blog di Carlo Cuppini

blog di Carlo Cuppini



martedì 7 ottobre 2025

Il discorso che Netanyshu NON fece

Oggi, 7 ottobre di due anni dopo, vi ripropongo il discorso che Netanyahu NON ha pronunciato. È il discorso che, se fosse stato pronunciato, avrebbe salvato Israele. E i Palestinesi. E avrebbe sconfitto il terrore di ogni colore.

"Il 7 ottobre abbiamo subito il più grave attacco della nostra storia. Centinaia di persone innocenti sono state uccise, torturate, rapite. Migliaia di persone sono state minacciate, terrorizzate, umiliate. Per due settimane abbiamo risposto con la massima durezza. Abbiamo ucciso migliaia di persone, centinaia di bambini, colpito chiese, ospedali, bloccato ambulanze, terrorizzato un intero popolo.
Ed è stato soltanto un preliminare.
Questa notte scatterà l’invasione di terra. Carri armati e soldati pronti a sparare a qualunque cosa si muova. Come già è avvenuto in passato...
I tempi di Piombo Fuso...
Decine di migliaia di persone cesseranno di vivere. Donne, donne incinte, donne anziane, bambine. E uomini, anziani, ragazzi, bambini. Famiglie intere saranno cancellate. Tutto sarà distrutto e il fuoco laverà l’offesa. Il loro dolore sopravanzerà di molto il nostro dolore.
Invece no. Le cose non andranno così.
Queste parole, preparate per annunciare l'invasione, questa notte verranno cambiate: non ci sarà nessuna invasione. Non ci sarà più nessun bombardamento.
Adesso, davanti al mio popolo, davanti ai nostri aggressori, davanti al mondo intero, io ordino di bloccare ogni operazione.
La sola operazione che avverrà, questa notte, sarà la demolizione di un muro: quello che abbiamo eretto tra noi e i nostri nemici, tra un popolo e un popolo.
Domani mattina chi oltrepasserà quel confine non troverà la morte: troverà un tavolo in mezzo al deserto, e noi seduti da un lato ad aspettare, disarmati, la fronte distesa, le mani vuote. E altrettante sedie dall’altro lato. E cibo. E doni. Come la saggezza antica ci ha insegnato.
Loro ci hanno chiesto di scendere a un piano dove non c’è traccia di umanità. E noi siamo scesi.
Ci hanno chiamati a essere non uomini ma demoni, rispondendo all’uccisione con l’uccisione, all’odio con l’odio, al rapimento col rapimento, alla tortura con la tortura, all’inferno con l’inferno. E noi, per due settimane, lo siamo diventati. Lo abbiamo fatto. Ci siamo lasciati condurre in un luogo dove, guardandoci allo specchio, non vediamo più i nostri volti, ma teschi dalle orbite vuote.
No.
Noi non uccideremo più un bambino, un uomo, una donna.
Non ci saranno più "danni collaterali".
Non uccideremo nemmeno un terrorista, un miliziano, un soldato. Noi non uccideremo.
Noi non uccideremo.
Ci hanno chiesto di insegnare ai figli la furia che risponde all’orrore.
Noi insegneremo ai figli un’altra cosa.
Davanti agli occhi spalancati dei figli, noi risponderemo alla violenza con più democrazia.
Risponderemo alla ferocia con più giustizia.
Risponderemo al crimine con più legalità.
Risponderemo all'oltraggio con più dignità.
Risponderemo all’odio con il perdono.
Non un perdono che offriamo, ma un perdono che chiediamo.
Lo chiediamo a milioni di bambini che abbiamo costretto a una vita indegna di essere vissuta; a milioni di donne e uomini a cui abbiamo sottratto tutto, infliggendo sofferenze ingiuste, se mai potessero esistere sofferenze giustificate; a un popolo che abbiamo vessato, segregato, depredato, sfruttando la nostra posizione di maggior potere.
Noi chiediamo perdono ai nostri cuori, per averli pietrificati.
Noi, da questa notte, rispondiamo alla guerra con la pace. Noi dismettiamo la guerra dai nostri cuori.
Domani, provate a cercare la guerra nei nostri cuori, provate a suscitarne gli istinti con ogni mezzo a disposizione, pungolandoci, provocandoci, attaccandoci ancora.
In noi, non ne troverete i sentimenti, il desiderio, le azioni, le munizioni.
In noi non ne troverete le parole.
A chi dice che il nostro Dio vuole la guerra, a chi si appella al Dio degli Eserciti e delle Nazioni, noi diremo che quel Dio ha fatto il suo tempo. La sabbia ha ricoperto il suo corpo ingombrante, lo ha seppellito, e già facciamo fatica anche a ricordare i suoi nomi.
E se quel Dio defunto manderà Angeli in tuta mimetica e mitra a sconvolgere i nostri sogni, per continuare e vivere nel nostre azioni mostruose, noi grideremo forte per svegliarci.
E, al risveglio, frastornati, andremo nel deserto, nella terra di Nessuno, e aspetteremo lì, senza cibo e senza acqua.
Finché Dio non rinascerà con un altro volto e non ci rivolgerà una parola nuova."

venerdì 3 ottobre 2025

Parlare di Logout e di ribellione il 3 ottobre 2025

A Napoli, a Palazzo Reale, per il Campania Libri Festival, ho avuto un bellissimo incontro con ragazze e ragazzi delle scuole medie, in dialogo con un bravo e brillante Paquito Catanzaro. Ero stato invitato a parlare di "Logout" (marcos y marcos) che è la storia di una ribellione, che porta a una rivoluzione.
Perciò mi è sembrato opportuno, anzi necessario, iniziare l'incontro con una riflessione sulla ribellione - facendo dialogare quella a cui è dedicata la giornata di oggi con quella che Luca e i suoi compagni compiono attraverso le pagine di Logout. Perché, come ho detto ai ragazzi, i libri o ci parlano della nostra esperienza, del nostro tempo, dei nostri problemi e dei nostri dilemmi, oppure non servono a niente.
Hanno ascoltato tutti con un'attenzione impressionante. E quello che è venuto dopo è stato un dialogo, su Logout e sulle nostre vite, di adulti, di ragazzi, bellissimo e indimenticabile.
In treno, tornando a Firenze, ho trascritto a memoria quello che ho detto stamattina (arricchito da ulteriori pensieri scambiati con l'amico Fabrizio Masucci una volta concluso l'incontro). Ve lo propongo.

---

Sono felice di essere qui con voi in questa giornata molto particolare.
Questa è una giornata di protesta, di frustrazione, di sollevazione e anche di ribellione. Ribellione, sì: perché si stanno svolgendo ovunque atti di disobbedienza civile, gesti che infrangono delle regole e delle leggi. Bloccare il traffico stradale o ferroviario è un reato - lo è diventato con il recente "Decreto sicurezza" Lo sciopero della CGIL è stato dichiarato illegittimo dal garante, per via dei troppo brevi tempi di preavviso; eppure tantissime persone stanno aderendo a quello sciopero, sventolando le bandiere di quel sindacato.
I tentativi delle barche della Flottilla di sfondare il blocco navale imposto da Israele su Gaza sono un atto di ribellione. È vero che è il blocco israeliano a essere illegittimo, ma la contrarietà dei governi alla missione degli attivisti, le richieste insistenti delle più alte istituzioni di interrompere la missione, fanno apparire queste coraggiose iniziative come atti di ribellione, appunto, con tutto ciò che ne consegue. Gli attivisti arrestati si faranno mesi di carcere duro in Israele, a quanto dicono.

“Logout", il libro di cui parleremo tra poco, racconta una storia di ribellione. E credo che oggi sia giusto mettere in luce in modo particolare questo aspetto del romanzo. E penso che questa sia una buona occasione per fare una riflessione sulla ribellione. Cos’è? Cosa non è? Quanti tipi di ribellione esistono? E noi, dove ci collochiamo? Del resto, se i libri non ci aiutano a riflettere sulle nostre esperienze, sui nostri dilemmi, sulle nostre scelte, non servono a niente.

La ribellione non è semplice, non è facile, non è gratis. Non può esserlo. Se lo è, non è una vera ribellione probabilmente, ma è soltanto un’altra forma di obbedienza.
La ribellione pone sempre delle domande, anche scomode, ancora prima di affermare qualcosa. Le pone non al capo della ribellione, ma a te, a te e a te, a ogni singolo ribelle, individualmente.
Ci sono alcune domande che oggi vorrei sollevare e condividere con voi, non per trovare delle risposte, ma per lasciarle nell'aria mentre entreremo nel romanzo per conoscere le vicende di Luca e dei suoi compagni.

giovedì 26 giugno 2025

Qualche riflessione su riarmo e aumento delle spese militari

Sul riarmo e l’aumento delle spese militari al 5% del PIL, approvato l’altro ieri anche da Meloni al vertice Nato (da tutti i leader europei tranne Sanchez, in effetti): siete sicuri di avere capito bene di cosa stiamo parlando? La calma, anzi l’indifferenza, che vedo intorno a me mi fa sorgere qualche dubbio. Vediamo un momento insieme. È importante.

L’Italia oggi spende l’1,7% del PIL in armi, difesa ecc. Si tratta di 33 miliardi di euro all’anno.
Arrivare al 5% del PIL significa triplicare la spesa, arrivando a spendere circa 100 miliardi di euro all’anno.

Cosa significa 100 miliardi di euro?

Se questi soldi dovessi metterli io - se la Meloni venisse a casa mia e mi dicesse: “Sei stato cattivo, antipatriottico, disfattista: quindi da adesso la spesa militare italiana la paghi tu” - per procurarmi quella cifra dovrei lavorare 4 milioni di anni. Immagino che per molti di voi che leggete sarebbe lo stesso, mille anni più mille anni in meno. Questa cosa si potrebbe anche dirla così: da oggi sarà come se 4 milioni di italiani che percepiscono uno stipendio medio lavorassero per dare il 100% della loro retribuzione netta allo Stato per le armi. 

mercoledì 25 giugno 2025

Cosa è una persona?

Qualche giorno fa una piccola tartaruga è morta. Aveva tre anni, viveva nel nostro giardino da due. In primavera, dopo il letargo, l’avevamo liberata dal recinto sull’erba in cui era stata confinata e protetta. In questi mesi aveva preso confidenza con lo spazio del giardino, aveva socializzato con le sue due simili più grandi, la micro comunità di tartarughe si era allargata e rafforzata con continui gesti di conoscenza, curiosità, affetto e cura tra loro. Aveva imparato a conoscere i due gatti; con noi umani il rapporto era cresciuto velocemente. Tra i bambini e la piccola tartaruga, soprattutto, la relazione si era approfondita e intensificata, attraverso un linguaggio costruito giorno dopo giorno, fatto di gesti, movimenti e posture riconoscibili, di appuntamenti, di dimostrazioni di fiducia, di forme - minime e primitive, forse, ma reali - di reciprocità. Le naturali insidie di cui il mondo naturale è pieno le sono costate la vita.
Io e Ramona siamo rimasti costernati e addolorati, scoprendo il suo corpo dilaniato da qualche rapace. Le immagini di quel corpo mi sono tornate in mente per due giorni e due notti. Al dispiacere si è sommato subito un senso di colpa - inutile quanto inevitabile - pieno di domande sulla responsabilità che ci siamo assunti accogliendola in casa, sull'esserne stati o meno all'altezza.
Mi è stato impossibile non pensare al dialogo tra il Piccolo Principe e la Volpe sull’addomesticamento:
“Che cosa vuol dire addomesticare?"

venerdì 6 giugno 2025

La guerra non esiste

Per essere davvero pacifisti - mi correggo: per essere davvero umani e, come umani, vivi - dovremmmo convincerci sinceramente, profondamente, che la guerra non esiste. Dovremmo rigettare integralmente questa parola. Perché è la parola stessa che offre esistenza a un fenomeno, rendendolo in qualche modo plausibile, giustificato nel suo manifestarsi, in fondo accettabile. Al punto che esistono un “diritto bellico” e i “crimini di guerra” (come se esistesse qualche aspetto della guerra, qualche sua manifestazione, non riconducibile alla dimensione del crimine). 

Dire “guerra” significa stare sul piano dell'astrazione e soprassedere pigramente su tutto ciò di molto concreto che questa parola pretende di rappresentare e significare. Questo vale per tante parole. Ma nel caso di “guerra” è più grave, perché tra l'uso comune del sostantivo astratto e la natura dei fatti concreti che esso rappresenta esiste una dismisura assoluta.
Non dire guerra non per per rimuovere la guerra dalla coscienza, ma al contrario, per non normalizzarla e ridimensionarla.
Faccio un esempio limite di quello che sto dicendo, per rendere più chiaro il concetto: in alcune religioni il nome di dio è impronunciabile; non si dà proprio; perché qualunque nome segnerebbe una dismisura inaccettabile rispetto a ciò che vorrebbe rappresentare; assegnare un nome a dio vorrebbe dire limitarlo, banalizzarlo. 
È questo che intendo. L'orrore della guerra è illimitato. Se dovessimo parlare di guerra, senza usare l'etichetta che mettiamo sul barattolo che contiene i fatti che la costituiscono, dovremmo usare un giro di parole destinato a non finire mai.

giovedì 5 giugno 2025

Un comando Nato a Firenze

UNO: Ci dicono che la Russia attaccherà la Nato entro una manciata di anni.
Pare che Starmer stia preparando il Regno Unito alla guerra atomica contro la Russia, e qualcosa di analogo sta facendo la Germania. Ci hanno insegnato a preparare un kit di sopravvivenza. Non si parla d'altro che di guerra, armi, bunker, ordigni dell'apocalisse, riarmo, warfare, coscrizione.

DUE: Due anni fa è stata approvata la creazione di un comando Nato di primaria importanza strategica alle porte di Firenze, a un tiro di schioppo dal centro storico (5 km dalla Basilica di Santa Croce, che contiene, tra molti altri tesori, gli affreschi di Giotto). In mezzo alle abitazioni civili del rione fiorentino di Rovezzano, un'area di 10.000 metri quadrati sarà destinata al nuovo quartier generale permanente della Multinational Division South (Mnd-S) della NATO, che coordinerà le operazioni e le comunicazioni delle forze terrestri nel Sud dell'Europa.

TRE: Sul sito del Comune di Firenze si legge: "Il fronte di guerra si avvicinava a Firenze, che ingenuamente, tutti credevano fosse immune dai bombardamenti per la presenza dell'importante patrimonio artistico, ma non fu così. Firenze subì sette bombardamenti: il 25 settembre 1943, il 18 gennaio 1944, l'8 febbraio 1944, l'11 marzo 1944, il 23 marzo 1944, il 1 e il 2 maggio 1944. Furono colpite le zone di Campo di Marte, San Gervasio, le Cure, Sesto, Castello, Novoli, Rifredi, Careggi, San Jacopino, Porta al Prato. I bombardamenti angloamericani miravano a distruggere gli snodi ferroviari, attraverso i quali viaggiavano i rifornimenti alle truppe tedesche, e le fabbriche ormai in mano alla Germania nazista. L'obiettivo ultimo era fiaccare la Germania hitleriana e l'Italia fascista e spingere alla ribellione la popolazione. Ma le bombe colpirono case e strade, dove centinaia di persone rimasero vittime. Bombardamenti a tappeto, carpet bombings."
Se nel 1944 lo hanno fatto gli angloamericani, chissà per quale spirito caritatevole oggi non dovrebbe farlo qualche attuale nemico della Nato, sapendo che a Firenze si trova un comando strategico della stessa.

martedì 3 giugno 2025

La mia storia, un tombino, La Pira

Qualche giorno fa sono stato in una scuola primaria di Calenzano per incontrare le bambine e i bambini di una classe quarta che avevano letto il mio libro “Il mistero delle meraviglie scomparse” (Marcos y Marcos).
Come sempre, è stata per me un’esperienza bellissima, gratificante e commovente. I piccoli lettori avevano mille curiosità, tante domande intelligenti, una fila di osservazioni acute.
Mi hanno ascoltato con attenzione vibrante (nonostante la mia chiacchiera e le mie divagazioni), mi hanno mostrato con orgoglio i lavori creativi che hanno fatto a partire dal libro. In quello che vedete nella foto hanno rappresentato in modo tridimensionale, con grande cura, il bicchiere d’acqua in cui Filippo vede, come in una magica palla di vetro, l’immagine di un altro bambino che vive in una terra povera, forse tormentata da conflitti e violenze, in una capanna in cui non c’è praticamente nulla. Un bambino meno fortunato di Filippo, per nascita, soltanto per nascita. Al quale, in modo misterioso, è stato portato il gioco che il fiume Arno aveva sottratto a Filippo. È grazie a questa visione che Filippo accetta di separarsi da quel gioco - un bellissimo cavaliere argentato - e smette di aspettarsi la sua restituzione. In quel momento, in piedi in cucina, mentre nessuno lo osserva, diventa più grande, più consapevole di tante cose.
La storia del bambino senza nome visto dentro un bicchiere è solo una piccola storia nella storia, all’interno del mio libro: occupa soltanto poche righe, ma forse è il vero cuore del racconto. I bambini che ho incontrato venerdì scorso devono averlo capito, e hanno realizzato questa opera.

domenica 1 giugno 2025

I lunedì senza i social, e Meta che va alla guerra (con il nostro contributo)

È passata una settimana dallo scorso lunedì senza social, e mi rendo conto che in questi giorni sono stato sui social pochissimo, solo per dare una sbirciatina ogni tanto, lasciare un paio di commenti a post intelligenti, fare un post per informare di una presentazione libraria. E basta.
Non è che non abbia avuto l'impulso di scrivere post di carattere personale e politico. Ma questi impulsi non sono mai stati sufficientemente intensi, e non sono mai durato sufficientemente a lungo, per convincermi a prendere un dispositivo e passare i minuti necessari.
Che vi devo dire?
Non so bene... lascio la parola a Julie Double (prendendo un suo commento sotto un mio precedente post su Fb "lunedì senza i social"):

"Ho iniziato domenica, ho fatto quasi tutto lunedì senza social (mi sono dovuta collegare brevemente a telegram per un impegno chenon potevo saltare), sono ritornata qui su Fb solo ieri sera. Sta diventanto una dipendenza al contrario: meno li uso e meno li mancano. Meno li uso e più scopro che mi manca la vita vera, quella fatta di aria all'aperto, di cose che si colgono con tutti i sensi e, soprattutto, di buon senso. Sono ripensamenti che vanno ben oltre la tastiera e che spero mi porteranno ben lontano."

domenica 18 maggio 2025

Lunedì senza i social, e la raccolta di poesie e opere d'arte "Oltre le maschere"

Il telefono sempre in tasca. Per concederci la libertà di contattare chiunque, in qualunque momento, e di fare mille altre cose. Per dare agli altri la libertà di raggiungerci.
Va bene. Ma se...
Se esistesse una libertà che deriva dal rinunciare a qualche libertà? Una libertà più antica e più grande, inattuale, irragionevole e inebriante, paradossale ma concreta e a portata di mano? 

Non poter appoggiare la mente su uno schermo mentre aspettiamo l’autobus.
Non poter avvertire che siamo in ritardo.
Non poter cercare una destinazione su maps.
Non poter cercare un’informazione su google.
Non poter controllare se sono sbarcati gli alieni proprio un minuto fa, nel nostro quartiere.
Non poter essere rintracciati dalla polizia in caso di rapimento, o di nostra fulminea amnesia…

martedì 13 maggio 2025

Raccoglimento

Il mio lunedì senza social ieri è andato benissimo. E il vostro?
Essendo sovrapposto al primo di due giorni di digiuno per Gaza, ho riflettuto a lungo sul tema del "raccoglimento". Quando non butti nella pancia il cibo, raccogliersi è inevitabile. Anche se magari stai lavorando, o facendo le solite cose di tutti i giorni.
Forse il raccoglimento è il vero e potente antidoto all'esternalizzazione, alla frammentazione, alla nevrotizzazione della personalità che un uso compulsivo, o anche solo intensivo, dei social comporta.
Il raccoglimento è un vero spauracchio per la società del consumo, dell'usa e getta (anche nelle relazioni), della performance, dello spettacolo, dell'immagine, della notifica, dell'insicurezza, dell'appagamento istantaneo (di desideri e bisogni indotti), dell'horror vacui.
Il raccoglimento ci richiama a una centratura possibile, a una pazienza che non vuole riempire sempre tutto, e non pretende che la mente sia sempre intrattenuta da una tempesta di stimolazioni esterne (notizie, post, commenti, commenti di commenti, meme, notifiche, storie...), pena un attacco d'ansia.
Il raccoglimento richiama il senso dell'intimità e dell'interiorità. Due "strati" dell'essere che non per niente sono vietati e perseguitati nella più vecchia, attuale e raggelante distopia: quella del "Mondo nuovo" di Aldous Huxley.
E pensandoci bene, anche da noi cominciano a essere dimensioni piuttosto malviste.
Ieri mi è venuto in mente un passaggio dell'importante libro di Giulio Milani "Codice Canalini" (ne ho parlato qualche post fa). L'ho ricercato e ve lo propongo Leggete queste righe.
Anche noi abbiamo fatto parte di questo numero di lettori che si sono perduti, o si sono assottigliati?
Io, pur essendo un lettore moderatamente forte, sicuramente sì, lo sono stato, in diversi momenti, e per periodi prolungati: l'uso dei social - magari per cause che mi apparivano buone e importanti - mi ha tolto un sacco di tempo e, oltre a molte altre cose, un sacco di letture.
Si fa sempre in tempo a invertire la rotta: tenere il buono (anche dei social, perché no?) e scrollarci selvaggiamente di dosso le trappole, i buchi neri del tempo e dell'energia, i gesti compulsivi e coatti, le lusinghe del "tanto è gratis", i canti delle sirene.




"1999", un romanzo a puntate di Paolo Di Paolo

Paolo Di Paolo ha annunciato che scriverà un romanzo in venti puntate, una a settimana, che saranno rese disponibili con la stessa cadenza a chi si iscriverà a questo sito. L'editore che produce questa opera-esperimento è La nave di Teseo. Le puntate saranno offerte agli interessati gratuitamente. Il perché e il percome di questo progetto Di Paolo li spiega qui: https://www.facebook.com/share/p/1ATjNGSyYB/
Mi pare un'iniziativa interessante e lodevole.
Di Paolo è scrittore abile e persona sensibile e intelligente. I suoi interventi pubblici sono talvolta stimolantemente controcorrente. E questi sono dei motivi in più per incuriosirsi e seguire la vicenda.
Anche il fatto di avere un appuntamento settimanale con la letteratura, slegato dai propri eventuali percorsi di lettura, mi stuzzica: sarà un piccolo tempo in più da trovare nella settimana, togliendolo ad altre attività, quelle futili. Leggere la nuova puntata di "1999" sarebbe per esempio un ottimo proposito per i nostri lunedì senza i social.




venerdì 9 maggio 2025

Presidente Mattarella, dove sono i bambini di Gaza?

Ill.mo Presidente della Repubblica Sergio Mattarella,
Le scrivo questa lettera perché lei rappresenta il vertice e allo stesso tempo l’insieme organico delle istituzioni italiane.
Per la stessa ragione, poiché le istituzioni sono di tutti i cittadini, oltre a inviargliela la rendo pubblica.
L’argomento è Gaza.
Non lo sollevo per fare o chiedere considerazioni sulle ragioni di ciò che sta accadendo, sul contesto, sul diritto alla difesa, sul diritto di combattere contro un’occupazione militare e un assedio, sulla proporzione e la legittimità delle azioni e delle ritorsioni delle due parti, sul diritto internazionale. Non intendo parlare del ruolo e della posizione dell’Italia rispetto a questa situazione.
La domanda che pongo, in effetti, riguarda esclusivamente il nostro Paese.
Perché non abbiamo accolto e non stiamo accogliamo in Italia i civili di Gaza, che sono oggettivamente messi a repentaglio ogni giorno, e che non possono essere accusati di alcuna responsabilità in ciò che è accaduto e che sta accadendo, e le cui vite vengono stroncate inesorabilmente, sistematicamente, giorno dopo giorno, da venti mesi?
È una domanda vaga, lo so, tacciabile di ingenuità.
Perciò gliene affianco un'altra più concreta e circostanziata.
Perché dopo il 7 ottobre 2023 nelle scuole italiane non sono arrivati migliaia di bambini palestinesi, come dopo il 22 febbraio 2022 ne sono arrivati migliaia di ucraini?
Chiunque abbia figli in età scolare ha vissuto in prima persona l’accoglienza dei piccoli profughi minacciati dai missili russi. In quell’occasione l’Italia, come Paese, ha messo in moto una tempestiva ed efficiente macchina del soccorso, dell’accoglienza e dell’integrazione.
Sul sito del Ministero dell’Istruzione e del Merito si legge che “le studentesse e gli studenti ucraini accolti sono 22.788, di cui 5.060 nella Scuola dell'infanzia, 10.399 nella Primaria, 5.226 nella Secondaria di primo grado e 2.103 nella Secondaria di secondo grado.” La nota è datata 10 maggio 2022, perciò sono numeri relativi ai primi due mesi di aggressione russa.
Non abbiamo perso tempo, in quel caso, né badato a opportunità, difficoltà e spese.
Personalmente credo che possiamo essere orgogliosi di questa condotta. Di un orgoglio da non sbandierare, perché in fondo non abbiamo fatto altro che ottemperare a un dovere: quello del soccorso, appunto, della protezione di giovani vite umane.
Per i nostri figli, l’accoglienza dei bambini ucraini è stata ed è un’esperienza significativa e umanamente formativa, capace di far toccare con mano il valore della solidarietà, l’orrore della guerra, la possibilità e la bellezza dell’accoglienza e dell’integrazione (quando ci siano volontà e investimenti).
Allora, Presidente, torno a domandarlo:
Perché nelle nostre scuole non ci sono le bambine e i bambini, le ragazze e i ragazzi di Gaza?
Che cosa li rende indegni di essere soccorsi, salvati, protetti, curati e istruiti?
Quali difficoltà, quali cavilli, quali ostacoli, quali conflitti diplomatici potrebbero contrastare la volontà di un Paese come l'Italia di salvare e proteggere quei bambini, se tale volontà ci fosse?
La richiesta di accogliere i bambini e i ragazzi di Gaza nelle scuole italiane è stata posta alle istituzioni italiane, tempestivamente, a poco più di un mese dall’inizio della distruzione di Gaza, anche attraverso un appello firmato da alcune migliaia di docenti.
Non so se sia mai stata data risposta a questo tentativo di interlocuzione. Di certo le cose non sono andate come auspicato dai firmatari.
Presidente. Oltre a macchiarci di un disumano e incancellabile crimine di omissione di soccorso – con implicita condanna a morte tra sofferenze atroci per molti bambini – stiamo anche insegnando ai nostri figli che ci sono bambini che “meritano” di essere soccorsi, salvati e protetti (a proposito di “merito”...) e bambini che non lo meritano. E che in ogni caso non è questione di umanità e di morale: è esclusivamente una questione di opportunità, anzi di opportunismo politico.
Presidente, stiamo insegnando ai nostri figli che il fatto di essere bambini e ragazzi non ha nessun valore di per sé; che non garantisce nessuna tutela di per sé. Perché tutto dipende dall’aggettivo che viene dopo. Stiamo insegnando loro che potresti contare meno del fango, se nel tuo caso dopo “bambino” ci fosse l’aggettivo sbagliato. Anche se il bambino con l’aggettivo giusto potrebbe in tutto e per tutto essere tuo fratello o il tuo compagno.
In conclusione, ripeto per la terza volta la stessa domanda, e questa volta chiarisco che non si tratta di una domanda retorica, che vale come un’invettiva o un’accusa. Non voglio inveire né accusare. La battaglia politica si fa nelle sedi opportune.
Io vorrei, voglio, penso di poter pretendere, una risposta a questa domanda:
Perché nelle scuole italiane non ci sono bambini salvati dalla distruzione di Gaza?
Con civile disperazione,
Carlo Cuppini

Lettera inviata al Presidente della Repubblica il 9 maggio 2025.

giovedì 8 maggio 2025

Piatto vuoto per Gaza - #ultimogiornodigaza

Raccolgo il messaggio della campagna #ultimogiornodigaza, che invita a parlare di Gaza, oggi 9 maggio, giornata dell’Europa, giornata in cui, se l’Europa non decide - pur con tragico, colpevole e irreparabile ritardo – di salvare Gaza e la gente di Gaza, l’Europa muore.
Raccolgo le parole del nuovo papa, “pace disarmata e disarmante”.
Non perché io - agnostico, alquanto anticlericale e ostile alle gerarchie - gli riconosca una particolare autorità; ma perché ha trovato un modo incisivo e lapidario per dire un’intera visione del mondo e per esprimere una postura esistenziale. Le raccolgo anche perché queste parole sono entrate nelle orecchie più o meno di tutto il mondo, e questo le rende, per qualche ora, più vibranti, più potenti, cariche di una qualche potenzialità.
La mia partecipazione alla tragedia di Gaza, il mio modo per indicare il genocidio in corso e la nostra storica, criminale omissione di soccorso, sarà un digiuno.
Perché un digiuno? A cosa serve il digiuno?
La prima risposta, stando sul piano della concretezza, è: “assolutamente a niente”.
La seconda risposta, relativa a un piano più sfumato e sfuggente, è articolata.
Il digiuno serve a se stessi, per calarsi “anima e corpo” nella realtà di una questione.
Serve a dedicare un tempo – e una parte importante di se stessi in quel tempo – a un tema struggente.
Digiuno è mettersi un pungolo dentro, che sta lì, si fa sentire, e continua a interrogarci: quanto sono in grado di provare veramente empatia? Quanto sono disposto a pagare per sentirmi intimamente, spiritualmente, più vicino alla sofferenza, alla morte, alla mutilazione, all’umiliazione, alla disperazione di queste persone?
Il digiuno è come legarsi un nastro al polso per ricordarsi continuamente di qualcosa; ma è più efficace di un nastro; e in più, è anche molte altre cose.
Il digiuno obbliga a cambiare ritmo e velocità, sia in senso fisico sia mentale.
Obbliga a rallentare, a usare una ponderatezza, una cautela, a dosare le energie.
In questo modo, conduce all’interno di uno stato prolungato di attenzione, di serietà, di concentrazione, di riflessione.
Porta spontaneamente a verificare e a rivedere le priorità.
Pone in una condizione di ascolto: di sé e anche degli altri. E anche del mondo, come lo conosciamo e come lo sentiamo.
Digiunare è fare tutte le cose quotidiane – alzarsi, lavorare, andare a prendere i bambini a scuola, fare la spesa – portandosi dentro un’assenza, un vuoto, che è come un punto interrogativo, è come olio sotto le scarpe. Quindi ogni cosa quotidiana viene fatta con un’altra lucidità, con meno automatismi.
Digiunare è richiamare un proprio coinvolgimento fisico in una certa questione, che non abitiamo, che possiamo soltanto pensare e immaginare.
Se non posso fare niente di utile, almeno me lo scrivo nel corpo, come qualcuno si farebbe un tatuaggio.
Se il digiuno inizia e finisce senza lasciare segni nel corpo fisico, è indubbio che nel “corpo interiore” (se mai si potesse parlare di una cosa del genere) lascia una tacca.
Digiunare è decidere di farsi dentro, nel corpo di dentro, quella tacca. Per essere uniti idealmente, per sempre, a qualcosa a cui ci sentiamo affratellati. Ci vogliamo sentire affratellati. In questo senso, è anche un impegno, un patto, di non dimenticare, di non passare oltre.
Il digiuno richiama la misteriosa importanza del non fare: se non posso fare niente, allora devo almeno “non fare” qualcosa. Forse questa affermazione suona paradossale. Potrebbe anche far sospettare la volontà di auto-infliggersi una punizione, per il senso di colpa di essere nato tra i privilegiati. Ma non è così. Non so argomentare meglio questo punto. Ha a che fare con la cultura della non violenza radicale.
Ci sarebbe anche da tirare in ballo il legame tra il digiuno e la forza della preghiera, o potremmo dire laicamente della meditazione; e in particolare la forza della preghiera o meditazione condivisa, quando è un percorso che si fa insieme. Ma - anche di questo - non sono capace di parlare.
Digiunare è un modo per spiegare a se stessi qual è il livello di serietà di una cosa. A quale altezza, rispetto allo scorrere della nostra esistenza, collochiamo il problema. Da questa spiegazione potrebbero discendere altre determinazioni. O no. C'è anche questa possibilità.
Digiunare è un modo per fermarsi e cambiare radicalmente prospettiva, in modo non programmato, non preordinato. E questo cambiamento è un fatto intimo, ma in qualche modo si irradia.
Digiunare è un modo per stare dentro la propria umanità nuda, cruda, scabra, spogliata, disarmata. È possibile che questo, in un qualche più o meno piccolo raggio d'esistenza nel proprio intorno, sia anche disarmante, in tutte le accezioni.
Il digiuno - che abbia la durata di un pasto o di una settimana - per me è tutte queste cose insieme, e altre ancora, ancora più difficili da esprimere.
Digiunerò per Gaza dalla sera di domenica 11 alla mattina di mercoledì 14.
Non lo scrivo qui perché suoni come un invito a unirsi. Penso che non si possa, non si debba – penso che non si potrebbe in nessun modo – invitare qualcuno a digiunare.
Lo scrivo perché penso che rendere pubbliche le nostre determinazioni, anche quelle interiori, su temi pubblici e politici della massima importanza, possa servire a incoraggiarci a vicenda, aiutandoci a trovare, ciascuno per sé, i modi più consoni per non starsene semplicemente abbandonati alla passività, allo sconforto, al disincanto.

mercoledì 7 maggio 2025

Non leggete "Codice Canalini"!

Giulio Milani ti sorprende sempre. Poi, mentre ti riprendi dalla sorpresa ti rendi conto che nel frattempo ti sei preso anche due o tre schiaffi. E ti chiedi “cosa ho fatto di male per meritarmeli?” Ma la risposta che arriva risponde a un'altra domanda: “cosa mi ha fatto di buono Milani?”. E la risposta è che Milani ti ha tirato fuori dal torpore; ti ha dato uno scossone e ti ha fatto cadere dalla testa le foglie secche; ti ha scudisciato le gambe e ti ha levato uno strato di muffa che si stava arrampicando. E al quale tutto sommato ti stavi abituando.
Così, muore Massimo Canalini. Che è stato il fondatore della casa editrice il Lavoro Editoriale, e poi, grazie alla liaison dangereuse con Pier Vittorio Tondelli, del marchio editoriale Transeuropa. Che poi è diventata una casa editrice a sé, di cui Giulio Milani è divenuto proprietario ed editore vent’anni fa, essendo stato il più geniale e costante dei seguaci di Canalini.
Ed ecco che allora Giulio Milani si mette a scrivere un libro sul suo mentore e predecessore. E cosa ti tira fuori? Una biografia? Un saggetto? Una carrellata di aneddoti? Un trattatelo sull’editoria italiana? Un instant book?
No. Ti inventa un genere letterario, che è una mezza seduta spiritica, un mezzo rituale sciamanico, una mezza insurrezione armata (di parole). E, dentro questo strano, animalesco genere letterario, lui mette le mani nella merda e tira fuori dalla tomba gli spiriti di persone, cose, opere ed epoche, defunte o scomparse dalla scena e dalla memoria: li prende per i capelli e li tira fuori dall’oblio, dove probabilmente se ne stavano in pace, e gli grida in faccia “Oh! Parla!”. E li sbatacchia, finché quelli non tornano in vita e a loro volta lo spintonano, e cominciano a scalciare, e a tirare schiaffi a lui, che li ha scomodati, a noi lettori, che ci siamo intrufolati ignari ai margini di questa baruffa. E tirano calci negli stinchi alla nostra epoca presente, che ai loro occhi deve apparire così tragicamente squallida e comicamente perbenista, e indegna dei loro sperticati tentativi, successi e fallimenti.
La storia che Giulio Milani racconta è un albero pieno di rami e di radici che si sviluppano e s’intrecciano fino a rappresentare la forma e la sostanza di un labirinto. Come nel famoso racconto di Italo Calvino (uno degli autori più volte citati). E come nel racconto di Calvino, a un certo punto non si sa più dove sia l’alto e dove sia il basso, dove sia il vero e dove sia il finto, cosa si stia inseguendo e da cosa ci si stia allontanando. Perché la storia rianimata da Giulio Milani è una parte - la più fremente e irrequieta - di quel momento storico in cui il basso e l’alto si sono rimescolati, finalmente, e ha preso a dominare il senso di una notte magmatica e magica – scenario ideale per cogliere il passaggio di comete e di meteore incendiate. In questa notte, che ha travasato l’eredità del ribellismo punk degli anni ’80 nello sperimentalismo culturale e sociale degli anni ’90 – si vedono lampeggiare genialità, irregolarità, irriverenza, pensieri libertari e rivoluzionari, forme di autorganizzazione, anticonformismi radicali, strani salotti ebbri e sudici, sovvertimenti e infrazioni.
Qualità e gesti inattuali – oggi difficili anche da nominare senza provare disagio – che lampeggiano anche nella scrittura di Giulio Milani. Il quale si sporca, s’infanga, s’insanguina, si avvoltola completamente nella materia viva e terrosa del suo racconto. E ne emerge narratore ispirato, lucido e scatenato, come Arlecchino-quello-vero, demone ctonio che viene fuori dalla terra, sbucando da un mucchio di foglie marce, urlando la sua insopprimibile fame.
La scrittura di Giulio è una gara di corsa, una corsa contro il tempo (il nostro tempo), un rodeo sulla groppa della letteratura, un giro sulle montagne russe. Lui corre, insegue il suo obiettivo - che è una “indagine corsara su Canalini”, ma anche su tante altre cose - e ogni dieci righe ti pianta una forchetta in una chiappa. Perché tu non ti parcheggi nel piacere di rivangare certi passaggi storici della desaparecida controcultura italiana.
Milani ti dà del tu. Poi dà del tu a un personaggio che ha appena chiamato in causa. Poi dà del tu all’eventuale autore di una sceneggiatura tratta dal suo libro. Poi ricostruisce con trasporto gli ultimi mesi della vita di Tondelli. Poi si lancia in un’inventiva contro la normalizzazione delle aspirazioni di movimenti allora dirompenti. Poi ci riporta per l’ennesima volta nella redazione di Transeuropa, dove Canalini insegnava a leggere e a scrivere ai suoi giovanissimi autori (vessandoli e plasmandoli alquanto). Poi impreca, porca troia. Poi ci racconta la nascita non poco sorprendente di quel caposaldo che, per noi quaranta-cinquantenni, è stato “Jack Frusciante è uscito dal gruppo” (sia che l’abbiamo amato, sia che l’abbiamo detestato).
Tu sali e scendi, mentre Canalini rivoluziona il mondo dell’editoria italiana, inventa formati, scopre talenti, esplora la musica ribelle marchigiana, compie travasi impensabili tra ambiti finora compartimentati, cambia l’editoria, inventa marchi editoriali, vende marchi editoriali, traghetta i suoi autori verso altri lidi, rinuncia all’Einaudi come Totti ha rinunciato al Real Madrid, anima cenacoli come un demiurgo. E tu pensi alla letteratura e alla vita. E vedi sfilarti accanto paesaggi che riconosci, ma appaiono sfocati per quanto scorrono veloci. I colori sono intensi, impressionano la retina. Senti anche gli odori del paesaggio, quegli odori che da quando si viaggia in Frecciarossa con i finestrini sigillati non esistono più, sui treni c’è solo odore di detergenti e di chiuso, e il viaggio è diventato un non-tempo che collega non-luoghi.
Poi sei sulla groppa del toro, senti il suo sbuffo furioso, e senti anche quello di Giulio Milani, che lo tiene per le corna, quel toro. E a volte per le palle. E pesta pesante sui piatti, sul tamburo, sui tasti dello xilofono, qualche corda della chitarra si schianta e ti fa sobbalzare.
Se ne frega della forma pulita, se ne frega di regolare i decibel, Giulio Milani. Se ne frega se c’è qualche ripetizione (ma zero refusi, o quasi). Lui va a duemila, impreca, si lancia, tira schiaffi, rallenta. È barbarico, intemperante, malinconico, signorile, scurrile, forbito, riflessivo, tranciante. Compassionevole verso i “suoi” personaggi, innamorato della temperie culturale che essi animavano, inferocito verso il contesto storico e sociale che li sovrastava, e che ci ha portati fino a questo guado pieno di adorabili bolle di sapone.
Ma del resto “solo gli arresi possono credere che la storia dei processi rivoluzionari si sia esaurita nel Novecento”.
Del contenuto del libro – che è tanto, davvero tanto, ed è imperdibile per chiunque sia interessato alla letteratura e all’editoria, per qualunque motivo – non parlo, perché altri ne hanno parlato diffusamente. E perché sta lì, dentro il libro, alla portata di tutti, a pochi euro.
Ma devo dirvelo: se vi piace la storia scritta (e cancellata) dai vincitori, NON LEGGETE CODICE CANALINI.
Se vi piacciono i ribelli di maniera e di origine controllata, NON LEGGETE CODICE CANALINI.
Se siete soggetti al mar d’auto, al mal di mare, al mal d’aria, al mal di schiaffi, NON LEGGETE CODICE CANALINI.
Se state bene col culo sul divano, tra i cuscini comprati all’Ikea, incollati alle serie tv, NON LEGGETE CODICE CANALINI.
NON LEGGETE CODICE CANALINI, perché molto probabilmente vi farà venire la voglia irrefrenabile di racimolare ogni briciolo di tempo libero per leggere, studiare, rileggere i libri che avete amato a quindici anni e che vi hanno cambiato la vita (e forse poi li avete dimenticati). Vi farà venire la voglia di racimolare ogni briciolo di energia mentale per tornare alle origini delle vostre passioni e irrequietezze, per vedere la vera natura della nostra epoca, e per lottare.
Io vi ho avvertiti. Se non volete darmi retta, buttate giù un bicchiere di whiskey e saltate su questo tagadà, tenendovi saldi dovunque troviate un appiglio e guardando bene da tutte le parti per non perdere neanche un dettaglio di quello che vi schizzerà davanti agli occhi.
PS
Tempo fa qualche recensore ha definito Codice Canalini “libro dell’anno”. Io lo chiamerei “libro dell’anno zero”: perché da questo robusto e generoso dissodamento del terreno potrebbero nascere tante cose che si davano per estinte. Un nuovo corso di entusiasmo, ricerca, sperimentazione, schiaffi, sovvertimenti, indipendenza, nelle lettere e anche fuori.

martedì 6 maggio 2025

Un Prato di Fiabe - XXV edizione

Anche quest'anno avrò il piacere e l'onore di partecipare ai lavori della giuria letteraria del concorso 
Un Prato di Fiabe, giunto alla 25esima edizione, insieme ad Andrea Bassani, Fabio Leocata e Paola Zannoner.
Spero che la partecipazione, come sempre, sia ampia: è una bella occasione per cimentarsi con la creazione, l'invenzione e la rielaborazione, confrontandosi con lo strumento docile ed esigente della scrittura.
Buone fiabe!



Tutti i lunedì senza i social! (Testimonianze)


Sotto il mio post di ieri sul primo "lunedì senza i social" sono apparse tante testimonianze e riflessioni davvero belle e interessanti. Toccanti. Ne riporto alcune, qui sotto, perché mi pare che questa idea e questa condivisione, nate un po' per caso un po' per avventura, segnino già l’avvio di un percorso, l'apertura di un cantiere. È una cosa che non va buttata.
Il potere disintossicante di un distacco anche breve dai social è evidentissimo ed emerge in quasi tutti i commenti. Questo è il punto che riguarda il livello personale dell'auto-tutela, della consapevolezza e del benessere.
Ma visto che lo abbiamo fatto insieme, e forse lo faremo ancora, c'è anche una dimensione collettiva, che secondo me contiene un significato politico, in senso lato. Lo formulo in questo modo:
Riconosciamo e apprezziamo le opportunità che le tecnologie digitali ci offrono. E intendiamo utilizzarle:
- restando liberi di decidere il come, il quanto e il quando;
- restando liberi dai condizionamenti che i social tentano di esercitare sulle nostre menti, sul nostro umore, sul nostro tempo, sulle nostre dinamiche relazionali;
- restando critici e vigili verso le insidie che i social e le tecnologie digitali in generale ci tendono;
- restando consapevoli del potere economico e politico che i social conferiscono ai loro proprietari: un potere infinitamente maggiore di quello offerto a noi singoli utilizzatori; ma non così grande da annullare la nostra capacità di autodeterminazione.
Questa autodeterminazione noi la mettiamo in atto in ogni momento, cercando di utilizzare gli strumenti in modo consapevole e non passivo.
A questa autodeterminazione decidiamo anche di dedicare un momento particolare, collettivo, rituale, ricorrente, programmato: i lunedì senza i social.
Un giorno a settimana, il primo giorno della settimana, ci chiamiamo fuori. E questo percorso sarà un piccolo cantiere di libertà, di distensione, di autodisciplina, di percezioni, di pazienza, di pratiche alternative, di riflessione e rigenerazione, di incontri e condivisioni d’altro genere.
I lunedì senza social esprimono anche un avvertimento rivolto ai feudatari tecnologici:
Signori, noi frequentiamo regolarmente le vostre vaste proprietà, ma sappiate che, anche qui dentro, non siamo asserviti.
Non siamo disponibili a farci plasmare da meccanismi creati da voi in laboratorio, per il vostro vantaggio.
Sappiamo benissimo che le nostre interazioni sono il vostro oro.
Voi sappiate che lavoriamo gratis per voi solo se e quando lo vogliamo. E finché non ci sentiremo troppo presi in giro, o troppo sfruttati. Possiamo smettere in ogni momento.
Non avete idea di quanto siamo liberi, e di quanto teniamo alla nostra libertà, e di cosa ci possiamo inventare per godercela e per darle maggiore concretezza.
Ogni lunedì, spegnendo tutto, ve lo ricorderemo, allegramente e risolutamente.

—-
Ed ecco una carrellata di annotazioni di chi ha partecipato al primo lunedì senza social. Non metto i nomi di autori e autrici. Chi vuole sapere, e leggere tutti i commenti per intero, vada a vedere sotto al mio precedente post. 

Io ieri sono stata senza social (tranne WhatsApp) e sono stata benissimo. Ho deciso che lo farò un giorno alla settimana (non so se sempre il lunedì). Che sia un inizio, vorrei arrivare ad andarci una volta a settimana.

Io voglio disintossicarmi ogni giorno. Purtroppo ieri ho ritenuto non possibile digiunare.

Ogni lunedì! E anche ogni giorno che si fa una gita nella natura (almeno per me).

Ottima idea, farò altrettanto. Grazie per l'input.

Dopo un iniziale senso di disagio (avvertivo chiaramente la sensazione inquietante che mi mancasse il consueto automatismo che mi spinge a controllare il telefono), ho avvertito progressivamente un piacevole senso di liberazione, una sorprendente calma mentale.

È stato come ritrovare lo spazio tra le cose e i pensieri, lo spazio necessario a pensare e a riprendere cose che avevo lasciato indietro...

...Pensavo peggio. Anzi, talvolta ho sorriso di questa ‘rinuncia’ con soddisfazione. Ma sì, rifacciamolo.

Ho aderito convintamente. Non ho usato nemmeno WhatsApp. Qualche minuto di tentazione. Poi è stato anche facile. 

Io credo che più che non usare i social si potrebbe astenersi, anche in maniera permanente, dall'intervenire sul "tema del giorno" che viene lanciato ormai con un'agenda setting impressionante.

Incredibile il potere dell'autodeterminazione ! (…) La disintossicazione , spero irreversibile , ormai e' in atto.

È andata benissimo. E oggi, Seppur non totalmente ho continuato.

La nomofobia è una vera e propria patologia di cui soffrono (talvolta senza saperlo) molte persone ed è per questo fondamentale attuare interventi di disassuefazione, ben vengano iniziative volte a rendere queste pratiche più comuni, in tutte le fasce d’età.

Fino alle 18 poi ho mollato purtroppo.

Dovresti dare risalto alla notizia. Inviare ai mezzi stampa, TV eccetera.

Ieri è stato facile astenersi perché ero in mezzo alla natura... Vediamo il prossimo lunedì!

Io sono stata brava fino a sera.... Poi mi sono fatta fregare da una cosa di lavoro e ho aperto i social. Ma lunedì prossimo sicuramente andrà meglio!!

Una fatica utile. Una ginnastica Mentale preziosa per conoscersi meglio.. Non ce l ho fatta completamente (…) prossima volta avviserò le persone più vicine in modo da poter chiudere la connessione con + tranquillità.

Bloccare automatismi
Liberazione
Mancanza di distrazione dalle duties
La sera è più difficile resistere
Soddisfazione
I got a lot more stuff done —> I feel good

Ho sbirciato Facebook due volte - la prima, al mattino, pressoché inconsapevolmente, come gesto meccanico; la seconda consapevolmente nel pomeriggio, e mi sono resa conto trattarsi di un riflesso della dipendenza. Quindi, il prossimo lunedì disinstallo l'app dal cellulare (…) stato molto bello perché ho vissuto di più la giornata nel reale, senza interruzioni; ho riflettuto di più, ho parlato con gli altri di più. E oggi mi sono affacciata qui sopra solo la sera, dopo cena.

Ci sto! E....ci sto ....proprio bene senza social!!!! A lunedì.

Devo dire che il social non mi è mancato per nulla, proverò a farlo ogni lunedì. Mi sembra un buon modo per rompere il ciclo vizioso e l'utilizzo compulsivo.

Io non ho aderito, anche se ho trovato l'iniziativa molto buona e giusta. Mi sono concentrato sulla inutilità del verbo social e sul fatto che tutto sommato la realtà del corpo finisce sempre per prevalere.

Dovrò togliere le notifiche ....in automatico per ben due volte ho cliccato. Mi sono accorta dell' azione automatica priva di scelta e pensiero...CHE FASTIDIO !!! Mi è servita però come riflessione.

Son stata così bene che ho riaperto Fb solo sta mattina… Grazie!!

lunedì 5 maggio 2025

Primo lunedì senza i social - TUTTI i lunedì senza i social!

Ieri non era proprio il giorno giusto per stare lontani dai social, con la decisione di Netanyahu di occupare Gaza che rimbalzava su tutti i media fin dalla prima mattina…
DOVEVO dire qualcosa. DOVEVO sapere cosa ne stavano dicendo i miei contatti.
Per questo, forse, è stata proprio la giornata ideale per stare alla larga da Fb: digiunare quando non si ha fame è troppo facile, e troppo inutile.
Per qualche minuto sono stato frustrato per non poter sfogare la mia costernazione con un post. Poi me ne sono fatto una ragione.
Ho continuato a pensare a Gaza per tutto il giorno, a tratti, in sottofondo. Come mi è capitato diverse volte negli ultimi mesi. Ho pensato a che fare, perché qualcosa bisogna fare. Ho pensato che devo tornare a informarmi seriamente sulla campagna di boicottaggio commerciale di Israele. Informarmi su iniziative territoriali per entrare fisicamente in contatto con associazioni attive e militanti che fanno qualcosa di concreto.
L’energia mentale suscitata dall’ennesima terrificante notizia, non sfogandosi in un post, si è trasformata nel desiderio di muovermi per agire in qualche modo nel mondo reale. Come accadeva prima dei social, insomma.
Così ho pensato che oggi siamo pentole a pressione con la valvola mezza rotta, che sfiata di continuo. Che emettono continuamente un filo di fumo, ma mai un fischio robusto. E non cuociono neanche una carota. Figuriamoci se potrebbero mai fare un bel getto di vapore incandescente, quando servisse.
Al tempo dicevano che le primavere arabe sono nate sui social, grazie ai social. Forse era vero. Ma io ho sempre sospettato che le istanze rivoluzionarie, o anche le semplici spinte al cambiamento, si spengano anche, rapidamente, “grazie” ai social.
Ieri per me è stato bello, motivante, perfino eccitante, sapere che altre persone si trovavano per loro scelta - per una scelta comune - nella mia stessa condizione. Che avevano a che fare con gli stessi stati d’animo e le stesse contraddizioni interiori.
Da questo punto di vista, la giornata è passata molto bene. Dopo un disorientamento e un disagio iniziali, ho provato una sensazione di libertà un po’ euforica. Libertà da meccanismo mentali malsani.
Ho passato veramente un buon tempo. Sono andato a letto con la mente più fresca del solito; consapevole di avere passato più tempo a leggere, a pensare, a chiacchierare con familiari, amici, colleghi e baristi, a scrivere. Mi sono venute delle idee, e - non “dovendole” buttare subito fuori, sui social – mi sono preso il tempo per tenermele in bocca, scartarne alcune, elaborarne e fissarne altre. Ho scritto degli appunti per il nuovo romanzo. Ho fatto delle foto naturalistiche senza che allo scatto si sovrapponesse il pensiero di una possibile condivisione in tempo reale o quasi.
Ho pensato al tema dell’urgenza: scriviamo sui social solitamente per rispondere a un’urgenza. Trattenendo l’impulso, scopriamo che quell’urgenza era fasulla. Non era, cioè, un’urgenza. Appariva tale soltanto perché abbiamo interiorizzato alcune dinamiche strutturali dei social, che non fanno bene a noi, ma fanno benissimo alle tasche e agli scettri dei giga-miliardari (pronti a “baciare il culo” al presidente Usa di turno - Trump non è stato il primo né sarà l’ultimo). Detto ciò, non intendo dire che sia sbagliato stare sui social, postare, commentare, likare ecc. Ma è giusto, è necessario, essere coscienti di quello che CI accade lì dentro, di quanto il medium sia il messaggio, e di quanto noi diventiamo simili a quel medium, snaturandoci alquanto, per diventare noi stessi veicoli e funzione di “quel” messaggio.
Dunque, voglio rilanciare:
TUTTI I LUNEDì SENZA I SOCIAL
Domenica sera si disattivano tutte le notifiche, magari si tolgono anche le icone dalla homepage per evitare la tentazione di cliccarci sopra per una sbirciatina, e se ne riparla martedì mattina.
Non voglio abbandonare i social: voglio sottrarmi alla presa che esercitano sulla nostra mente, alle dinamiche relazionali che essi fomentano, all’enorme sperpero di energie buone che causano.
Perché il lunedì?
Un giorno predeterminato ci vuole, perché altrimenti si finisce per astenersi solo quando non costa nulla e non cambia nulla. E mi piace l’idea che si inizi la settimana dando, dandosi, questo segnale. Questo ritmo, questo imprinting, questo tempo in levare, che può trasformarsi in un battere: partire “non facendo” qualcosa, per dare spazio a un altro fare. Non fare qualcosa tutti insieme poi sarebbe una forza, e sarebbe anche divertente.
Lunedì senza social:
per disabituarci a reagire automaticamente agli stimoli dei media (compresi i social);
per togliere alle notifiche il potere di placare stati d’ansia che lo stesso uso dei social determina (folle cortocircuito!);
per riabituare la mente a stare bene con se stessa, tra le cose, anche nell’attesa, anche nella noia, senza cercare un continuo appoggio in stimolazioni digitali, in simulacri di relazioni.
A me il lunedì ricorderà che i social non sono la naturale, inevitabile, insostituibile estensione della nostra sfera relazionale, e men che meno della nostra personalità.
Mi ricorderà che un eventuale senso di astinenza indica che qualcosa non va.
Mi ricorderà anche che è necessario fare un uso moderato e in qualche modo distaccato e critico dei social anche in tutti gli altri giorni della settimana, non lasciando che questi sostituiscano altre esperienze e altre possibilità di espressione, di relazione, di lotta.
Se poi il lunedì senza social sarà condiviso da altre persone, se assumerà la forma di un progetto aperto, collettivo, in continua evoluzione, tutto sarà più bello, più forte, più nuovo, più politico. Gireranno testimonianze, nasceranno idee e iniziative ulteriori. Sarà non solo una pratica personale di ecologia della mente, ma una forma allegra di resistenza passiva, di sabotaggio, di costruzione di senso, di riappropriazione.

venerdì 2 maggio 2025

Lunedì 5 maggio giornata senza i social


Dopo la piccola rivolta dadaista, o hackeraggio pop (“scrivi un post senza senso e scappa”), proposta da Valerio Cuccaroni per il Primo Maggio, mi sento di rilanciare alzando la posta.

Lunedì 5 maggio (giornata mondiale del lavaggio delle mani*)
CE NE LAVIAMO LE MANI DEI SOCIAL
e di tutto quello che ci succede dentro

Lunedì prossimo, dalle 0 alle 24 non usiamo i social.
Niente Fb, Instagram, X, Linkedin, Tik Tok, Threads, Truth, Telegram…
Niente vuol dire niente, quindi neanche una sbirciatina.
I veri eroi riusciranno a stare anche senza Whatsapp, Messenger, messaggistiche varie.

Perché un giorno di astinenza dai social?
Se potessimo formare una massa critica (milioni di utenti), faremmo sobbalzare sulle sedie i proprietari dei social (che, sempre più, sono anche i padroni del mondo, e delle nostre menti). Sarebbe divertente. Come tutti i lavoratori, ci accorgeremmo di avere il potere di condizionare le loro scelte, e potremmo iniziare a ragionare su come usare questo potere.
Ma questo non accadrà. Non il 5 maggio. Non raggiungeremo né una massa critica, né una massa qualunque. Saremo quattro gatti. O forse 44. (O forse 404: error - not found).
E allora?
Be’, lo faremo per noi.
Sarà un modo per prendere consapevolezza di due o tre cosette.

Sarà una prova di resistenza, di carattere e di pazienza.
Sarò una verifica del livello di dipendenza che abbiamo sviluppato (ne abbiamo mai fatta una?).
Sarà uno sforzo e un costo (mentale), ma sarà anche una purificazione e un guadagno (sempre mentale).
Il 5 maggio ci verrà l’impulso di scrivere una riflessione, un commento arguto, una battuta divertentissima; di condividere una bella foto o un meme; di esprimere indignazione per una notizia rimbalzata sui media; di prendere posizione su questo o su quello…
Quell’impulso ci verrà 10 volte almeno.
E ogni volta conteremo fino a 10, e rimanderemo tutto a domani.
Che potrà mai succedere di tanto grave? Scommetto che nessuno si farà male.
Bene. E poi?

Poi può darsi che il giorno dopo, il 6 maggio, alcuni di quegli impulsi siano svaniti. In questo caso, forse ci sembrerà fantastico non avere speso tempo ed energia (e regalato clic a gratis) per scrivere qualcosa che era tanto urgente quanto volatile e per noi stessi irrilevante.
Può darsi che il 6 maggio sentiremo ancora la necessità di fare questo o quel post. E allora lo faremo più convintamente, più ponderatamente, meno condizionati dall’infernale dinamica stimolo-reazione da cui ci lasciamo troppo spesso dominare, ormai in modo quasi pavloviano.
Può darsi che lunedì, il 5 maggio, l’impulso a esprimere o a condividere qualcosa sia così forte che dovremo trovare dei modi per averla comunque, quella condivisione.
Come?

Parlando (di più) con il proprio partner, con un amico, con i colleghi, con i genitori, con il cassiere del supermercato.
Entrando in un bar e gridando cosa si pensa di quel discorso di Mattarella, o dell’ultima uscita di Bubu.
Scrivendo su una maglietta che a Gaza è in corso un genocidio, o quello che vi preme affermare, per poi uscire a passeggiare.
Scrivendo un’email, o una lettera a mano, a quel tale cugino con cui non parlate da cinque anni, per chiedergli come diavolo fa a sostenere il PD (o la Lega, o FDI… fate voi).
Annotando i propri pensieri in un diario.
(Sì, anche questo gesto può placare la coazione a condividere sempre tutto in tempo reale; riconsegnandoci una rappresentazione di noi stessi tridimensionale, lenta, integra, non così condizionata dal bisogno di essere parte dell’infosfera.)

Può darsi che conservando quell’energia potenziale - l'impulso a condividere - per 24 ore scopriremo che essa si tramuta in forza. E che quella forza può essere gestita e direzionata, e accresciuta (magari con l’aiuto di pratiche interiori, come la concentrazione e la meditazione).
Dico forse. Sto soltanto facendo delle ipotesi.
Comunque, perché non sperimentarlo?

In ogni caso, può darsi che il 5 maggio, praticando l’astinenza dai social, ci vengano altre idee per sviluppare consapevolezza, centratura ed emancipazione.
E può darsi che il giorno dopo, il 6 maggio, avremo voglia di raccontarci (perché no, anche sui social; mica voglio demonizzarli) come sono andate le cose senza social. Magari ci verrà voglia di ripetere l’esperienza una volta all’anno, o una volta al mese, o una volta alla settimana… estendendo il campo dell'astinenza... il lunedì luddista... Va be'.
Allora? Chi ci sta? Ci contiamo?
Facciamo girare qualche banner?


*No, non è battuta: il 5 maggio è la giornata mondiale del lavaggio delle mani, istituita dall’OMS. L’ho appena scoperto googlando. Infatti la patrona del giorno è Santa Barbara, d’Urso. (Ok: è questa la battuta). E, a proposito di covid e di OMS, il 5 maggio è anche il giorno in cui l’OMS, nel 2023, ha dichiarato finita la pandemia. Ah sì, è anche il giorno in cui morì Napoleone (primo); e quello in cui i Messicani, qualche anno dopo, presero a calci in culo Napoleone (terzo), che aveva mandato oltreoceano le truppe per estendere l’influenza francese in Sudamerica. Il 5 maggio si ricorda anche la morte di Bobby Sands dopo 66 giorni di sciopero della fame… Insomma, ognuno scelga il pretesto che preferisce per astenersi dai social. Ma regaliamoci questa opportunità.

martedì 29 aprile 2025

Origine, di Nat Cardozo

Questo libro dell’illustratrice uruguaiana Nat Cardozo, edito da L’Ippocampo, racconta con rispetto e semplicità la ricchezza della diversità di alcuni popoli "originari": quelle comunità indigene che sono rimaste fuori dal corso della Storia, o a suoi margini, e oggi rischiano di venirne definitivamente schiacciate (come accenna il testo in appendice, di tipo più informativo). 
Ma soprattutto racconta ciò che accomuna tutti questi popoli: una visione della natura come essere vivente di cui ogni persona e ogni gruppo fa parte, come una cellula o come un organo; e dalla cui salute e prosperità dipendono la salute e la salute di ciascuno. Inoltre, una vita che trova la pienezza nella pratica della moderazione, della riconoscenza e della reciprocità, e nel conseguimento della saggezza. Dove sottrarre alla natura più di quanto sia strettamente necessario è spesso considerato una colpa che deve essere punita. L'esatto opposto dei popoli che hanno scelto di contrapporre alla Natura la Storia e la Religione, prima, e poi la Scienza e la Tecnica. L’opposto dei popoli che hanno fatto la Storia. Che l’hanno inventata, intendendola come un continuo bivio tra sopraffare e appropriarsi, o essere sopraffatti e venire depredati. 

Questo libro mi fa pensare che anche noi, arrivati al termine di questa folle corsa che è stata la Modernità, non potendo tornare indietro fino alla nostra origine, della cui memoria non si conserva neanche la più remota eco, dovremmo almeno inventare un modo per ridiventare un po' indigeni. Che non significherebbe ripudiare i prodotti materiali e immateriali della Modernità; ma dare sempre più peso ad altre cose, più spazio ad altri comportamenti, più nutrimento ad altre relazioni e visioni, più fiducia in un'altra idea di pienezza della vita. Finché quelli - i prodotti della Modernità - non finirebbero spontaneamente per interessarci sempre meno.

lunedì 21 aprile 2025

Spaziale papale



Papa Francesco era venuto dalla fine del mondo.
Il mio unico racconto papale viene dal mondo senza gli atomi. 
Mi sa che oggi glielo devo proprio dedicare...
---

Spaziale papale
Dallo spazio, il papa continuava a lanciare messaggi, benché sulla Terra non ci fosse rimasto nessuno a riceverli. Da quando era stato lanciato in orbita, appena un mese prima, le cose sul terzo pianeta erano precipitate e l’umanità si era estinta in capo a una settimana, portando con sé ogni altra forma di vita. Un olocausto generale, colossale, rapido e indolore. Ma questo il papa non lo poteva sapere. Da lassù aveva percepito il divampare di incendi smisurati, di dimensioni bibliche, estesi su tutti i continenti; negli ultimi giorni l’atmosfera gli si presentava rossastra e caliginosa, impedendogli quella limpida visione di cui aveva potuto godere appena aveva iniziato a galleggiare nell’orbita terrestre. Il papa non immaginava però che l’interruzione delle comunicazioni con la Terra potesse essere causata dalla scomparsa del genere umano; pensava piuttosto a un problema tecnico, di trasmissione dei dati, come era facile sperimentarne anche laggiù, nonostante le tecnologie avanzate, con il telefono o con il web. Di certo, presto avrebbero mandato qualcuno a riparare quello che andava riparato, il microchip sotto la papalina, probabilmente. O forse (questa era l’ipotesi più ottimistica) il problema stava là, sulla Terra, e i tecnici lo stavano già risolvendo: entro poche ore, si diceva il papa, la comunicazione sarebbe tornata regolare.
Intanto, nel dubbio che le trasmissioni dalla sua postazione alla Terra andassero ancora a buon fine, anche senza avere feedback, il papa continuava a mandare i suoi dispacci con regolarità.
«Una bellissima cometa sta sfiorando un asteroide roccioso, o un meteorite, non so. Per fortuna non ci sono stati incidenti».
«Vedo una nube galattica avvicinarsi rapidamente alla Terra. Prevedo un pomeriggio di foschia e piogge stellari».
«Dio sta dormendo da tre ore. Russa leggermente. Adesso si sta girando su un fianco».
«La Madonna manda a dire che in casa stanno tutti bene e ringrazia per le candele accese questa mattina a Bogotá».
Il papa non vedeva né nubi galattiche, né Madonne, né Dio. Ma qualcosa doveva pur raccontare all’umanità in ascolto. Si erano adoperati tanto per spedirlo lassù, incorporandogli un comodissimo procura-ossigeno-e-cibo a pannelli solari. E poi l’entusiasmo incontenibile, sia dei fedeli che degli atei: tutti lo avevano incoraggiato, pregato, amato, invidiato. Il papa in orbita… Che idea formidabile! Non aveva potuto tirarsi indietro e alla fine aveva accettato di buon grado.
Adesso si godeva bellissimi panorami astrali e non doveva preoccuparsi di nulla, se non di dare un po’ di speranza alla gente, facendo magari un po’ di intrattenimento di qualità. Non come prima, sulla Terra, che era pieno di rotture di scatole che neanche il presidente degli Stati Uniti poteva immaginare. Adesso, per esempio, se gli veniva da orinare, doveva solo calarsi le braghe e farla lì, davanti a sé, nello spazio infinito: una bolla di liquido giallo che fluttuando si andava a disperdere tra i misteri del cosmo. Lo stesso valeva per i bisogni più solidi. Che incanto, assistere alla lenta deriva degli escrementi! Che straordinaria senso di libertà!
Il papa era l’uomo più felice del mondo. Non si sentiva così da quando, bambino, si andava a nascondere sui covoni di fieno graffiandosi tutte le ginocchia, quando i genitori lo chiamavano per dire che era pronto in tavola e lui non voleva mai andare.
Nel suo idillio spaziale, niente poteva fargli credere che l’umanità aveva appena scritto l’ultima pagina della sua storia. Ma probabilmente, anche se la notizia avesse potuto raggiungerlo, non si sarebbe dato gran pena.
L’ultimo uomo se ne stava là beato, completamente spensierato e quasi felicemente inebetito, lieto di come si apprestava a condurre l’ultimo scampolo della sua fin troppo lunga vita, la veste bianca rigonfia di sbuffi cosmici, ciondolante come una vecchia campana.

lunedì 7 aprile 2025

Notte, di Emanuela Nava (Pulce Edizioni)

Come le fiabe - e come tutte le storie di Emanuela Nava - “Notte” è un racconto che attraversa luoghi oscuri e profondi dell’anima. 
Come le fiabe, è anche una storia luminosa e piena di promesse: promette premi, però, che possono essere guadagnati soltanto al prezzo di compiere percorsi pericolosi, cedevoli, fatti di spaventi, turbamenti, dubbi ed errori. Dove il coraggio non è il contrario della paura ma è il dono, in forma di possibilità, che l’avere paura offre.

Per attraversare questi luoghi oscuri e profondi e raggiungere, almeno temporaneamente, la luce del giorno, non vanno bene le trame lineari, apollinee, che procedono come rompighiacci narrativi nel materiale indistinto della vita. Bisogna procedere per volute, spire, ondate, assopimenti e risvegli, intuizioni ed esitazioni, decisioni improvvise, parole avventate.

È questo il modo in cui passa la notte più importante di Maia, adolescente in bilico sul bordo dell’infanzia, e di Luigi, il fratello maggiore che non sa ancora qual è il suo posto nella vita. Maia è attratta e e spaventata dal grande salto che sente di dover compiere; ascolta tutto, ha antenne sensibili, cerca segnali che le diano chiarezza e comprensione, e li capta dovunque: nei doni che le fa il salice, nei rumori notturni della casa in cui lei e Luigi sono rimasti eccezionalmente soli, senza genitori e anche senza corrente, in un buio che è labirinto, pericolo e anche ri-velazione. Un serpente intrufolatosi in casa, i libri dell’infanzia, la fiaba di Biancaneve, la paura di confrontarsi con i genitori, e quella di essere abbandonati da loro, la paura di crescere e quella di non riuscire a crescere. Il coraggio che si rende necessario, e che porta chiarezza nel cuore: un colpo netto che fa suonare all’unisono e in armonia le sue corde.

Il teatro, i burattini, il bosco e i suoi animali, il viaggio, la fratellanza, con la sua forza solare, la sua notturna ambiguità. Il buio che fa vedere, la luce che acceca; il buio che nasconde, la luce che costringe le cose a mostrarsi nel loro ordine. La solitudine, infine: il luogo dove non si è separati dagli altri e dal resto mondo, ma dove si attinge alla sorgente del Sé. 

Tanti simboli, tanti riferimenti, espliciti o nascosti, a figure e significati della ricerca interiore, psicologica, archetipica.

Questo è Notte, e altro ancora. Perché non tutto si può dire.

PS: La lettura mi ha tanto più coinvolto ed emozionato, essendo la mia, nostra (in fondo sua e basta) Maia così vicina alla Maia del libro. Sul bordo dell’infanzia, incerta se saltare indietro o in avanti; nello sguardo, a volte, un labirinto in cui si intrecciano liane di luce e di buio, da attraversare da sola; nel volto, in certi momenti, la gravità di chi sa che non può sottrarsi a un compito che l’aspetta, che pare troppo grande e costoso. Ma è la vita.

sabato 5 aprile 2025

Rivista Malamente

Per il mio compleanno avevo espresso un desiderio: l'abbonamento a "Malamente. Rivista di lotta e critica del territorio". Ci ha pensato Ramona a esaudirlo e la prima busta con l'ultimo numero, insieme a un arretrato e a un libro in omaggio, è arrivata ieri.

Finora ho letto soltanto occasionalmente gli articoli di "Malamente" disponibili on-line. Oggi sento sempre più il bisogno di sostenere le iniziative che costituiscono e costruiscono alternative, culturali, produttive, sociali e politiche.

Sostenerle significa dare loro ossigeno per andare avanti; significa nutrirsi in modo più profondo e più continuativo delle riflessioni che portano avanti; significa, infine, sentire di farne in qualche modo parte.

Quest'ultimo aspetto per me non è secondario.

Tra i dissidenti, i critici, gli sbigottiti che mi capita di incontrare, dal vivo o in altre forme, la riflessione ricorrente, e dolente, è: siamo soli, disorientati, abbiamo preso ogni riferimento e ogni senso di appartenenza, gli esperimenti politici che avrebbero dovuto rappresentarci sono stati dei disastrosi fallimenti... Che fare?

È una sofferenza psicologica e sociale, arriverei a dire esistenziale, che per molti come me si è acuita in modo insopportabile durante la pandemia, e che per molti aspetti (anche a causa dell'assenza di una riflessione collettiva sui fatti pandemici, ma per molte altre più attuali cause) continua a persistere.

Inoltre i social ci hanno fatto e ci fanno incontrare, tra consimili e consentanei, e questo è un bene. Ma la cosa rischia di finire lì. Certo, è importante poter continuare a condividere riflessioni in questi spazi, e usarli per promuovere iniziative reali sul territorio. Ma la dinamica di fondo dei social è quella che ci porta a vedere soltanto i "trend topic", le notizie del giorno passate sui siti dei media, e a fare battaglie di link e screenshot, e a spendere la nostra intelligenza e la nostra energia in un continuo moto di reazione. La reazione è positiva, perché mobilita forze fresche; ma non è mai una creazione: porta sempre con sé l'impronta di ciò che ha suscitato la reazione, in negativo, e poco altro. Cosa diventeremo, di questo passo? E cosa NON diventeremo?

Dobbiamo cercare di andare oltre i social, continuando a usarli per sfruttare la loro utilità, consapevoli però della loro caratteristica energivora, illusoria e ipnotica. E cercare, appunto, di incrociare esperienze concrete, territoriali, sociali, che possono essere vicine o lontane da noi, ma a cui in qualche modo possiamo apparentarci. Sostenendole, nutrendocene e facendone parte.

Di "SuperLunaria" ho giù parlato più volte. È una rivista, un progetto e anche, sempre più, una comunità di dissenso e di creazione di altri sensi.

"Malamente" è un progetto che da anni raccoglie, studia, promuove la cultura libertaria e anarchica, ascoltando e riportando soprattutto le esperienze concrete delle persone, delle comunità e dei territori. Con una parte dedicata alla teoria e al pensiero libertario, anti autoritario e antimilitarista.

"Malamente", durante la pandemia, non si è fatta irretire dai ricatti morali ed rimasta attacca al proprio percorso e alle proprie convinzioni, criticando gli aspetti autoritari della gestione. Questo la rende unica.

Dalla rivista Malamente sono nate più recentemente anche le Edizioni Malamente, una piccola casa editrice indipendente che molto seriamente propone pubblicazioni di grandissimo interesse, sempre incentrate sulla critica del potere e sul pensiero libertario e sulla costruzione di alternative nel territorio.

Per tutti questi motivi credo che i 20 euro richiesti per sottoscrivere l'abbonamento annuale e ricevere 4 numeri trimestrali, siano 20 euro veramente ben spesi.

venerdì 4 aprile 2025

"Adolescence". O dell'innocenza sconvolgente (attenzione: spoiler)

Adolescence mi è sembrato un oggetto filmico alquanto misterioso. Contribuisce a questa impressione lo stile di regia, basato sulla scelta radicale di usare un unico piano sequenza per ognuno dei quattro episodi. Senza cesure temporali, quindi, né salti spaziali o cambi di inquadratura. Il tempo della narrazione coincide con quello dei personaggi e con quello dello spettatore. L'effetto è allo stesso tempo straniante e iper-coinvolgente. Data la trama, questa scelta comporta che ci siano lunghe sequenze in cui non si vede altro che dolore, o sbigottimento, ma soprattutto il dolore di questo o quel personaggio, per tutta la sua estenuante e deformante durata. L'assenza di cesure, omissioni, sintesi, costrutti linguistici (certo, solo apparentemente), potrebbe far parlare di una "pornografia della sofferenza".
C'è poi il depistaggio del titolo, che alla fine lascia in testa la domanda: dato che questo film NON parla di adolescenza, di cosa parla? 
Parla di un adolescente, ma questo non sembra essere il punto centrale: la serie non potrebbe intitolarsi “Jamie".

Secondo me potrebbe intitolarsi "Innocence". È questo il tema segreto e inconfessabile del film, mi pare. Inconfessabile perché, dichiarandolo, apparirebbe inaccettabilmente provocatorio, visto che al centro della trama c'è un femminicidio. E il termine “innocenza” non sarebbe riferito alla condizione della vittima, ma a quella dell'assassino. 

Perché innocenza? Quale innocenza? 

L'inizio del film è disturbante e doloroso: quando Jamie, il protagonista tredicenne, viene prelevato brutalmente da casa dalla polizia, noi non possiamo credere che quel ragazzino dall'aspetto così infantile e fragile e inerme, con la sua disperazione, possa avere compiuto il crimine di cui è accusato. In fondo Jamie è solo "un bambino di tredici anni", come dice lui stesso alla psicologa in seguito. A chi potrebbe fare paura? Come potrebbe essere colpevole?

Per tutto il tempo Jamie si dichiara innocente. Interrogato dal padre, nega di avere compiuto il delitto. Di fronte alla videoregistrazione che mostra il fatto, dice che non è vero, che un film può anche non mostrare la verità.
Lì, davanti a quel video, il padre di Jamie crolla: capisce che il figlio ha davvero commesso un assassinio e il mondo gli cade addosso.

Noi però non ci crediamo, che sia stato Jamie. Non ci crediamo perché Jamie non ci crede. Se Jamie si dichiara innocente non è perché mente, è perché è, deve essere innocente. Di un'innocenza spaventosa, pericolosa, metafisica, difficile anche soltanto da pensare. Perché pensarla significa aprire una domanda che riguarda il rapporto tra un ideale stato di natura degli individui, dove la vita si rigenera di continuo e ognuno è solo ciò che è in quel momento, e le norme sociali necessarie, che riconducono ogni fatto e ogni persona all’interno di una vasta e complessa narrazione condivisa. 

Che Jamie sia innocente non lo pensiamo noi spettatori perché abbiano strampalate, ambigue e magari aberranti idee filosofiche: lo dice il film stesso. Non attraverso la trama - che è di una semplicità e di chiarezza disarmanti, al limite della banalità - ma attraverso alcuni usi particolari del linguaggio cinematografico. Lo dice attraverso la fisionomia di Jamie, e attraverso il tipo di interpretazione richiesta al giovane attore che lo interpreta; attraverso l'indugiare pressante e compassionevole della camera a mano sul suo volto; attraverso i pochi ma significativi inserti musicali, che nei momenti cruciali sono litanie malinconiche cantate da voci bianche. Queste sembrano avere il compito di sublimare la storia in una dimensione ambiguamente angelica. 
(Considerato tutto il contesto, viene in mente l'uso "metafisico" che il Pasolini regista fa della musica, per rivelare i limiti del Neorealismo e allo stesso tempo, aprendo squarci di altrove nel tessuto del racconto realistico, superarli.) 

Dunque Jamie è innocente, qualunque cosa abbia fatto, perché - metaforicamente - è un angelo. Gli angeli tifano per lui, e lavorano per suscitare la nostra empatia. Non c'è crimine, assassinio, femminicidio che tenga. 

Perché Jamie è un angelo, mentre Turetta e quelli come lui sono dei criminali tra i peggiori? 
Perché Jamie vive nel mondo della finzione, e i suoi autori hanno deciso di assegnargli questo ruolo, questa condizione. Tutto qui. La realtà è un'altra cosa, funziona in un altro modo. E Adolescence parla solo in parte della realtà.
Mi pare infatti che la serie parli soprattutto di finzione. Di letteratura. Di narrativa. Di come il senso della vita tenda a uniformarsi ai significati e agli schemi di una narrazione potenziale. La vita di per sé è cruda e informe, non ha senso, non ha regole, schemi, traiettorie, stili, limiti. La narrazione ha e deve avere tutte queste cose.

Il film sembra dirci che, nella vita, nella sua vita cruda, Jamie è innocente, per davvero, perché veramente non è stato lui
Chi è stato allora? Non lo sappiamo. Una forza che si è impossessata di lui? Un raptus che lo ha attraversato come una scossa elettrica? Una parte di lui, che in quel momento ha preso il controllo del suo corpo, ma che non è LUI? Un lui del passato, che ha cessato di esistere nel momento in cui si è conclusa l’azione, e che, di nuovo, non è LUI? Il Diavolo o altre entità del genere? Non lo sappiamo. A un certo punto smettiamo di chiedercelo.

Molte critiche e recensioni si sono concentrate sugli aspetti sociologici della serie, come se fosse un'opera di critica sociale, o di denuncia, o con un qualche valore didattico ed edificante. Non credo sia così. La serie tocca alcuni temi sociali, è vero: Jamie viene bullizzato nella sua sfera relazionale e sessuale da quella che sarà la sua vittima; Jamie è condizionato da assurde teorie maschiliste e misogine apprese online e circolanti nella sua scuola; Jamie è insicuro e privo di autostima, e però è portato a reagire con violenza fisica; Jamie ha un rapporto problematico con il padre, del quale teme di non essere all'altezza … Ma tutto questo è talmente esile e superficiale, nell’economia dell’opera, da non poterne costituirne il nocciolo. 

Dunque, su un certo piano esistenziale Jamie è innocente, ci dicono gli sguardi della camera e i cori angelici. Ma nella narrazione Jamie è indubbiamente colpevole. 
Come se ne esce? Ecco come: la vita dovrà finire per uniformarsi alla narrazione.
Perché i due piani convergano e si sovrappongano, Jamie deve diventare un personaggio pirandelliano: un attore consapevole del suo ruolo nella commedia (anzi, tragedia).
Nell'ultimo episodio – dove Jamie non si vede mai, ma ne udiamo la voce nel corso di un'ultima, esiziale telefonata al padre – il ragazzo sembra avere compreso che la sua vita è sovrastata da una narrazione che assegna ai suoi gesti un determinato, ineluttabile e irreversibile significato. Sembra accettare il fatto che i suoi autori abbiano imbastito una storia che, date le forze messe in campo e le coordinate stabilite, DEVE necessariamente finire con due vittime. Una è la ragazza che "non lui" ha ucciso, che LUI non avrebbe mai ucciso. L'altra vittima designata è lui, che non può sottrarsi alla funzione narratologica in cui è stato imprigionato.
È con una serenità soave, sovrumana, terrificante, che Jamie informa il padre che al processo si dichiarerà colpevole. E, paradossalmente, è proprio questo il momento in cui la sua innocenza appare completa, assoluta, inconcepibile e incrollabile. Un’innocenza sconvolgente e perturbante, di cui sappiamo soltanto una cosa: che non è sinonimo di incolpevolezza.