blog di Carlo Cuppini

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giovedì 20 giugno 2024

L'Anima forse, di Carla Cuppini

Sono felice che Carla Cuppini, sorella di mio padre, abbia concluso un lungo percorso personale dentro la poesia con un lavoro di grande sintesi che ha infine assunto la forma di una piccola, curata pubblicazione con Ladolfi Editore. E sono felice che abbia chiesto a me, in virtù degli intensi scambi che abbiamo avuto in questi anni, di scrivere un contributo che aggiunga qualche impressione esterna ma sintonica.
Riporto di seguito una parte della mia postfazione, e auguro al poemetto "L’Anima forse” di essere aperto e chiuso da tante mani, in modo che battendo le pagine possa fare il suo volo.




Il disegno in copertina è un ritratto dell'autrice a trent'anni realizzato dal padre Renato Cuppini, medico e artista.

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Ciò che mi unisce all’autrice di questo poemetto non è soltanto l’omonimia, che lega entrambi a Carlo Cuppini pittore – fratello del padre per lei, fratello del nonno paterno per me – scomparso nel 1939. A unirci soprattutto è un comune sentire rivolto alle cose immateriali, nella misura in cui si dà la possibilità di costeggiare i lidi che le custodiscono attraverso la pratica della parola. Discorsi sulla poesia, sulla filosofia, sulla religione, sull’etica, sulle visioni interiori, sul sentimento e sulla scrittura: di queste cose si è riempito negli anni lo spazio della nostra relazione, pure fatta di rare occasioni d’incontro, a causa delle distanze fisiche.
Parola poetica: parola cioè che non si limita a replicare e a veicolare significati da persona a persona e da generazione a generazione; ma che li crea, dando origine a connessioni inaudite tra le cose. In questo senso non sarebbe errato dire che ogni parola, anche involontariamente, è poetica; il discrimine sta nell’intenzione e nella consapevolezza – e nondimeno nel rischio – di spingersi oltre la vasta e soddisfacente gamma delle associazioni preconfigurate, forzando la mente e lo spirito a operare affatto diversamente da una tastiera predittiva; e questo per richiamo insopprimibile verso una soddisfazione più piena, della cui possibilità – evidentemente e pur senza averne alcuna prova – non si dubita.
Una poesia non è, in primis, un discorso – neanche un discorso poetico: è una creazione fatta con le parole, come potrebbe essere fatta con l’argilla, o con i pigmenti, o con forme solide distribuite nello spazio, o con una sequenza di movimenti del corpo, o con immagini e suoni distribuiti nel tempo.
La parola capace di creare – e salvare – gli elementi e i frammenti che compongono il mondo immateriale che ci appartiene, a cui apparteniamo, è un mistero non minore di quello costituito dal neurone che cablandosi con cellule sue consimili provoca le attività mentali e le funzioni cognitive della persona.
Carla Cuppini è poetessa (la sua raccolta Per frammenti usciva esattamente trent’anni fa, nel 1994), è donna di studio e di scienza (è stata ricercatrice presso l'Istituto di Fisiologia generale dell’Università di Urbino e insegnante del corso di Neurobiologia), è persona di fede. Tre ambiti che per Carla sono accomunati dal senso del ricercare. Apertura, esplorazione e trasformazione, quindi. Interlocuzione, speranza e attesa. Scommessa, anelito e invocazione. E soltanto dopo, in subordine e con valore temporaneo, affermazione, definizione e catalogazione. In questo senso è un viatico leggiadro e insieme impegnativo – capace di scuotere perché apre – il “forse” messo nel titolo accanto ad “Anima”, quasi sostituisse un verbo impronunciabile, o un aggettivo segreto.
In questo poemetto la Scienza avvicina l’immateriale (l’Anima) per tentare di spiegarlo; ma al contempo l’immateriale (la Poesia) si accosta alla Scienza per cercare di spiegarla, fisicamente: perché non resti ripiegata su se stessa e venga illuminata in ogni sua parte da una luce che restituisce soggettività e vita ai suoi oggetti, e ai suoi artefici. S’intravede in filigrana un lascito lucreziano, nell’uso delle metafore che vengono in soccorso quando il ragionamento non può procedere, o dove s’intuisce la necessità d’un cambio repentino di piano.
Quale conoscenza in fondo non ha natura metaforica?
Si può forse dire che quella scientifica faccia eccezione?
La sua capacità di ricadere nella tecnica, fondandone i principi e assicurandone il funzionamento, rende forse le sue parole identiche alle cose, o aderenti a esse?

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