vuole, perché altrimenti si finisce per astenersi solo quando non costa nulla e non cambia nulla. E mi piace l’idea che si inizi la settimana dando, dandosi, questo segnale. Questo ritmo, questo imprinting, questo tempo in levare, che può trasformarsi in un battere: partire “non facendo” qualcosa, per dare spazio a un altro fare. Non fare qualcosa tutti insieme poi sarebbe una forza, e sarebbe anche divertente.
Lunedì senza social:
per disabituarci a reagire automaticamente agli stimoli dei media (compresi i social);
per togliere alle notifiche il potere di placare stati d’ansia che lo stesso uso dei social determina (folle cortocircuito!);
per riabituare la mente a stare bene con se stessa, tra le cose, anche nell’attesa, anche nella noia, senza cercare un continuo appoggio in stimolazioni digitali, in simulacri di relazioni.
A me il lunedì ricorderà che i social non sono la naturale, inevitabile, insostituibile estensione della nostra sfera relazionale, e men che meno della nostra personalità.
Mi ricorderà che un eventuale senso di astinenza indica che qualcosa non va.
Mi ricorderà anche che è necessario fare un uso moderato e in qualche modo distaccato e critico dei social anche in tutti gli altri giorni della settimana, non lasciando che questi sostituiscano altre esperienze e altre possibilità di espressione, di relazione, di lotta.
Se poi il lunedì senza social sarà condiviso da altre persone, se assumerà la forma di un progetto aperto, collettivo, in continua evoluzione, tutto sarà più bello, più forte, più nuovo, più politico. Gireranno testimonianze, nasceranno idee e iniziative ulteriori. Sarà non solo una pratica personale di ecologia della mente, ma una forma allegra di resistenza passiva, di sabotaggio, di costruzione di senso, di riappropriazione.
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