blog di Carlo Cuppini

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giovedì 11 luglio 2024

"Hotel Madridda" di Grazia Verasani

"Hotel Madridda" (Marsilio Editori) è un racconto lungo di Grazia Verasani, rarefatto nell’ambientazione e nella trama, quanto denso nelle emozioni che smuove e nelle riflessioni che suscita. Le coordinate sono vaghe: c’è stata una guerra, qualcuno ha preso il potere, gli avversari sono stati sbaragliati, il dissenso è stato cancellato e i suoi tentativi di rinascere vengono eliminati sul nascere. Il totalitarismo che impera naturalmente è per il bene dei cittadini, per la loro sicurezza: come sempre il totalitarismo è stato giustificato - e recepito dagli interessati - nel corso della Storia.

A fare le spese di questo assetto politico e sociale evidentemente è la libertà di opinione e di parola - e la comunità che ruota intorno alla protagonista del libro riunisce proprio anziani intellettuali e artisti che hanno avuto qualche alzata di testa, anche modesta magari, e quindi sono stati segregati in un luogo dove non possono nuocere. Ma la vera vittima è la voglia di vivere. Se, in assenza di qualunque speranza, i vecchi stanno attaccati alla vita e ai propri ricordi a oltranza, induriti e incattiviti, rivivendo continuamente una versione egoista e inacidita delle ideologie e dei valori che hanno animato le loro battaglie, i giovani si gettano nel vuoto per schiantarsi al suolo. Ultima e unica forma di libertà? Puro nichilismo, e quindi vittoria del sistema? Libertà o annullamento che sia, si tratta di una conquistata clandestina, e difficile: anche uccidersi è vietato, e il luogo prescelto dagli aspiranti suicidi è presidiato militarmente. Tuttavia ogni tanto qualche ragazzo o ragazza riesce a salire in cima all’Hotel Madridda - il cui incombente profilo Selma vede dalla sua finestra - e a lanciarsi di sotto.

La trama è minima, ma non è esile; accadono poche cose, e tuttavia il libro chiede di essere letto tutto d’un fiato. Vogliamo sapere urgentemente come va a finire quel nocciolo narrativo che è stato messo in moto. O come non va a finire. Vogliamo sapere se e in che modo il cupo espressionismo apocalittico che si dipana paragrafo dopo paragrafo ha a che fare con la nostra vita, con il nostro tempo, con il nostro futuro. Vogliamo capire se si tratta di una visione esistenzialista, o metafisica (kafkiana o buzzatiana o beckettiana, con un po’ del Pasolini di Teorema…), o se quel pungolo che sentiamo accanto al cuore è incuneato anche nella Storia, nella nostra storia recente, perfino.

Probabilmente ogni lettore troverà le sue risposte, e alcune domande resteranno aperte, con il loro carico di inquietudini. Ma qualche indizio ce lo dà l’autrice, fuori dal romanzo, nelle interviste. Quando dice, per esempio che: “L’idea di raccontare le derive psicologiche dovute a una repressione e a un sistema manicheo dove non ci sono più sfumature, fa parte della mia visione del mondo. Ma questo libro è nato di getto, in pochi mesi, anche se l’avevo covato e immaginato soprattutto nell’ultimo periodo della pandemia, quando eravamo in clausura. Forse si sente questa asfissia, questa libertà che manca, il respiro corto. E poi mi aveva molto colpito leggere dell’aumento dei suicidi tra gli adolescenti.”

Qui si potrebbe aprire una discussione su come e su quanto i bambini e gli adolescenti siano stati abbandonati durante la pandemia (e anche biasimati, colpevolizzati e perseguitati, quando sospettati di non recepire con sufficienti sollecitudine ed entusiasmo le raccomandazioni, dall’isolamento, alla mascherina alla vaccinazione); discussione che potrebbe continuare con una valutazione di quanto sia stato tolto loro in quella circostanza prolungata, e di come successivamente sia stato omesso qualsiasi ragionamento su possibili compensazioni, risarcimenti, riparazioni.

Invece è meglio lasciare che questa storia così potente si agiti e colpisca e risuoni dove le pare, dove incontri il giusto rapporto tra il duro e il morbido nell’animo di ogni lettore e lettrice. Anche perché, appunto, molti di noi hanno avuto la sensazione di essere stati toccati e scottati da quel “sistema manicheo dove non ci sono più sfumature”, in cui non si può più parlare. E poi, indulgere su queste specifiche vicende significherebbe rimpicciolire la portata dell’opera, che è ampia e lambisce lati oscuri dell’essere umano che sono capaci di manifestarsi nell’interazione con le più diverse sollecitazioni storiche, con le più svariate giustificazioni razionali.

Penso che le storie come questa – i sogni, gli incubi, le visioni scatenate con onestà e con altrettanta onestà consegnate alla loro libertà nel mondo, senza costringerle verso una o un’altra direzione - abbiano oggi il potere di portarci oltre la detonazione che indubbiamente c’è stata, e dalla quale forse non ci siamo ancora ripresi.

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