blog di Carlo Cuppini

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domenica 18 maggio 2025

Lunedì senza i social, e la raccolta di poesie e opere d'arte "Oltre le maschere"

Il telefono sempre in tasca. Per concederci la libertà di contattare chiunque, in qualunque momento, e di fare mille altre cose. Per dare agli altri la libertà di raggiungerci.
Va bene. Ma se...
Se esistesse una libertà che deriva dal rinunciare a qualche libertà? Una libertà più antica e più grande, inattuale, irragionevole e inebriante, paradossale ma concreta e a portata di mano? 

Non poter appoggiare la mente su uno schermo mentre aspettiamo l’autobus.
Non poter avvertire che siamo in ritardo.
Non poter cercare una destinazione su maps.
Non poter cercare un’informazione su google.
Non poter controllare se sono sbarcati gli alieni proprio un minuto fa, nel nostro quartiere.
Non poter essere rintracciati dalla polizia in caso di rapimento, o di nostra fulminea amnesia…

martedì 13 maggio 2025

Raccoglimento

Il mio lunedì senza social ieri è andato benissimo. E il vostro?
Essendo sovrapposto al primo di due giorni di digiuno per Gaza, ho riflettuto a lungo sul tema del "raccoglimento". Quando non butti nella pancia il cibo, raccogliersi è inevitabile. Anche se magari stai lavorando, o facendo le solite cose di tutti i giorni.
Forse il raccoglimento è il vero e potente antidoto all'esternalizzazione, alla frammentazione, alla nevrotizzazione della personalità che un uso compulsivo, o anche solo intensivo, dei social comporta.
Il raccoglimento è un vero spauracchio per la società del consumo, dell'usa e getta (anche nelle relazioni), della performance, dello spettacolo, dell'immagine, della notifica, dell'insicurezza, dell'appagamento istantaneo (di desideri e bisogni indotti), dell'horror vacui.
Il raccoglimento ci richiama a una centratura possibile, a una pazienza che non vuole riempire sempre tutto, e non pretende che la mente sia sempre intrattenuta da una tempesta di stimolazioni esterne (notizie, post, commenti, commenti di commenti, meme, notifiche, storie...), pena un attacco d'ansia.
Il raccoglimento richiama il senso dell'intimità e dell'interiorità. Due "strati" dell'essere che non per niente sono vietati e perseguitati nella più vecchia, attuale e raggelante distopia: quella del "Mondo nuovo" di Aldous Huxley.
E pensandoci bene, anche da noi cominciano a essere dimensioni piuttosto malviste.
Ieri mi è venuto in mente un passaggio dell'importante libro di Giulio Milani "Codice Canalini" (ne ho parlato qualche post fa). L'ho ricercato e ve lo propongo Leggete queste righe.
Anche noi abbiamo fatto parte di questo numero di lettori che si sono perduti, o si sono assottigliati?
Io, pur essendo un lettore moderatamente forte, sicuramente sì, lo sono stato, in diversi momenti, e per periodi prolungati: l'uso dei social - magari per cause che mi apparivano buone e importanti - mi ha tolto un sacco di tempo e, oltre a molte altre cose, un sacco di letture.
Si fa sempre in tempo a invertire la rotta: tenere il buono (anche dei social, perché no?) e scrollarci selvaggiamente di dosso le trappole, i buchi neri del tempo e dell'energia, i gesti compulsivi e coatti, le lusinghe del "tanto è gratis", i canti delle sirene.




"1999", un romanzo a puntate di Paolo Di Paolo

Paolo Di Paolo ha annunciato che scriverà un romanzo in venti puntate, una a settimana, che saranno rese disponibili con la stessa cadenza a chi si iscriverà a questo sito. L'editore che produce questa opera-esperimento è La nave di Teseo. Le puntate saranno offerte agli interessati gratuitamente. Il perché e il percome di questo progetto Di Paolo li spiega qui: https://www.facebook.com/share/p/1ATjNGSyYB/
Mi pare un'iniziativa interessante e lodevole.
Di Paolo è scrittore abile e persona sensibile e intelligente. I suoi interventi pubblici sono talvolta stimolantemente controcorrente. E questi sono dei motivi in più per incuriosirsi e seguire la vicenda.
Anche il fatto di avere un appuntamento settimanale con la letteratura, slegato dai propri eventuali percorsi di lettura, mi stuzzica: sarà un piccolo tempo in più da trovare nella settimana, togliendolo ad altre attività, quelle futili. Leggere la nuova puntata di "1999" sarebbe per esempio un ottimo proposito per i nostri lunedì senza i social.




venerdì 9 maggio 2025

Presidente Mattarella, dove sono i bambini di Gaza?

Ill.mo Presidente della Repubblica Sergio Mattarella,
Le scrivo questa lettera perché lei rappresenta il vertice e allo stesso tempo l’insieme organico delle istituzioni italiane.
Per la stessa ragione, poiché le istituzioni sono di tutti i cittadini, oltre a inviargliela la rendo pubblica.
L’argomento è Gaza.
Non lo sollevo per fare o chiedere considerazioni sulle ragioni di ciò che sta accadendo, sul contesto, sul diritto alla difesa, sul diritto di combattere contro un’occupazione militare e un assedio, sulla proporzione e la legittimità delle azioni e delle ritorsioni delle due parti, sul diritto internazionale. Non intendo parlare del ruolo e della posizione dell’Italia rispetto a questa situazione.
La domanda che pongo, in effetti, riguarda esclusivamente il nostro Paese.
Perché non abbiamo accolto e non stiamo accogliamo in Italia i civili di Gaza, che sono oggettivamente messi a repentaglio ogni giorno, e che non possono essere accusati di alcuna responsabilità in ciò che è accaduto e che sta accadendo, e le cui vite vengono stroncate inesorabilmente, sistematicamente, giorno dopo giorno, da venti mesi?
È una domanda vaga, lo so, tacciabile di ingenuità.
Perciò gliene affianco un'altra più concreta e circostanziata.
Perché dopo il 7 ottobre 2023 nelle scuole italiane non sono arrivati migliaia di bambini palestinesi, come dopo il 22 febbraio 2022 ne sono arrivati migliaia di ucraini?
Chiunque abbia figli in età scolare ha vissuto in prima persona l’accoglienza dei piccoli profughi minacciati dai missili russi. In quell’occasione l’Italia, come Paese, ha messo in moto una tempestiva ed efficiente macchina del soccorso, dell’accoglienza e dell’integrazione.
Sul sito del Ministero dell’Istruzione e del Merito si legge che “le studentesse e gli studenti ucraini accolti sono 22.788, di cui 5.060 nella Scuola dell'infanzia, 10.399 nella Primaria, 5.226 nella Secondaria di primo grado e 2.103 nella Secondaria di secondo grado.” La nota è datata 10 maggio 2022, perciò sono numeri relativi ai primi due mesi di aggressione russa.
Non abbiamo perso tempo, in quel caso, né badato a opportunità, difficoltà e spese.
Personalmente credo che possiamo essere orgogliosi di questa condotta. Di un orgoglio da non sbandierare, perché in fondo non abbiamo fatto altro che ottemperare a un dovere: quello del soccorso, appunto, della protezione di giovani vite umane.
Per i nostri figli, l’accoglienza dei bambini ucraini è stata ed è un’esperienza significativa e umanamente formativa, capace di far toccare con mano il valore della solidarietà, l’orrore della guerra, la possibilità e la bellezza dell’accoglienza e dell’integrazione (quando ci siano volontà e investimenti).
Allora, Presidente, torno a domandarlo:
Perché nelle nostre scuole non ci sono le bambine e i bambini, le ragazze e i ragazzi di Gaza?
Che cosa li rende indegni di essere soccorsi, salvati, protetti, curati e istruiti?
Quali difficoltà, quali cavilli, quali ostacoli, quali conflitti diplomatici potrebbero contrastare la volontà di un Paese come l'Italia di salvare e proteggere quei bambini, se tale volontà ci fosse?
La richiesta di accogliere i bambini e i ragazzi di Gaza nelle scuole italiane è stata posta alle istituzioni italiane, tempestivamente, a poco più di un mese dall’inizio della distruzione di Gaza, anche attraverso un appello firmato da alcune migliaia di docenti.
Non so se sia mai stata data risposta a questo tentativo di interlocuzione. Di certo le cose non sono andate come auspicato dai firmatari.
Presidente. Oltre a macchiarci di un disumano e incancellabile crimine di omissione di soccorso – con implicita condanna a morte tra sofferenze atroci per molti bambini – stiamo anche insegnando ai nostri figli che ci sono bambini che “meritano” di essere soccorsi, salvati e protetti (a proposito di “merito”...) e bambini che non lo meritano. E che in ogni caso non è questione di umanità e di morale: è esclusivamente una questione di opportunità, anzi di opportunismo politico.
Presidente, stiamo insegnando ai nostri figli che il fatto di essere bambini e ragazzi non ha nessun valore di per sé; che non garantisce nessuna tutela di per sé. Perché tutto dipende dall’aggettivo che viene dopo. Stiamo insegnando loro che potresti contare meno del fango, se nel tuo caso dopo “bambino” ci fosse l’aggettivo sbagliato. Anche se il bambino con l’aggettivo giusto potrebbe in tutto e per tutto essere tuo fratello o il tuo compagno.
In conclusione, ripeto per la terza volta la stessa domanda, e questa volta chiarisco che non si tratta di una domanda retorica, che vale come un’invettiva o un’accusa. Non voglio inveire né accusare. La battaglia politica si fa nelle sedi opportune.
Io vorrei, voglio, penso di poter pretendere, una risposta a questa domanda:
Perché nelle scuole italiane non ci sono bambini salvati dalla distruzione di Gaza?
Con civile disperazione,
Carlo Cuppini

Lettera inviata al Presidente della Repubblica il 9 maggio 2025.

giovedì 8 maggio 2025

Piatto vuoto per Gaza - #ultimogiornodigaza

Raccolgo il messaggio della campagna #ultimogiornodigaza, che invita a parlare di Gaza, oggi 9 maggio, giornata dell’Europa, giornata in cui, se l’Europa non decide - pur con tragico, colpevole e irreparabile ritardo – di salvare Gaza e la gente di Gaza, l’Europa muore.
Raccolgo le parole del nuovo papa, “pace disarmata e disarmante”.
Non perché io - agnostico, alquanto anticlericale e ostile alle gerarchie - gli riconosca una particolare autorità; ma perché ha trovato un modo incisivo e lapidario per dire un’intera visione del mondo e per esprimere una postura esistenziale. Le raccolgo anche perché queste parole sono entrate nelle orecchie più o meno di tutto il mondo, e questo le rende, per qualche ora, più vibranti, più potenti, cariche di una qualche potenzialità.
La mia partecipazione alla tragedia di Gaza, il mio modo per indicare il genocidio in corso e la nostra storica, criminale omissione di soccorso, sarà un digiuno.
Perché un digiuno? A cosa serve il digiuno?
La prima risposta, stando sul piano della concretezza, è: “assolutamente a niente”.
La seconda risposta, relativa a un piano più sfumato e sfuggente, è articolata.
Il digiuno serve a se stessi, per calarsi “anima e corpo” nella realtà di una questione.
Serve a dedicare un tempo – e una parte importante di se stessi in quel tempo – a un tema struggente.
Digiuno è mettersi un pungolo dentro, che sta lì, si fa sentire, e continua a interrogarci: quanto sono in grado di provare veramente empatia? Quanto sono disposto a pagare per sentirmi intimamente, spiritualmente, più vicino alla sofferenza, alla morte, alla mutilazione, all’umiliazione, alla disperazione di queste persone?
Il digiuno è come legarsi un nastro al polso per ricordarsi continuamente di qualcosa; ma è più efficace di un nastro; e in più, è anche molte altre cose.
Il digiuno obbliga a cambiare ritmo e velocità, sia in senso fisico sia mentale.
Obbliga a rallentare, a usare una ponderatezza, una cautela, a dosare le energie.
In questo modo, conduce all’interno di uno stato prolungato di attenzione, di serietà, di concentrazione, di riflessione.
Porta spontaneamente a verificare e a rivedere le priorità.
Pone in una condizione di ascolto: di sé e anche degli altri. E anche del mondo, come lo conosciamo e come lo sentiamo.
Digiunare è fare tutte le cose quotidiane – alzarsi, lavorare, andare a prendere i bambini a scuola, fare la spesa – portandosi dentro un’assenza, un vuoto, che è come un punto interrogativo, è come olio sotto le scarpe. Quindi ogni cosa quotidiana viene fatta con un’altra lucidità, con meno automatismi.
Digiunare è richiamare un proprio coinvolgimento fisico in una certa questione, che non abitiamo, che possiamo soltanto pensare e immaginare.
Se non posso fare niente di utile, almeno me lo scrivo nel corpo, come qualcuno si farebbe un tatuaggio.
Se il digiuno inizia e finisce senza lasciare segni nel corpo fisico, è indubbio che nel “corpo interiore” (se mai si potesse parlare di una cosa del genere) lascia una tacca.
Digiunare è decidere di farsi dentro, nel corpo di dentro, quella tacca. Per essere uniti idealmente, per sempre, a qualcosa a cui ci sentiamo affratellati. Ci vogliamo sentire affratellati. In questo senso, è anche un impegno, un patto, di non dimenticare, di non passare oltre.
Il digiuno richiama la misteriosa importanza del non fare: se non posso fare niente, allora devo almeno “non fare” qualcosa. Forse questa affermazione suona paradossale. Potrebbe anche far sospettare la volontà di auto-infliggersi una punizione, per il senso di colpa di essere nato tra i privilegiati. Ma non è così. Non so argomentare meglio questo punto. Ha a che fare con la cultura della non violenza radicale.
Ci sarebbe anche da tirare in ballo il legame tra il digiuno e la forza della preghiera, o potremmo dire laicamente della meditazione; e in particolare la forza della preghiera o meditazione condivisa, quando è un percorso che si fa insieme. Ma - anche di questo - non sono capace di parlare.
Digiunare è un modo per spiegare a se stessi qual è il livello di serietà di una cosa. A quale altezza, rispetto allo scorrere della nostra esistenza, collochiamo il problema. Da questa spiegazione potrebbero discendere altre determinazioni. O no. C'è anche questa possibilità.
Digiunare è un modo per fermarsi e cambiare radicalmente prospettiva, in modo non programmato, non preordinato. E questo cambiamento è un fatto intimo, ma in qualche modo si irradia.
Digiunare è un modo per stare dentro la propria umanità nuda, cruda, scabra, spogliata, disarmata. È possibile che questo, in un qualche più o meno piccolo raggio d'esistenza nel proprio intorno, sia anche disarmante, in tutte le accezioni.
Il digiuno - che abbia la durata di un pasto o di una settimana - per me è tutte queste cose insieme, e altre ancora, ancora più difficili da esprimere.
Digiunerò per Gaza dalla sera di domenica 11 alla mattina di mercoledì 14.
Non lo scrivo qui perché suoni come un invito a unirsi. Penso che non si possa, non si debba – penso che non si potrebbe in nessun modo – invitare qualcuno a digiunare.
Lo scrivo perché penso che rendere pubbliche le nostre determinazioni, anche quelle interiori, su temi pubblici e politici della massima importanza, possa servire a incoraggiarci a vicenda, aiutandoci a trovare, ciascuno per sé, i modi più consoni per non starsene semplicemente abbandonati alla passività, allo sconforto, al disincanto.

mercoledì 7 maggio 2025

Non leggete "Codice Canalini"!

Giulio Milani ti sorprende sempre. Poi, mentre ti riprendi dalla sorpresa ti rendi conto che nel frattempo ti sei preso anche due o tre schiaffi. E ti chiedi “cosa ho fatto di male per meritarmeli?” Ma la risposta che arriva risponde a un'altra domanda: “cosa mi ha fatto di buono Milani?”. E la risposta è che Milani ti ha tirato fuori dal torpore; ti ha dato uno scossone e ti ha fatto cadere dalla testa le foglie secche; ti ha scudisciato le gambe e ti ha levato uno strato di muffa che si stava arrampicando. E al quale tutto sommato ti stavi abituando.
Così, muore Massimo Canalini. Che è stato il fondatore della casa editrice il Lavoro Editoriale, e poi, grazie alla liaison dangereuse con Pier Vittorio Tondelli, del marchio editoriale Transeuropa. Che poi è diventata una casa editrice a sé, di cui Giulio Milani è divenuto proprietario ed editore vent’anni fa, essendo stato il più geniale e costante dei seguaci di Canalini.
Ed ecco che allora Giulio Milani si mette a scrivere un libro sul suo mentore e predecessore. E cosa ti tira fuori? Una biografia? Un saggetto? Una carrellata di aneddoti? Un trattatelo sull’editoria italiana? Un instant book?
No. Ti inventa un genere letterario, che è una mezza seduta spiritica, un mezzo rituale sciamanico, una mezza insurrezione armata (di parole). E, dentro questo strano, animalesco genere letterario, lui mette le mani nella merda e tira fuori dalla tomba gli spiriti di persone, cose, opere ed epoche, defunte o scomparse dalla scena e dalla memoria: li prende per i capelli e li tira fuori dall’oblio, dove probabilmente se ne stavano in pace, e gli grida in faccia “Oh! Parla!”. E li sbatacchia, finché quelli non tornano in vita e a loro volta lo spintonano, e cominciano a scalciare, e a tirare schiaffi a lui, che li ha scomodati, a noi lettori, che ci siamo intrufolati ignari ai margini di questa baruffa. E tirano calci negli stinchi alla nostra epoca presente, che ai loro occhi deve apparire così tragicamente squallida e comicamente perbenista, e indegna dei loro sperticati tentativi, successi e fallimenti.
La storia che Giulio Milani racconta è un albero pieno di rami e di radici che si sviluppano e s’intrecciano fino a rappresentare la forma e la sostanza di un labirinto. Come nel famoso racconto di Italo Calvino (uno degli autori più volte citati). E come nel racconto di Calvino, a un certo punto non si sa più dove sia l’alto e dove sia il basso, dove sia il vero e dove sia il finto, cosa si stia inseguendo e da cosa ci si stia allontanando. Perché la storia rianimata da Giulio Milani è una parte - la più fremente e irrequieta - di quel momento storico in cui il basso e l’alto si sono rimescolati, finalmente, e ha preso a dominare il senso di una notte magmatica e magica – scenario ideale per cogliere il passaggio di comete e di meteore incendiate. In questa notte, che ha travasato l’eredità del ribellismo punk degli anni ’80 nello sperimentalismo culturale e sociale degli anni ’90 – si vedono lampeggiare genialità, irregolarità, irriverenza, pensieri libertari e rivoluzionari, forme di autorganizzazione, anticonformismi radicali, strani salotti ebbri e sudici, sovvertimenti e infrazioni.
Qualità e gesti inattuali – oggi difficili anche da nominare senza provare disagio – che lampeggiano anche nella scrittura di Giulio Milani. Il quale si sporca, s’infanga, s’insanguina, si avvoltola completamente nella materia viva e terrosa del suo racconto. E ne emerge narratore ispirato, lucido e scatenato, come Arlecchino-quello-vero, demone ctonio che viene fuori dalla terra, sbucando da un mucchio di foglie marce, urlando la sua insopprimibile fame.
La scrittura di Giulio è una gara di corsa, una corsa contro il tempo (il nostro tempo), un rodeo sulla groppa della letteratura, un giro sulle montagne russe. Lui corre, insegue il suo obiettivo - che è una “indagine corsara su Canalini”, ma anche su tante altre cose - e ogni dieci righe ti pianta una forchetta in una chiappa. Perché tu non ti parcheggi nel piacere di rivangare certi passaggi storici della desaparecida controcultura italiana.
Milani ti dà del tu. Poi dà del tu a un personaggio che ha appena chiamato in causa. Poi dà del tu all’eventuale autore di una sceneggiatura tratta dal suo libro. Poi ricostruisce con trasporto gli ultimi mesi della vita di Tondelli. Poi si lancia in un’inventiva contro la normalizzazione delle aspirazioni di movimenti allora dirompenti. Poi ci riporta per l’ennesima volta nella redazione di Transeuropa, dove Canalini insegnava a leggere e a scrivere ai suoi giovanissimi autori (vessandoli e plasmandoli alquanto). Poi impreca, porca troia. Poi ci racconta la nascita non poco sorprendente di quel caposaldo che, per noi quaranta-cinquantenni, è stato “Jack Frusciante è uscito dal gruppo” (sia che l’abbiamo amato, sia che l’abbiamo detestato).
Tu sali e scendi, mentre Canalini rivoluziona il mondo dell’editoria italiana, inventa formati, scopre talenti, esplora la musica ribelle marchigiana, compie travasi impensabili tra ambiti finora compartimentati, cambia l’editoria, inventa marchi editoriali, vende marchi editoriali, traghetta i suoi autori verso altri lidi, rinuncia all’Einaudi come Totti ha rinunciato al Real Madrid, anima cenacoli come un demiurgo. E tu pensi alla letteratura e alla vita. E vedi sfilarti accanto paesaggi che riconosci, ma appaiono sfocati per quanto scorrono veloci. I colori sono intensi, impressionano la retina. Senti anche gli odori del paesaggio, quegli odori che da quando si viaggia in Frecciarossa con i finestrini sigillati non esistono più, sui treni c’è solo odore di detergenti e di chiuso, e il viaggio è diventato un non-tempo che collega non-luoghi.
Poi sei sulla groppa del toro, senti il suo sbuffo furioso, e senti anche quello di Giulio Milani, che lo tiene per le corna, quel toro. E a volte per le palle. E pesta pesante sui piatti, sul tamburo, sui tasti dello xilofono, qualche corda della chitarra si schianta e ti fa sobbalzare.
Se ne frega della forma pulita, se ne frega di regolare i decibel, Giulio Milani. Se ne frega se c’è qualche ripetizione (ma zero refusi, o quasi). Lui va a duemila, impreca, si lancia, tira schiaffi, rallenta. È barbarico, intemperante, malinconico, signorile, scurrile, forbito, riflessivo, tranciante. Compassionevole verso i “suoi” personaggi, innamorato della temperie culturale che essi animavano, inferocito verso il contesto storico e sociale che li sovrastava, e che ci ha portati fino a questo guado pieno di adorabili bolle di sapone.
Ma del resto “solo gli arresi possono credere che la storia dei processi rivoluzionari si sia esaurita nel Novecento”.
Del contenuto del libro – che è tanto, davvero tanto, ed è imperdibile per chiunque sia interessato alla letteratura e all’editoria, per qualunque motivo – non parlo, perché altri ne hanno parlato diffusamente. E perché sta lì, dentro il libro, alla portata di tutti, a pochi euro.
Ma devo dirvelo: se vi piace la storia scritta (e cancellata) dai vincitori, NON LEGGETE CODICE CANALINI.
Se vi piacciono i ribelli di maniera e di origine controllata, NON LEGGETE CODICE CANALINI.
Se siete soggetti al mar d’auto, al mal di mare, al mal d’aria, al mal di schiaffi, NON LEGGETE CODICE CANALINI.
Se state bene col culo sul divano, tra i cuscini comprati all’Ikea, incollati alle serie tv, NON LEGGETE CODICE CANALINI.
NON LEGGETE CODICE CANALINI, perché molto probabilmente vi farà venire la voglia irrefrenabile di racimolare ogni briciolo di tempo libero per leggere, studiare, rileggere i libri che avete amato a quindici anni e che vi hanno cambiato la vita (e forse poi li avete dimenticati). Vi farà venire la voglia di racimolare ogni briciolo di energia mentale per tornare alle origini delle vostre passioni e irrequietezze, per vedere la vera natura della nostra epoca, e per lottare.
Io vi ho avvertiti. Se non volete darmi retta, buttate giù un bicchiere di whiskey e saltate su questo tagadà, tenendovi saldi dovunque troviate un appiglio e guardando bene da tutte le parti per non perdere neanche un dettaglio di quello che vi schizzerà davanti agli occhi.
PS
Tempo fa qualche recensore ha definito Codice Canalini “libro dell’anno”. Io lo chiamerei “libro dell’anno zero”: perché da questo robusto e generoso dissodamento del terreno potrebbero nascere tante cose che si davano per estinte. Un nuovo corso di entusiasmo, ricerca, sperimentazione, schiaffi, sovvertimenti, indipendenza, nelle lettere e anche fuori.

martedì 6 maggio 2025

Un Prato di Fiabe - XXV edizione

Anche quest'anno avrò il piacere e l'onore di partecipare ai lavori della giuria letteraria del concorso 
Un Prato di Fiabe, giunto alla 25esima edizione, insieme ad Andrea Bassani, Fabio Leocata e Paola Zannoner.
Spero che la partecipazione, come sempre, sia ampia: è una bella occasione per cimentarsi con la creazione, l'invenzione e la rielaborazione, confrontandosi con lo strumento docile ed esigente della scrittura.
Buone fiabe!



Tutti i lunedì senza i social! (Testimonianze)


Sotto il mio post di ieri sul primo "lunedì senza i social" sono apparse tante testimonianze e riflessioni davvero belle e interessanti. Toccanti. Ne riporto alcune, qui sotto, perché mi pare che questa idea e questa condivisione, nate un po' per caso un po' per avventura, segnino già l’avvio di un percorso, l'apertura di un cantiere. È una cosa che non va buttata.
Il potere disintossicante di un distacco anche breve dai social è evidentissimo ed emerge in quasi tutti i commenti. Questo è il punto che riguarda il livello personale dell'auto-tutela, della consapevolezza e del benessere.
Ma visto che lo abbiamo fatto insieme, e forse lo faremo ancora, c'è anche una dimensione collettiva, che secondo me contiene un significato politico, in senso lato. Lo formulo in questo modo:
Riconosciamo e apprezziamo le opportunità che le tecnologie digitali ci offrono. E intendiamo utilizzarle:
- restando liberi di decidere il come, il quanto e il quando;
- restando liberi dai condizionamenti che i social tentano di esercitare sulle nostre menti, sul nostro umore, sul nostro tempo, sulle nostre dinamiche relazionali;
- restando critici e vigili verso le insidie che i social e le tecnologie digitali in generale ci tendono;
- restando consapevoli del potere economico e politico che i social conferiscono ai loro proprietari: un potere infinitamente maggiore di quello offerto a noi singoli utilizzatori; ma non così grande da annullare la nostra capacità di autodeterminazione.
Questa autodeterminazione noi la mettiamo in atto in ogni momento, cercando di utilizzare gli strumenti in modo consapevole e non passivo.
A questa autodeterminazione decidiamo anche di dedicare un momento particolare, collettivo, rituale, ricorrente, programmato: i lunedì senza i social.
Un giorno a settimana, il primo giorno della settimana, ci chiamiamo fuori. E questo percorso sarà un piccolo cantiere di libertà, di distensione, di autodisciplina, di percezioni, di pazienza, di pratiche alternative, di riflessione e rigenerazione, di incontri e condivisioni d’altro genere.
I lunedì senza social esprimono anche un avvertimento rivolto ai feudatari tecnologici:
Signori, noi frequentiamo regolarmente le vostre vaste proprietà, ma sappiate che, anche qui dentro, non siamo asserviti.
Non siamo disponibili a farci plasmare da meccanismi creati da voi in laboratorio, per il vostro vantaggio.
Sappiamo benissimo che le nostre interazioni sono il vostro oro.
Voi sappiate che lavoriamo gratis per voi solo se e quando lo vogliamo. E finché non ci sentiremo troppo presi in giro, o troppo sfruttati. Possiamo smettere in ogni momento.
Non avete idea di quanto siamo liberi, e di quanto teniamo alla nostra libertà, e di cosa ci possiamo inventare per godercela e per darle maggiore concretezza.
Ogni lunedì, spegnendo tutto, ve lo ricorderemo, allegramente e risolutamente.

—-
Ed ecco una carrellata di annotazioni di chi ha partecipato al primo lunedì senza social. Non metto i nomi di autori e autrici. Chi vuole sapere, e leggere tutti i commenti per intero, vada a vedere sotto al mio precedente post. 

Io ieri sono stata senza social (tranne WhatsApp) e sono stata benissimo. Ho deciso che lo farò un giorno alla settimana (non so se sempre il lunedì). Che sia un inizio, vorrei arrivare ad andarci una volta a settimana.

Io voglio disintossicarmi ogni giorno. Purtroppo ieri ho ritenuto non possibile digiunare.

Ogni lunedì! E anche ogni giorno che si fa una gita nella natura (almeno per me).

Ottima idea, farò altrettanto. Grazie per l'input.

Dopo un iniziale senso di disagio (avvertivo chiaramente la sensazione inquietante che mi mancasse il consueto automatismo che mi spinge a controllare il telefono), ho avvertito progressivamente un piacevole senso di liberazione, una sorprendente calma mentale.

È stato come ritrovare lo spazio tra le cose e i pensieri, lo spazio necessario a pensare e a riprendere cose che avevo lasciato indietro...

...Pensavo peggio. Anzi, talvolta ho sorriso di questa ‘rinuncia’ con soddisfazione. Ma sì, rifacciamolo.

Ho aderito convintamente. Non ho usato nemmeno WhatsApp. Qualche minuto di tentazione. Poi è stato anche facile. 

Io credo che più che non usare i social si potrebbe astenersi, anche in maniera permanente, dall'intervenire sul "tema del giorno" che viene lanciato ormai con un'agenda setting impressionante.

Incredibile il potere dell'autodeterminazione ! (…) La disintossicazione , spero irreversibile , ormai e' in atto.

È andata benissimo. E oggi, Seppur non totalmente ho continuato.

La nomofobia è una vera e propria patologia di cui soffrono (talvolta senza saperlo) molte persone ed è per questo fondamentale attuare interventi di disassuefazione, ben vengano iniziative volte a rendere queste pratiche più comuni, in tutte le fasce d’età.

Fino alle 18 poi ho mollato purtroppo.

Dovresti dare risalto alla notizia. Inviare ai mezzi stampa, TV eccetera.

Ieri è stato facile astenersi perché ero in mezzo alla natura... Vediamo il prossimo lunedì!

Io sono stata brava fino a sera.... Poi mi sono fatta fregare da una cosa di lavoro e ho aperto i social. Ma lunedì prossimo sicuramente andrà meglio!!

Una fatica utile. Una ginnastica Mentale preziosa per conoscersi meglio.. Non ce l ho fatta completamente (…) prossima volta avviserò le persone più vicine in modo da poter chiudere la connessione con + tranquillità.

Bloccare automatismi
Liberazione
Mancanza di distrazione dalle duties
La sera è più difficile resistere
Soddisfazione
I got a lot more stuff done —> I feel good

Ho sbirciato Facebook due volte - la prima, al mattino, pressoché inconsapevolmente, come gesto meccanico; la seconda consapevolmente nel pomeriggio, e mi sono resa conto trattarsi di un riflesso della dipendenza. Quindi, il prossimo lunedì disinstallo l'app dal cellulare (…) stato molto bello perché ho vissuto di più la giornata nel reale, senza interruzioni; ho riflettuto di più, ho parlato con gli altri di più. E oggi mi sono affacciata qui sopra solo la sera, dopo cena.

Ci sto! E....ci sto ....proprio bene senza social!!!! A lunedì.

Devo dire che il social non mi è mancato per nulla, proverò a farlo ogni lunedì. Mi sembra un buon modo per rompere il ciclo vizioso e l'utilizzo compulsivo.

Io non ho aderito, anche se ho trovato l'iniziativa molto buona e giusta. Mi sono concentrato sulla inutilità del verbo social e sul fatto che tutto sommato la realtà del corpo finisce sempre per prevalere.

Dovrò togliere le notifiche ....in automatico per ben due volte ho cliccato. Mi sono accorta dell' azione automatica priva di scelta e pensiero...CHE FASTIDIO !!! Mi è servita però come riflessione.

Son stata così bene che ho riaperto Fb solo sta mattina… Grazie!!

lunedì 5 maggio 2025

Primo lunedì senza i social - TUTTI i lunedì senza i social!

Ieri non era proprio il giorno giusto per stare lontani dai social, con la decisione di Netanyahu di occupare Gaza che rimbalzava su tutti i media fin dalla prima mattina…
DOVEVO dire qualcosa. DOVEVO sapere cosa ne stavano dicendo i miei contatti.
Per questo, forse, è stata proprio la giornata ideale per stare alla larga da Fb: digiunare quando non si ha fame è troppo facile, e troppo inutile.
Per qualche minuto sono stato frustrato per non poter sfogare la mia costernazione con un post. Poi me ne sono fatto una ragione.
Ho continuato a pensare a Gaza per tutto il giorno, a tratti, in sottofondo. Come mi è capitato diverse volte negli ultimi mesi. Ho pensato a che fare, perché qualcosa bisogna fare. Ho pensato che devo tornare a informarmi seriamente sulla campagna di boicottaggio commerciale di Israele. Informarmi su iniziative territoriali per entrare fisicamente in contatto con associazioni attive e militanti che fanno qualcosa di concreto.
L’energia mentale suscitata dall’ennesima terrificante notizia, non sfogandosi in un post, si è trasformata nel desiderio di muovermi per agire in qualche modo nel mondo reale. Come accadeva prima dei social, insomma.
Così ho pensato che oggi siamo pentole a pressione con la valvola mezza rotta, che sfiata di continuo. Che emettono continuamente un filo di fumo, ma mai un fischio robusto. E non cuociono neanche una carota. Figuriamoci se potrebbero mai fare un bel getto di vapore incandescente, quando servisse.
Al tempo dicevano che le primavere arabe sono nate sui social, grazie ai social. Forse era vero. Ma io ho sempre sospettato che le istanze rivoluzionarie, o anche le semplici spinte al cambiamento, si spengano anche, rapidamente, “grazie” ai social.
Ieri per me è stato bello, motivante, perfino eccitante, sapere che altre persone si trovavano per loro scelta - per una scelta comune - nella mia stessa condizione. Che avevano a che fare con gli stessi stati d’animo e le stesse contraddizioni interiori.
Da questo punto di vista, la giornata è passata molto bene. Dopo un disorientamento e un disagio iniziali, ho provato una sensazione di libertà un po’ euforica. Libertà da meccanismo mentali malsani.
Ho passato veramente un buon tempo. Sono andato a letto con la mente più fresca del solito; consapevole di avere passato più tempo a leggere, a pensare, a chiacchierare con familiari, amici, colleghi e baristi, a scrivere. Mi sono venute delle idee, e - non “dovendole” buttare subito fuori, sui social – mi sono preso il tempo per tenermele in bocca, scartarne alcune, elaborarne e fissarne altre. Ho scritto degli appunti per il nuovo romanzo. Ho fatto delle foto naturalistiche senza che allo scatto si sovrapponesse il pensiero di una possibile condivisione in tempo reale o quasi.
Ho pensato al tema dell’urgenza: scriviamo sui social solitamente per rispondere a un’urgenza. Trattenendo l’impulso, scopriamo che quell’urgenza era fasulla. Non era, cioè, un’urgenza. Appariva tale soltanto perché abbiamo interiorizzato alcune dinamiche strutturali dei social, che non fanno bene a noi, ma fanno benissimo alle tasche e agli scettri dei giga-miliardari (pronti a “baciare il culo” al presidente Usa di turno - Trump non è stato il primo né sarà l’ultimo). Detto ciò, non intendo dire che sia sbagliato stare sui social, postare, commentare, likare ecc. Ma è giusto, è necessario, essere coscienti di quello che CI accade lì dentro, di quanto il medium sia il messaggio, e di quanto noi diventiamo simili a quel medium, snaturandoci alquanto, per diventare noi stessi veicoli e funzione di “quel” messaggio.
Dunque, voglio rilanciare:
TUTTI I LUNEDì SENZA I SOCIAL
Domenica sera si disattivano tutte le notifiche, magari si tolgono anche le icone dalla homepage per evitare la tentazione di cliccarci sopra per una sbirciatina, e se ne riparla martedì mattina.
Non voglio abbandonare i social: voglio sottrarmi alla presa che esercitano sulla nostra mente, alle dinamiche relazionali che essi fomentano, all’enorme sperpero di energie buone che causano.
Perché il lunedì?
Un giorno predeterminato ci vuole, perché altrimenti si finisce per astenersi solo quando non costa nulla e non cambia nulla. E mi piace l’idea che si inizi la settimana dando, dandosi, questo segnale. Questo ritmo, questo imprinting, questo tempo in levare, che può trasformarsi in un battere: partire “non facendo” qualcosa, per dare spazio a un altro fare. Non fare qualcosa tutti insieme poi sarebbe una forza, e sarebbe anche divertente.
Lunedì senza social:
per disabituarci a reagire automaticamente agli stimoli dei media (compresi i social);
per togliere alle notifiche il potere di placare stati d’ansia che lo stesso uso dei social determina (folle cortocircuito!);
per riabituare la mente a stare bene con se stessa, tra le cose, anche nell’attesa, anche nella noia, senza cercare un continuo appoggio in stimolazioni digitali, in simulacri di relazioni.
A me il lunedì ricorderà che i social non sono la naturale, inevitabile, insostituibile estensione della nostra sfera relazionale, e men che meno della nostra personalità.
Mi ricorderà che un eventuale senso di astinenza indica che qualcosa non va.
Mi ricorderà anche che è necessario fare un uso moderato e in qualche modo distaccato e critico dei social anche in tutti gli altri giorni della settimana, non lasciando che questi sostituiscano altre esperienze e altre possibilità di espressione, di relazione, di lotta.
Se poi il lunedì senza social sarà condiviso da altre persone, se assumerà la forma di un progetto aperto, collettivo, in continua evoluzione, tutto sarà più bello, più forte, più nuovo, più politico. Gireranno testimonianze, nasceranno idee e iniziative ulteriori. Sarà non solo una pratica personale di ecologia della mente, ma una forma allegra di resistenza passiva, di sabotaggio, di costruzione di senso, di riappropriazione.

venerdì 2 maggio 2025

Lunedì 5 maggio giornata senza i social


Dopo la piccola rivolta dadaista, o hackeraggio pop (“scrivi un post senza senso e scappa”), proposta da Valerio Cuccaroni per il Primo Maggio, mi sento di rilanciare alzando la posta.

Lunedì 5 maggio (giornata mondiale del lavaggio delle mani*)
CE NE LAVIAMO LE MANI DEI SOCIAL
e di tutto quello che ci succede dentro

Lunedì prossimo, dalle 0 alle 24 non usiamo i social.
Niente Fb, Instagram, X, Linkedin, Tik Tok, Threads, Truth, Telegram…
Niente vuol dire niente, quindi neanche una sbirciatina.
I veri eroi riusciranno a stare anche senza Whatsapp, Messenger, messaggistiche varie.

Perché un giorno di astinenza dai social?
Se potessimo formare una massa critica (milioni di utenti), faremmo sobbalzare sulle sedie i proprietari dei social (che, sempre più, sono anche i padroni del mondo, e delle nostre menti). Sarebbe divertente. Come tutti i lavoratori, ci accorgeremmo di avere il potere di condizionare le loro scelte, e potremmo iniziare a ragionare su come usare questo potere.
Ma questo non accadrà. Non il 5 maggio. Non raggiungeremo né una massa critica, né una massa qualunque. Saremo quattro gatti. O forse 44. (O forse 404: error - not found).
E allora?
Be’, lo faremo per noi.
Sarà un modo per prendere consapevolezza di due o tre cosette.

Sarà una prova di resistenza, di carattere e di pazienza.
Sarò una verifica del livello di dipendenza che abbiamo sviluppato (ne abbiamo mai fatta una?).
Sarà uno sforzo e un costo (mentale), ma sarà anche una purificazione e un guadagno (sempre mentale).
Il 5 maggio ci verrà l’impulso di scrivere una riflessione, un commento arguto, una battuta divertentissima; di condividere una bella foto o un meme; di esprimere indignazione per una notizia rimbalzata sui media; di prendere posizione su questo o su quello…
Quell’impulso ci verrà 10 volte almeno.
E ogni volta conteremo fino a 10, e rimanderemo tutto a domani.
Che potrà mai succedere di tanto grave? Scommetto che nessuno si farà male.
Bene. E poi?

Poi può darsi che il giorno dopo, il 6 maggio, alcuni di quegli impulsi siano svaniti. In questo caso, forse ci sembrerà fantastico non avere speso tempo ed energia (e regalato clic a gratis) per scrivere qualcosa che era tanto urgente quanto volatile e per noi stessi irrilevante.
Può darsi che il 6 maggio sentiremo ancora la necessità di fare questo o quel post. E allora lo faremo più convintamente, più ponderatamente, meno condizionati dall’infernale dinamica stimolo-reazione da cui ci lasciamo troppo spesso dominare, ormai in modo quasi pavloviano.
Può darsi che lunedì, il 5 maggio, l’impulso a esprimere o a condividere qualcosa sia così forte che dovremo trovare dei modi per averla comunque, quella condivisione.
Come?

Parlando (di più) con il proprio partner, con un amico, con i colleghi, con i genitori, con il cassiere del supermercato.
Entrando in un bar e gridando cosa si pensa di quel discorso di Mattarella, o dell’ultima uscita di Bubu.
Scrivendo su una maglietta che a Gaza è in corso un genocidio, o quello che vi preme affermare, per poi uscire a passeggiare.
Scrivendo un’email, o una lettera a mano, a quel tale cugino con cui non parlate da cinque anni, per chiedergli come diavolo fa a sostenere il PD (o la Lega, o FDI… fate voi).
Annotando i propri pensieri in un diario.
(Sì, anche questo gesto può placare la coazione a condividere sempre tutto in tempo reale; riconsegnandoci una rappresentazione di noi stessi tridimensionale, lenta, integra, non così condizionata dal bisogno di essere parte dell’infosfera.)

Può darsi che conservando quell’energia potenziale - l'impulso a condividere - per 24 ore scopriremo che essa si tramuta in forza. E che quella forza può essere gestita e direzionata, e accresciuta (magari con l’aiuto di pratiche interiori, come la concentrazione e la meditazione).
Dico forse. Sto soltanto facendo delle ipotesi.
Comunque, perché non sperimentarlo?

In ogni caso, può darsi che il 5 maggio, praticando l’astinenza dai social, ci vengano altre idee per sviluppare consapevolezza, centratura ed emancipazione.
E può darsi che il giorno dopo, il 6 maggio, avremo voglia di raccontarci (perché no, anche sui social; mica voglio demonizzarli) come sono andate le cose senza social. Magari ci verrà voglia di ripetere l’esperienza una volta all’anno, o una volta al mese, o una volta alla settimana… estendendo il campo dell'astinenza... il lunedì luddista... Va be'.
Allora? Chi ci sta? Ci contiamo?
Facciamo girare qualche banner?


*No, non è battuta: il 5 maggio è la giornata mondiale del lavaggio delle mani, istituita dall’OMS. L’ho appena scoperto googlando. Infatti la patrona del giorno è Santa Barbara, d’Urso. (Ok: è questa la battuta). E, a proposito di covid e di OMS, il 5 maggio è anche il giorno in cui l’OMS, nel 2023, ha dichiarato finita la pandemia. Ah sì, è anche il giorno in cui morì Napoleone (primo); e quello in cui i Messicani, qualche anno dopo, presero a calci in culo Napoleone (terzo), che aveva mandato oltreoceano le truppe per estendere l’influenza francese in Sudamerica. Il 5 maggio si ricorda anche la morte di Bobby Sands dopo 66 giorni di sciopero della fame… Insomma, ognuno scelga il pretesto che preferisce per astenersi dai social. Ma regaliamoci questa opportunità.