Qualche giorno fa sono stato in una scuola primaria di Calenzano per incontrare le bambine e i bambini di una classe quarta che avevano letto il mio libro “Il mistero delle meraviglie scomparse” (Marcos y Marcos).
Come sempre, è stata per me un’esperienza bellissima, gratificante e commovente. I piccoli lettori avevano mille curiosità, tante domande intelligenti, una fila di osservazioni acute.
Mi hanno ascoltato con attenzione vibrante (nonostante la mia chiacchiera e le mie divagazioni), mi hanno mostrato con orgoglio i lavori creativi che hanno fatto a partire dal libro. In quello che vedete nella foto hanno rappresentato in modo tridimensionale, con grande cura, il bicchiere d’acqua in cui Filippo vede, come in una magica palla di vetro, l’immagine di un altro bambino che vive in una terra povera, forse tormentata da conflitti e violenze, in una capanna in cui non c’è praticamente nulla. Un bambino meno fortunato di Filippo, per nascita, soltanto per nascita. Al quale, in modo misterioso, è stato portato il gioco che il fiume Arno aveva sottratto a Filippo. È grazie a questa visione che Filippo accetta di separarsi da quel gioco - un bellissimo cavaliere argentato - e smette di aspettarsi la sua restituzione. In quel momento, in piedi in cucina, mentre nessuno lo osserva, diventa più grande, più consapevole di tante cose.
La storia del bambino senza nome visto dentro un bicchiere è solo una piccola storia nella storia, all’interno del mio libro: occupa soltanto poche righe, ma forse è il vero cuore del racconto. I bambini che ho incontrato venerdì scorso devono averlo capito, e hanno realizzato questa opera.
--
Al termine dell’incontro, una bambina mi si è accostata e mi ha detto, guardandomi con due occhi grandi come laghi: “Puoi scrivere una storia che parla di me?”
Sono rimasto spiazzato. Ci ho pensato un momento, poi le ho risposto: “Ti sto per rivelare un segreto: tutti i libri che leggerai ti parleranno un po’ di te. A me succede sempre e sono certo che se ci fai caso te ne accorgerai. È questo il vero motivo per cui ci piace tanto leggere.”
Era una risposta corretta, ma non era del tutto onesta. Perché quella bambina forse in parte voleva dire quello che io ho finto di intendere; ma per un’altra parte voleva dire: “Puoi raccontare la mia storia?”
--
In Palestina, nel 2009, tante bambine e bambini dei campi profughi con cui riuscivo a scambiavo quattro chiacchiere – a volte accanto alle macerie delle loro case abbattute in un recente raid israeliano punitivo (“nell’edificio viveva un sospetto terrorista”) – mi dicevano, con occhi grandi, vivi e malinconici: “Ricordati di noi, dei nostri nomi. Quando tornerai a casa tua, racconta la nostra storia.”
Io quegli occhi li ho guardati a fondo, a lungo, fino a vederli. Annuendo in silenzio, ho fatto loro una promessa. Di cui mi sono dimenticato diecimila volta, in questo tempo. Così mi sento come Caterina, il personaggio del mio “Logout”, quando, di fronte al racconto vibrante delle atroci ingiustizie commesse dentro la TuttoPer, che lei aveva visto con i suoi occhi e toccato con mano, lascia andare lo sguardo lontano, nel vuoto, e sussurra tra sé: “Avevo quasi dimenticato…”
--
“Racconta la mia storia.”
I bambini sanno benissimo che non tutto si potrà salvare. E non vogliono che gli si raccontino bugie, o storielle illusorie, o consolatorie. Vogliono storie che li aiutino a capire e a condividere quello che sanno, che sentono, che intuiscono, che temono. Attraverso la fantasia, l’immaginazione, la metafora, l’assurdo, il non senso, la magia, la poesia… va bene. Non certo attraverso il realismo socialista. Ma questo è un altro discorso, che non crea nessuna contraddizione con la frase precedente.
I bambini sanno che la loro infanzia non si potrà salvare, perché finirà. Sperano che resterà almeno il ricordo, ma non sempre ne sono certi. A volte i bambini sono obbligati a sapere che la loro casa, i loro beni, i loro affetti, i loro genitori, la loro stessa vita… potrebbero non salvarsi. Ma tutti sanno, allo stesso tempo, che in qualche modo misterioso – non del tutto appagante, forse, ma malinconicamente vero - le cose si possono salvare. Tutte le cose. I segreti dell’infanzia. Il senso di una vita troppo povera, troppo spaventosa, troppo breve… Tutto ciò che viene raccontato, è salvato.
“Racconta la mia storia.”
--
[Divagazione. Questo potere delle storie ha anche un lato oscuro. Nel momento in cui una tragedia uguale ad altre cento diventa una “storia”, per tutti coloro che la ascoltano questa diventa l’unica storia, e le altre scompaiono. La famiglia della dottoressa Alaa al-Najjar, sterminata da un bombardamento israeliano a Khan Jounis, è diventata una storia: la storia dei nove bambini uccisi e dell’ultimo figlio sopravvissuto che noi italiani dobbiamo accogliere e salvare. Pare che andrà così. È una storia terrificante, straziante, ma con una luce nel finale. Una luce che ci permetterà di dormire un pochino meglio, meno angosciati. Purtroppo - ed ecco il potere oscuro - questa storia ci permette di pacificarci in qualche modo con qualcosa che invece sta ancora gridando, e che noi non vediamo l’ora di smettere di ascoltare: il fatto che cose del genere sono accadute decine e centinaia di volte, a Gaza, negli ultimi mesi, e che continueranno ad accadere chissà per quanto tempo ancora. Tutte uguali. Famiglie intere sterminate. Bambini sepolti vivi sotto le macerie, lasciati a morire sotto le pietre perché anche i soccorsi sono impossibili. Bambini portati negli ospedali per venire amputati degli arti maciullati senza anestesia, nel tentativo disperato di salvare, se non l'integrità del corpo, almeno la nuda vita. Trasformare la vicenda di Alaa al-Najjar in una “storia” ci permette di abbassare il volume su tutte le altre vicende simili che non sono diventate e non diventeranno “storie”.)
--
Torno all’incontro nella scuola per raccontarvi ancora una cosa. Ancora storie…
Con la maestra Paola abbiamo rivangato un incontro avuto nella stessa scuola due anni fa, sempre intorno a “Il mistero delle meraviglie scomparse” che anche in quel caso gli alunni avevano letto in classe. Quella volta avevo proposto ai bambini un esercizio di immaginazione: “Immaginate che qualcosa di molto importante - la cosa per voi più importante - sparisca. Come nel mio libro spariscono le meraviglie di Firenze. Che cosa è scomparso? Che cosa provate? Che cosa succede dopo?”
“Vedete?” gli dicevo ascoltando le loro risposte spesso sorprendenti. “Togliere di mezzo qualcosa di importante – smettere di dare per scontata la sua presenza, potremmo dire - è un’azione che già mette in moto una storia, che chiede di essere raccontata, che ognuno di voi potrebbe raccontare…”
La maestra Paola mi ha ricordato che quella volta una bambina ci aveva spiazzati dicendo: "Un tombino". La cosa più importante, per lei, era un tombino. In mezzo alla strada. Nel tragitto dalla scuola alla casa.
“Quando vedo quel tombino capisco che sono quasi arrivata a casa e mi sento bene” ha spiegato. Per lei la scomparsa di qualunque altra cosa al mondo sarebbe stata meno problematica, meno dolorosa, della sparizione di quel tombino.
--
Questa storia non fa soltanto sorridere per la tenerezza: fa riflettere sul valore immateriale, immaginario, immaginifico, delle cose. Degli oggetti. Quelli meno prevedibili, magari. Delle abitazioni, delle città, delle strade, degli arredi, dei paesaggi. Di un tombino. Tutte queste cose sono riferimenti. Stelle polari. Ancore. Sono luoghi, o parti che compongono luoghi. Sono cose che ci salvano. Letteralmente. Inavvertitamente. (Ma alcuni bambini avvertono eccome, e sanno pronunciare, senza alcun imbarazzo, l’impronunciabile).
I racconti dalle New Town dopo il terremoto dell’Aquila ci parlano di questo: di questo disorientamento, di questa terribile perdita: perdita delle radici, dei luoghi, di quelle parti della psiche individuale e collettiva che si identificano con i luoghi. Che continuano in essi, come radici nel terreno. Le testimonianze degli sfollati di ogni parte del mondo – sfollati per qualsiasi motivo – ci parlano di questo. I migranti – se per caso ci degniamo di conversare con uno di loro in quanto persona, per qualche minuto, al di là della dinamica “chiedo denaro / do o non do denaro” – ci parlano di questo. Gaza, nel suo insieme e in ogni suo dettaglio millimetrico, con ogni suo abitante di ogni età, ci parla di questo.
--
Oggi sul sito di Repubblica campeggia un servizio intitolato, con duro gioco di assonanza, “Gaza tabula rasa”. Sottotitolo: “La distruzione sistematica e totale voluta da Israele. Dati e foto satellitari”.
La distruzione “sistematica e totale” di Gaza è già un genocidio. Lo sarebbe anche se, magicamente, nessun essere umano fosse stato trucidato, mutilato o ferito. Lo sarebbe in senso letterale - uccisione, cancellazione di un popolo - indipendentemente dall’appropriatezza giuridica del termine e dai precedenti storici (non solo la Shoa) in cui è stata impiegata ufficialmente.
Quel tombino, che era “la cosa più importante”, fa pensare a Gaza: a tutto ciò che viene tolto a quella terra, a quei bambini, a quella gente: letteralmente, tutto.
--
Facendo un altro salto nello spazio e nel tempo vado da Giorgio La Pira, il sindaco illuminato della Firenze del Dopoguerra che è stato un riferimento fortissimo durante la stesura del “Mistero delle meraviglie scomparse”. Il suo celebre discorso sulle città che hanno il diritto di esistere, di vivere, di non essere distrutte – tutte le città del mondo – perché sono una parte fondante e imprescindibile dell’anima dei popoli, mi ha guidato nell’immaginazione di questa fiaba. Distruggere le città, o mutilarle, significa distruggere o mutilare l’anima di un popolo, riducendolo a una somma di individui senza radici, senza riferimenti, senza legami, senza cultura, senza stella polare, senza ancore.
--
Ho scritto un lungo post, e vi ringrazio se siete arrivati fino a qui. Ma queste cose ve le volevo raccontare. Concludo con tre versi tratti da una poesia di Refaat Alareer, poeta palestinese ucciso a 44 anni a Gaza il 6 dicembre 2023, che forse riassumono in modo lapidario tutto il mio discorso:
“Se dovessi morire,
tu devi vivere
per raccontare la mia storia”

Nessun commento:
Posta un commento