Giulio Milani ti sorprende sempre. Poi, mentre ti riprendi dalla sorpresa ti rendi conto che nel frattempo ti sei preso anche due o tre schiaffi. E ti chiedi “cosa ho fatto di male per meritarmeli?” Ma la risposta che arriva risponde a un'altra domanda: “cosa mi ha fatto di buono Milani?”. E la risposta è che Milani ti ha tirato fuori dal torpore; ti ha dato uno scossone e ti ha fatto cadere dalla testa le foglie secche; ti ha scudisciato le gambe e ti ha levato uno strato di muffa che si stava arrampicando. E al quale tutto sommato ti stavi abituando.
Così, muore Massimo Canalini. Che è stato il fondatore della casa editrice il Lavoro Editoriale, e poi, grazie alla liaison dangereuse con Pier Vittorio Tondelli, del marchio editoriale Transeuropa. Che poi è diventata una casa editrice a sé, di cui Giulio Milani è divenuto proprietario ed editore vent’anni fa, essendo stato il più geniale e costante dei seguaci di Canalini.
Ed ecco che allora Giulio Milani si mette a scrivere un libro sul suo mentore e predecessore. E cosa ti tira fuori? Una biografia? Un saggetto? Una carrellata di aneddoti? Un trattatelo sull’editoria italiana? Un instant book?
No. Ti inventa un genere letterario, che è una mezza seduta spiritica, un mezzo rituale sciamanico, una mezza insurrezione armata (di parole). E, dentro questo strano, animalesco genere letterario, lui mette le mani nella merda e tira fuori dalla tomba gli spiriti di persone, cose, opere ed epoche, defunte o scomparse dalla scena e dalla memoria: li prende per i capelli e li tira fuori dall’oblio, dove probabilmente se ne stavano in pace, e gli grida in faccia “Oh! Parla!”. E li sbatacchia, finché quelli non tornano in vita e a loro volta lo spintonano, e cominciano a scalciare, e a tirare schiaffi a lui, che li ha scomodati, a noi lettori, che ci siamo intrufolati ignari ai margini di questa baruffa. E tirano calci negli stinchi alla nostra epoca presente, che ai loro occhi deve apparire così tragicamente squallida e comicamente perbenista, e indegna dei loro sperticati tentativi, successi e fallimenti.
La storia che Giulio Milani racconta è un albero pieno di rami e di radici che si sviluppano e s’intrecciano fino a rappresentare la forma e la sostanza di un labirinto. Come nel famoso racconto di Italo Calvino (uno degli autori più volte citati). E come nel racconto di Calvino, a un certo punto non si sa più dove sia l’alto e dove sia il basso, dove sia il vero e dove sia il finto, cosa si stia inseguendo e da cosa ci si stia allontanando. Perché la storia rianimata da Giulio Milani è una parte - la più fremente e irrequieta - di quel momento storico in cui il basso e l’alto si sono rimescolati, finalmente, e ha preso a dominare il senso di una notte magmatica e magica – scenario ideale per cogliere il passaggio di comete e di meteore incendiate. In questa notte, che ha travasato l’eredità del ribellismo punk degli anni ’80 nello sperimentalismo culturale e sociale degli anni ’90 – si vedono lampeggiare genialità, irregolarità, irriverenza, pensieri libertari e rivoluzionari, forme di autorganizzazione, anticonformismi radicali, strani salotti ebbri e sudici, sovvertimenti e infrazioni.
Qualità e gesti inattuali – oggi difficili anche da nominare senza provare disagio – che lampeggiano anche nella scrittura di Giulio Milani. Il quale si sporca, s’infanga, s’insanguina, si avvoltola completamente nella materia viva e terrosa del suo racconto. E ne emerge narratore ispirato, lucido e scatenato, come Arlecchino-quello-vero, demone ctonio che viene fuori dalla terra, sbucando da un mucchio di foglie marce, urlando la sua insopprimibile fame.
La scrittura di Giulio è una gara di corsa, una corsa contro il tempo (il nostro tempo), un rodeo sulla groppa della letteratura, un giro sulle montagne russe. Lui corre, insegue il suo obiettivo - che è una “indagine corsara su Canalini”, ma anche su tante altre cose - e ogni dieci righe ti pianta una forchetta in una chiappa. Perché tu non ti parcheggi nel piacere di rivangare certi passaggi storici della desaparecida controcultura italiana.
Milani ti dà del tu. Poi dà del tu a un personaggio che ha appena chiamato in causa. Poi dà del tu all’eventuale autore di una sceneggiatura tratta dal suo libro. Poi ricostruisce con trasporto gli ultimi mesi della vita di Tondelli. Poi si lancia in un’inventiva contro la normalizzazione delle aspirazioni di movimenti allora dirompenti. Poi ci riporta per l’ennesima volta nella redazione di Transeuropa, dove Canalini insegnava a leggere e a scrivere ai suoi giovanissimi autori (vessandoli e plasmandoli alquanto). Poi impreca, porca troia. Poi ci racconta la nascita non poco sorprendente di quel caposaldo che, per noi quaranta-cinquantenni, è stato “Jack Frusciante è uscito dal gruppo” (sia che l’abbiamo amato, sia che l’abbiamo detestato).
Tu sali e scendi, mentre Canalini rivoluziona il mondo dell’editoria italiana, inventa formati, scopre talenti, esplora la musica ribelle marchigiana, compie travasi impensabili tra ambiti finora compartimentati, cambia l’editoria, inventa marchi editoriali, vende marchi editoriali, traghetta i suoi autori verso altri lidi, rinuncia all’Einaudi come Totti ha rinunciato al Real Madrid, anima cenacoli come un demiurgo. E tu pensi alla letteratura e alla vita. E vedi sfilarti accanto paesaggi che riconosci, ma appaiono sfocati per quanto scorrono veloci. I colori sono intensi, impressionano la retina. Senti anche gli odori del paesaggio, quegli odori che da quando si viaggia in Frecciarossa con i finestrini sigillati non esistono più, sui treni c’è solo odore di detergenti e di chiuso, e il viaggio è diventato un non-tempo che collega non-luoghi.
Poi sei sulla groppa del toro, senti il suo sbuffo furioso, e senti anche quello di Giulio Milani, che lo tiene per le corna, quel toro. E a volte per le palle. E pesta pesante sui piatti, sul tamburo, sui tasti dello xilofono, qualche corda della chitarra si schianta e ti fa sobbalzare.
Se ne frega della forma pulita, se ne frega di regolare i decibel, Giulio Milani. Se ne frega se c’è qualche ripetizione (ma zero refusi, o quasi). Lui va a duemila, impreca, si lancia, tira schiaffi, rallenta. È barbarico, intemperante, malinconico, signorile, scurrile, forbito, riflessivo, tranciante. Compassionevole verso i “suoi” personaggi, innamorato della temperie culturale che essi animavano, inferocito verso il contesto storico e sociale che li sovrastava, e che ci ha portati fino a questo guado pieno di adorabili bolle di sapone.
Ma del resto “solo gli arresi possono credere che la storia dei processi rivoluzionari si sia esaurita nel Novecento”.
Del contenuto del libro – che è tanto, davvero tanto, ed è imperdibile per chiunque sia interessato alla letteratura e all’editoria, per qualunque motivo – non parlo, perché altri ne hanno parlato diffusamente. E perché sta lì, dentro il libro, alla portata di tutti, a pochi euro.
Ma devo dirvelo: se vi piace la storia scritta (e cancellata) dai vincitori, NON LEGGETE CODICE CANALINI.
Se vi piacciono i ribelli di maniera e di origine controllata, NON LEGGETE CODICE CANALINI.
Se siete soggetti al mar d’auto, al mal di mare, al mal d’aria, al mal di schiaffi, NON LEGGETE CODICE CANALINI.
Se state bene col culo sul divano, tra i cuscini comprati all’Ikea, incollati alle serie tv, NON LEGGETE CODICE CANALINI.
NON LEGGETE CODICE CANALINI, perché molto probabilmente vi farà venire la voglia irrefrenabile di racimolare ogni briciolo di tempo libero per leggere, studiare, rileggere i libri che avete amato a quindici anni e che vi hanno cambiato la vita (e forse poi li avete dimenticati). Vi farà venire la voglia di racimolare ogni briciolo di energia mentale per tornare alle origini delle vostre passioni e irrequietezze, per vedere la vera natura della nostra epoca, e per lottare.
Io vi ho avvertiti. Se non volete darmi retta, buttate giù un bicchiere di whiskey e saltate su questo tagadà, tenendovi saldi dovunque troviate un appiglio e guardando bene da tutte le parti per non perdere neanche un dettaglio di quello che vi schizzerà davanti agli occhi.
PS
Tempo fa qualche recensore ha definito Codice Canalini “libro dell’anno”. Io lo chiamerei “libro dell’anno zero”: perché da questo robusto e generoso dissodamento del terreno potrebbero nascere tante cose che si davano per estinte. Un nuovo corso di entusiasmo, ricerca, sperimentazione, schiaffi, sovvertimenti, indipendenza, nelle lettere e anche fuori.