blog di Carlo Cuppini

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martedì 19 luglio 2011

Fare poesia / 2

Antinomia:

Fare poesia è compiere un viaggio nella realtà attraverso il linguaggio. Il viaggio si controlla in parte: si incontra necessariamente l'elemento - preponderante - dell'imprevisto, dell'estraneità, dell'inconciliabile, dell'irriducibile a sé. Si padroneggia il linguaggio, inteso come cosa viva, solo a costo di cavalcarlo in movimento; non si controlla il panorama che viene incontro, né la qualità del terreno su cui ci si muove, né la temperatura dell'aria, il suo impatto sulla faccia.

Ma anche: fare poesia è invitare il linguaggio a compiere un viaggio all'interno di sé, essendo il sé paesaggio. Si può mantenere il controllo delle aperture nel proprio corpo/vaso, modulando il flusso del linguaggio in entrata attraverso di esse; ma non si può controllare il suo andirivieni, le razzie che compie, il suo annidarsi e proliferare nei recessi interiori.

Il poeta è il soggetto, la realtà è paesaggio.
Ma anche: il linguaggio è il soggetto, il poeta è paesaggio.
Ma anche: il poeta nella realtà è il soggetto, il linguaggio è paesaggio.

Nel fare, c'è uno sconquassamento, a cui non si può dire altro che: benvenga.
Impossibile mettere la poesia al servizio delle intenzioni, del pensiero argomentante, dell'opinione, della descrizione o dell'espressione sentimentale. La poesia non serve a fare discorsi.

E tuttavia la poesia serve a metterci contro il potere, a farci resistere, a farci ammazzare, eventualmente, se questo può servire a farci sopravvivere. Non per via di quello che dice la poesia, ma a causa di quello che è il fare poesia.

Il fare poesia non appartiene al poeta più di quanto il viaggio appartenga al viaggiatore.

In ogni caso avviene tutto sul cornicione, sporti fuori da sé, in un luogo di confine esterno a sé, dove non vigono le consuetudini, perché "mi conosco per quanto mi sono messo alla prova" (W. Szymborska)

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