blog di Carlo Cuppini

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giovedì 8 maggio 2025

Piatto vuoto per Gaza - #ultimogiornodigaza

Raccolgo il messaggio della campagna #ultimogiornodigaza, che invita a parlare di Gaza, oggi 9 maggio, giornata dell’Europa, giornata in cui, se l’Europa non decide - pur con tragico, colpevole e irreparabile ritardo – di salvare Gaza e la gente di Gaza, l’Europa muore.
Raccolgo le parole del nuovo papa, “pace disarmata e disarmante”.
Non perché io - agnostico, alquanto anticlericale e ostile alle gerarchie - gli riconosca una particolare autorità; ma perché ha trovato un modo incisivo e lapidario per dire un’intera visione del mondo e per esprimere una postura esistenziale. Le raccolgo anche perché queste parole sono entrate nelle orecchie più o meno di tutto il mondo, e questo le rende, per qualche ora, più vibranti, più potenti, cariche di una qualche potenzialità.
La mia partecipazione alla tragedia di Gaza, il mio modo per indicare il genocidio in corso e la nostra storica, criminale omissione di soccorso, sarà un digiuno.
Perché un digiuno? A cosa serve il digiuno?
La prima risposta, stando sul piano della concretezza, è: “assolutamente a niente”.
La seconda risposta, relativa a un piano più sfumato e sfuggente, è articolata.
Il digiuno serve a se stessi, per calarsi “anima e corpo” nella realtà di una questione.
Serve a dedicare un tempo – e una parte importante di se stessi in quel tempo – a un tema struggente.
Digiuno è mettersi un pungolo dentro, che sta lì, si fa sentire, e continua a interrogarci: quanto sono in grado di provare veramente empatia? Quanto sono disposto a pagare per sentirmi intimamente, spiritualmente, più vicino alla sofferenza, alla morte, alla mutilazione, all’umiliazione, alla disperazione di queste persone?
Il digiuno è come legarsi un nastro al polso per ricordarsi continuamente di qualcosa; ma è più efficace di un nastro; e in più, è anche molte altre cose.
Il digiuno obbliga a cambiare ritmo e velocità, sia in senso fisico sia mentale.
Obbliga a rallentare, a usare una ponderatezza, una cautela, a dosare le energie.
In questo modo, conduce all’interno di uno stato prolungato di attenzione, di serietà, di concentrazione, di riflessione.
Porta spontaneamente a verificare e a rivedere le priorità.
Pone in una condizione di ascolto: di sé e anche degli altri. E anche del mondo, come lo conosciamo e come lo sentiamo.
Digiunare è fare tutte le cose quotidiane – alzarsi, lavorare, andare a prendere i bambini a scuola, fare la spesa – portandosi dentro un’assenza, un vuoto, che è come un punto interrogativo, è come olio sotto le scarpe. Quindi ogni cosa quotidiana viene fatta con un’altra lucidità, con meno automatismi.
Digiunare è richiamare un proprio coinvolgimento fisico in una certa questione, che non abitiamo, che possiamo soltanto pensare e immaginare.
Se non posso fare niente di utile, almeno me lo scrivo nel corpo, come qualcuno si farebbe un tatuaggio.
Se il digiuno inizia e finisce senza lasciare segni nel corpo fisico, è indubbio che nel “corpo interiore” (se mai si potesse parlare di una cosa del genere) lascia una tacca.
Digiunare è decidere di farsi dentro, nel corpo di dentro, quella tacca. Per essere uniti idealmente, per sempre, a qualcosa a cui ci sentiamo affratellati. Ci vogliamo sentire affratellati. In questo senso, è anche un impegno, un patto, di non dimenticare, di non passare oltre.
Il digiuno richiama la misteriosa importanza del non fare: se non posso fare niente, allora devo almeno “non fare” qualcosa. Forse questa affermazione suona paradossale. Potrebbe anche far sospettare la volontà di auto-infliggersi una punizione, per il senso di colpa di essere nato tra i privilegiati. Ma non è così. Non so argomentare meglio questo punto. Ha a che fare con la cultura della non violenza radicale.
Ci sarebbe anche da tirare in ballo il legame tra il digiuno e la forza della preghiera, o potremmo dire laicamente della meditazione; e in particolare la forza della preghiera o meditazione condivisa, quando è un percorso che si fa insieme. Ma - anche di questo - non sono capace di parlare.
Digiunare è un modo per spiegare a se stessi qual è il livello di serietà di una cosa. A quale altezza, rispetto allo scorrere della nostra esistenza, collochiamo il problema. Da questa spiegazione potrebbero discendere altre determinazioni. O no. C'è anche questa possibilità.
Digiunare è un modo per fermarsi e cambiare radicalmente prospettiva, in modo non programmato, non preordinato. E questo cambiamento è un fatto intimo, ma in qualche modo si irradia.
Digiunare è un modo per stare dentro la propria umanità nuda, cruda, scabra, spogliata, disarmata. È possibile che questo, in un qualche più o meno piccolo raggio d'esistenza nel proprio intorno, sia anche disarmante, in tutte le accezioni.
Il digiuno - che abbia la durata di un pasto o di una settimana - per me è tutte queste cose insieme, e altre ancora, ancora più difficili da esprimere.
Digiunerò per Gaza dalla sera di domenica 11 alla mattina di mercoledì 14.
Non lo scrivo qui perché suoni come un invito a unirsi. Penso che non si possa, non si debba – penso che non si potrebbe in nessun modo – invitare qualcuno a digiunare.
Lo scrivo perché penso che rendere pubbliche le nostre determinazioni, anche quelle interiori, su temi pubblici e politici della massima importanza, possa servire a incoraggiarci a vicenda, aiutandoci a trovare, ciascuno per sé, i modi più consoni per non starsene semplicemente abbandonati alla passività, allo sconforto, al disincanto.

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