blog di Carlo Cuppini

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martedì 29 aprile 2025

Origine, di Nat Cardozo

Questo libro dell’illustratrice uruguaiana Nat Cardozo, edito da L’Ippocampo, racconta con rispetto e semplicità la ricchezza della diversità di alcuni popoli "originari": quelle comunità indigene che sono rimaste fuori dal corso della Storia, o a suoi margini, e oggi rischiano di venirne definitivamente schiacciate (come accenna il testo in appendice, di tipo più informativo). 
Ma soprattutto racconta ciò che accomuna tutti questi popoli: una visione della natura come essere vivente di cui ogni persona e ogni gruppo fa parte, come una cellula o come un organo; e dalla cui salute e prosperità dipendono la salute e la salute di ciascuno. Inoltre, una vita che trova la pienezza nella pratica della moderazione, della riconoscenza e della reciprocità, e nel conseguimento della saggezza. Dove sottrarre alla natura più di quanto sia strettamente necessario è spesso considerato una colpa che deve essere punita. L'esatto opposto dei popoli che hanno scelto di contrapporre alla Natura la Storia e la Religione, prima, e poi la Scienza e la Tecnica. L’opposto dei popoli che hanno fatto la Storia. Che l’hanno inventata, intendendola come un continuo bivio tra sopraffare e appropriarsi, o essere sopraffatti e venire depredati. 

Questo libro mi fa pensare che anche noi, arrivati al termine di questa folle corsa che è stata la Modernità, non potendo tornare indietro fino alla nostra origine, della cui memoria non si conserva neanche la più remota eco, dovremmo almeno inventare un modo per ridiventare un po' indigeni. Che non significherebbe ripudiare i prodotti materiali e immateriali della Modernità; ma dare sempre più peso ad altre cose, più spazio ad altri comportamenti, più nutrimento ad altre relazioni e visioni, più fiducia in un'altra idea di pienezza della vita. Finché quelli - i prodotti della Modernità - non finirebbero spontaneamente per interessarci sempre meno.

lunedì 21 aprile 2025

Spaziale papale



Papa Francesco era venuto dalla fine del mondo.
Il mio unico racconto papale viene dal mondo senza gli atomi. 
Mi sa che oggi glielo devo proprio dedicare...
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Spaziale papale
Dallo spazio, il papa continuava a lanciare messaggi, benché sulla Terra non ci fosse rimasto nessuno a riceverli. Da quando era stato lanciato in orbita, appena un mese prima, le cose sul terzo pianeta erano precipitate e l’umanità si era estinta in capo a una settimana, portando con sé ogni altra forma di vita. Un olocausto generale, colossale, rapido e indolore. Ma questo il papa non lo poteva sapere. Da lassù aveva percepito il divampare di incendi smisurati, di dimensioni bibliche, estesi su tutti i continenti; negli ultimi giorni l’atmosfera gli si presentava rossastra e caliginosa, impedendogli quella limpida visione di cui aveva potuto godere appena aveva iniziato a galleggiare nell’orbita terrestre. Il papa non immaginava però che l’interruzione delle comunicazioni con la Terra potesse essere causata dalla scomparsa del genere umano; pensava piuttosto a un problema tecnico, di trasmissione dei dati, come era facile sperimentarne anche laggiù, nonostante le tecnologie avanzate, con il telefono o con il web. Di certo, presto avrebbero mandato qualcuno a riparare quello che andava riparato, il microchip sotto la papalina, probabilmente. O forse (questa era l’ipotesi più ottimistica) il problema stava là, sulla Terra, e i tecnici lo stavano già risolvendo: entro poche ore, si diceva il papa, la comunicazione sarebbe tornata regolare.
Intanto, nel dubbio che le trasmissioni dalla sua postazione alla Terra andassero ancora a buon fine, anche senza avere feedback, il papa continuava a mandare i suoi dispacci con regolarità.
«Una bellissima cometa sta sfiorando un asteroide roccioso, o un meteorite, non so. Per fortuna non ci sono stati incidenti».
«Vedo una nube galattica avvicinarsi rapidamente alla Terra. Prevedo un pomeriggio di foschia e piogge stellari».
«Dio sta dormendo da tre ore. Russa leggermente. Adesso si sta girando su un fianco».
«La Madonna manda a dire che in casa stanno tutti bene e ringrazia per le candele accese questa mattina a Bogotá».
Il papa non vedeva né nubi galattiche, né Madonne, né Dio. Ma qualcosa doveva pur raccontare all’umanità in ascolto. Si erano adoperati tanto per spedirlo lassù, incorporandogli un comodissimo procura-ossigeno-e-cibo a pannelli solari. E poi l’entusiasmo incontenibile, sia dei fedeli che degli atei: tutti lo avevano incoraggiato, pregato, amato, invidiato. Il papa in orbita… Che idea formidabile! Non aveva potuto tirarsi indietro e alla fine aveva accettato di buon grado.
Adesso si godeva bellissimi panorami astrali e non doveva preoccuparsi di nulla, se non di dare un po’ di speranza alla gente, facendo magari un po’ di intrattenimento di qualità. Non come prima, sulla Terra, che era pieno di rotture di scatole che neanche il presidente degli Stati Uniti poteva immaginare. Adesso, per esempio, se gli veniva da orinare, doveva solo calarsi le braghe e farla lì, davanti a sé, nello spazio infinito: una bolla di liquido giallo che fluttuando si andava a disperdere tra i misteri del cosmo. Lo stesso valeva per i bisogni più solidi. Che incanto, assistere alla lenta deriva degli escrementi! Che straordinaria senso di libertà!
Il papa era l’uomo più felice del mondo. Non si sentiva così da quando, bambino, si andava a nascondere sui covoni di fieno graffiandosi tutte le ginocchia, quando i genitori lo chiamavano per dire che era pronto in tavola e lui non voleva mai andare.
Nel suo idillio spaziale, niente poteva fargli credere che l’umanità aveva appena scritto l’ultima pagina della sua storia. Ma probabilmente, anche se la notizia avesse potuto raggiungerlo, non si sarebbe dato gran pena.
L’ultimo uomo se ne stava là beato, completamente spensierato e quasi felicemente inebetito, lieto di come si apprestava a condurre l’ultimo scampolo della sua fin troppo lunga vita, la veste bianca rigonfia di sbuffi cosmici, ciondolante come una vecchia campana.

lunedì 7 aprile 2025

Notte, di Emanuela Nava (Pulce Edizioni)

Come le fiabe - e come tutte le storie di Emanuela Nava - “Notte” è un racconto che attraversa luoghi oscuri e profondi dell’anima. 
Come le fiabe, è anche una storia luminosa e piena di promesse: promette premi, però, che possono essere guadagnati soltanto al prezzo di compiere percorsi pericolosi, cedevoli, fatti di spaventi, turbamenti, dubbi ed errori. Dove il coraggio non è il contrario della paura ma è il dono, in forma di possibilità, che l’avere paura offre.

Per attraversare questi luoghi oscuri e profondi e raggiungere, almeno temporaneamente, la luce del giorno, non vanno bene le trame lineari, apollinee, che procedono come rompighiacci narrativi nel materiale indistinto della vita. Bisogna procedere per volute, spire, ondate, assopimenti e risvegli, intuizioni ed esitazioni, decisioni improvvise, parole avventate.

È questo il modo in cui passa la notte più importante di Maia, adolescente in bilico sul bordo dell’infanzia, e di Luigi, il fratello maggiore che non sa ancora qual è il suo posto nella vita. Maia è attratta e e spaventata dal grande salto che sente di dover compiere; ascolta tutto, ha antenne sensibili, cerca segnali che le diano chiarezza e comprensione, e li capta dovunque: nei doni che le fa il salice, nei rumori notturni della casa in cui lei e Luigi sono rimasti eccezionalmente soli, senza genitori e anche senza corrente, in un buio che è labirinto, pericolo e anche ri-velazione. Un serpente intrufolatosi in casa, i libri dell’infanzia, la fiaba di Biancaneve, la paura di confrontarsi con i genitori, e quella di essere abbandonati da loro, la paura di crescere e quella di non riuscire a crescere. Il coraggio che si rende necessario, e che porta chiarezza nel cuore: un colpo netto che fa suonare all’unisono e in armonia le sue corde.

Il teatro, i burattini, il bosco e i suoi animali, il viaggio, la fratellanza, con la sua forza solare, la sua notturna ambiguità. Il buio che fa vedere, la luce che acceca; il buio che nasconde, la luce che costringe le cose a mostrarsi nel loro ordine. La solitudine, infine: il luogo dove non si è separati dagli altri e dal resto mondo, ma dove si attinge alla sorgente del Sé. 

Tanti simboli, tanti riferimenti, espliciti o nascosti, a figure e significati della ricerca interiore, psicologica, archetipica.

Questo è Notte, e altro ancora. Perché non tutto si può dire.

PS: La lettura mi ha tanto più coinvolto ed emozionato, essendo la mia, nostra (in fondo sua e basta) Maia così vicina alla Maia del libro. Sul bordo dell’infanzia, incerta se saltare indietro o in avanti; nello sguardo, a volte, un labirinto in cui si intrecciano liane di luce e di buio, da attraversare da sola; nel volto, in certi momenti, la gravità di chi sa che non può sottrarsi a un compito che l’aspetta, che pare troppo grande e costoso. Ma è la vita.

sabato 5 aprile 2025

Rivista Malamente

Per il mio compleanno avevo espresso un desiderio: l'abbonamento a "Malamente. Rivista di lotta e critica del territorio". Ci ha pensato Ramona a esaudirlo e la prima busta con l'ultimo numero, insieme a un arretrato e a un libro in omaggio, è arrivata ieri.

Finora ho letto soltanto occasionalmente gli articoli di "Malamente" disponibili on-line. Oggi sento sempre più il bisogno di sostenere le iniziative che costituiscono e costruiscono alternative, culturali, produttive, sociali e politiche.

Sostenerle significa dare loro ossigeno per andare avanti; significa nutrirsi in modo più profondo e più continuativo delle riflessioni che portano avanti; significa, infine, sentire di farne in qualche modo parte.

Quest'ultimo aspetto per me non è secondario.

Tra i dissidenti, i critici, gli sbigottiti che mi capita di incontrare, dal vivo o in altre forme, la riflessione ricorrente, e dolente, è: siamo soli, disorientati, abbiamo preso ogni riferimento e ogni senso di appartenenza, gli esperimenti politici che avrebbero dovuto rappresentarci sono stati dei disastrosi fallimenti... Che fare?

È una sofferenza psicologica e sociale, arriverei a dire esistenziale, che per molti come me si è acuita in modo insopportabile durante la pandemia, e che per molti aspetti (anche a causa dell'assenza di una riflessione collettiva sui fatti pandemici, ma per molte altre più attuali cause) continua a persistere.

Inoltre i social ci hanno fatto e ci fanno incontrare, tra consimili e consentanei, e questo è un bene. Ma la cosa rischia di finire lì. Certo, è importante poter continuare a condividere riflessioni in questi spazi, e usarli per promuovere iniziative reali sul territorio. Ma la dinamica di fondo dei social è quella che ci porta a vedere soltanto i "trend topic", le notizie del giorno passate sui siti dei media, e a fare battaglie di link e screenshot, e a spendere la nostra intelligenza e la nostra energia in un continuo moto di reazione. La reazione è positiva, perché mobilita forze fresche; ma non è mai una creazione: porta sempre con sé l'impronta di ciò che ha suscitato la reazione, in negativo, e poco altro. Cosa diventeremo, di questo passo? E cosa NON diventeremo?

Dobbiamo cercare di andare oltre i social, continuando a usarli per sfruttare la loro utilità, consapevoli però della loro caratteristica energivora, illusoria e ipnotica. E cercare, appunto, di incrociare esperienze concrete, territoriali, sociali, che possono essere vicine o lontane da noi, ma a cui in qualche modo possiamo apparentarci. Sostenendole, nutrendocene e facendone parte.

Di "SuperLunaria" ho giù parlato più volte. È una rivista, un progetto e anche, sempre più, una comunità di dissenso e di creazione di altri sensi.

"Malamente" è un progetto che da anni raccoglie, studia, promuove la cultura libertaria e anarchica, ascoltando e riportando soprattutto le esperienze concrete delle persone, delle comunità e dei territori. Con una parte dedicata alla teoria e al pensiero libertario, anti autoritario e antimilitarista.

"Malamente", durante la pandemia, non si è fatta irretire dai ricatti morali ed rimasta attacca al proprio percorso e alle proprie convinzioni, criticando gli aspetti autoritari della gestione. Questo la rende unica.

Dalla rivista Malamente sono nate più recentemente anche le Edizioni Malamente, una piccola casa editrice indipendente che molto seriamente propone pubblicazioni di grandissimo interesse, sempre incentrate sulla critica del potere e sul pensiero libertario e sulla costruzione di alternative nel territorio.

Per tutti questi motivi credo che i 20 euro richiesti per sottoscrivere l'abbonamento annuale e ricevere 4 numeri trimestrali, siano 20 euro veramente ben spesi.

venerdì 4 aprile 2025

"Adolescence". O dell'innocenza sconvolgente (attenzione: spoiler)

Adolescence mi è sembrato un oggetto filmico alquanto misterioso. Contribuisce a questa impressione lo stile di regia, basato sulla scelta radicale di usare un unico piano sequenza per ognuno dei quattro episodi. Senza cesure temporali, quindi, né salti spaziali o cambi di inquadratura. Il tempo della narrazione coincide con quello dei personaggi e con quello dello spettatore. L'effetto è allo stesso tempo straniante e iper-coinvolgente. Data la trama, questa scelta comporta che ci siano lunghe sequenze in cui non si vede altro che dolore, o sbigottimento, ma soprattutto il dolore di questo o quel personaggio, per tutta la sua estenuante e deformante durata. L'assenza di cesure, omissioni, sintesi, costrutti linguistici (certo, solo apparentemente), potrebbe far parlare di una "pornografia della sofferenza".
C'è poi il depistaggio del titolo, che alla fine lascia in testa la domanda: dato che questo film NON parla di adolescenza, di cosa parla? 
Parla di un adolescente, ma questo non sembra essere il punto centrale: la serie non potrebbe intitolarsi “Jamie".

Secondo me potrebbe intitolarsi "Innocence". È questo il tema segreto e inconfessabile del film, mi pare. Inconfessabile perché, dichiarandolo, apparirebbe inaccettabilmente provocatorio, visto che al centro della trama c'è un femminicidio. E il termine “innocenza” non sarebbe riferito alla condizione della vittima, ma a quella dell'assassino. 

Perché innocenza? Quale innocenza? 

L'inizio del film è disturbante e doloroso: quando Jamie, il protagonista tredicenne, viene prelevato brutalmente da casa dalla polizia, noi non possiamo credere che quel ragazzino dall'aspetto così infantile e fragile e inerme, con la sua disperazione, possa avere compiuto il crimine di cui è accusato. In fondo Jamie è solo "un bambino di tredici anni", come dice lui stesso alla psicologa in seguito. A chi potrebbe fare paura? Come potrebbe essere colpevole?

Per tutto il tempo Jamie si dichiara innocente. Interrogato dal padre, nega di avere compiuto il delitto. Di fronte alla videoregistrazione che mostra il fatto, dice che non è vero, che un film può anche non mostrare la verità.
Lì, davanti a quel video, il padre di Jamie crolla: capisce che il figlio ha davvero commesso un assassinio e il mondo gli cade addosso.

Noi però non ci crediamo, che sia stato Jamie. Non ci crediamo perché Jamie non ci crede. Se Jamie si dichiara innocente non è perché mente, è perché è, deve essere innocente. Di un'innocenza spaventosa, pericolosa, metafisica, difficile anche soltanto da pensare. Perché pensarla significa aprire una domanda che riguarda il rapporto tra un ideale stato di natura degli individui, dove la vita si rigenera di continuo e ognuno è solo ciò che è in quel momento, e le norme sociali necessarie, che riconducono ogni fatto e ogni persona all’interno di una vasta e complessa narrazione condivisa. 

Che Jamie sia innocente non lo pensiamo noi spettatori perché abbiano strampalate, ambigue e magari aberranti idee filosofiche: lo dice il film stesso. Non attraverso la trama - che è di una semplicità e di chiarezza disarmanti, al limite della banalità - ma attraverso alcuni usi particolari del linguaggio cinematografico. Lo dice attraverso la fisionomia di Jamie, e attraverso il tipo di interpretazione richiesta al giovane attore che lo interpreta; attraverso l'indugiare pressante e compassionevole della camera a mano sul suo volto; attraverso i pochi ma significativi inserti musicali, che nei momenti cruciali sono litanie malinconiche cantate da voci bianche. Queste sembrano avere il compito di sublimare la storia in una dimensione ambiguamente angelica. 
(Considerato tutto il contesto, viene in mente l'uso "metafisico" che il Pasolini regista fa della musica, per rivelare i limiti del Neorealismo e allo stesso tempo, aprendo squarci di altrove nel tessuto del racconto realistico, superarli.) 

Dunque Jamie è innocente, qualunque cosa abbia fatto, perché - metaforicamente - è un angelo. Gli angeli tifano per lui, e lavorano per suscitare la nostra empatia. Non c'è crimine, assassinio, femminicidio che tenga. 

Perché Jamie è un angelo, mentre Turetta e quelli come lui sono dei criminali tra i peggiori? 
Perché Jamie vive nel mondo della finzione, e i suoi autori hanno deciso di assegnargli questo ruolo, questa condizione. Tutto qui. La realtà è un'altra cosa, funziona in un altro modo. E Adolescence parla solo in parte della realtà.
Mi pare infatti che la serie parli soprattutto di finzione. Di letteratura. Di narrativa. Di come il senso della vita tenda a uniformarsi ai significati e agli schemi di una narrazione potenziale. La vita di per sé è cruda e informe, non ha senso, non ha regole, schemi, traiettorie, stili, limiti. La narrazione ha e deve avere tutte queste cose.

Il film sembra dirci che, nella vita, nella sua vita cruda, Jamie è innocente, per davvero, perché veramente non è stato lui
Chi è stato allora? Non lo sappiamo. Una forza che si è impossessata di lui? Un raptus che lo ha attraversato come una scossa elettrica? Una parte di lui, che in quel momento ha preso il controllo del suo corpo, ma che non è LUI? Un lui del passato, che ha cessato di esistere nel momento in cui si è conclusa l’azione, e che, di nuovo, non è LUI? Il Diavolo o altre entità del genere? Non lo sappiamo. A un certo punto smettiamo di chiedercelo.

Molte critiche e recensioni si sono concentrate sugli aspetti sociologici della serie, come se fosse un'opera di critica sociale, o di denuncia, o con un qualche valore didattico ed edificante. Non credo sia così. La serie tocca alcuni temi sociali, è vero: Jamie viene bullizzato nella sua sfera relazionale e sessuale da quella che sarà la sua vittima; Jamie è condizionato da assurde teorie maschiliste e misogine apprese online e circolanti nella sua scuola; Jamie è insicuro e privo di autostima, e però è portato a reagire con violenza fisica; Jamie ha un rapporto problematico con il padre, del quale teme di non essere all'altezza … Ma tutto questo è talmente esile e superficiale, nell’economia dell’opera, da non poterne costituirne il nocciolo. 

Dunque, su un certo piano esistenziale Jamie è innocente, ci dicono gli sguardi della camera e i cori angelici. Ma nella narrazione Jamie è indubbiamente colpevole. 
Come se ne esce? Ecco come: la vita dovrà finire per uniformarsi alla narrazione.
Perché i due piani convergano e si sovrappongano, Jamie deve diventare un personaggio pirandelliano: un attore consapevole del suo ruolo nella commedia (anzi, tragedia).
Nell'ultimo episodio – dove Jamie non si vede mai, ma ne udiamo la voce nel corso di un'ultima, esiziale telefonata al padre – il ragazzo sembra avere compreso che la sua vita è sovrastata da una narrazione che assegna ai suoi gesti un determinato, ineluttabile e irreversibile significato. Sembra accettare il fatto che i suoi autori abbiano imbastito una storia che, date le forze messe in campo e le coordinate stabilite, DEVE necessariamente finire con due vittime. Una è la ragazza che "non lui" ha ucciso, che LUI non avrebbe mai ucciso. L'altra vittima designata è lui, che non può sottrarsi alla funzione narratologica in cui è stato imprigionato.
È con una serenità soave, sovrumana, terrificante, che Jamie informa il padre che al processo si dichiarerà colpevole. E, paradossalmente, è proprio questo il momento in cui la sua innocenza appare completa, assoluta, inconcepibile e incrollabile. Un’innocenza sconvolgente e perturbante, di cui sappiamo soltanto una cosa: che non è sinonimo di incolpevolezza.